domenica 23 settembre 2018

Tra due giorni non se ne parlerà più


Sulla polemica accesasi con la divulgazione in audio del contenuto di una conversazione privata tra Rocco Casalino e due giornalisti di Huffington Post, credo si debba innanzitutto far chiara distinzione tra la questione che sta al nocciolo di quanto affermato dal portavoce della Presidenza del Consiglio e quelle che le si sono immediatamente sovrapposte per riproporci ancora, ma a parti invertite (il che ci dà misura di quanto siano idealmente motivate), le solite risse tra gli estremisti della privacy e quelli della trasparenza, tra chi sostiene il primato della politica e chi quello della competenza tecnica, tra chi afferma che la forma è sostanza e chi invece che della forma la sostanza può sbattersene i controcoglioni.

Comincerei con lo sbarazzare il tavolo da queste ultime, per dare più attenzione a quella centrale. Lo faccio ponendo alcune domande. Solitamente, Huffington Post è benevolo col M5S? E Rocco Casalino, scafatissimo com’è, non ha messo in conto che quanto diceva a due giornalisti di quella testata venisse testuamente riportato? A uno dei due non è data forse esplicita consegna di informare i suoi lettori che «nel M5S è pronta una mega-vendetta», ancorché di riferirla a «fonte parlamentare»? Era tutto previsto, via, compreso il pressoché generale biasimo per il tono arrogante e minaccioso: era necessario mostrare il muso duro ai tecnici del Mef, occorreva che il muso duro fosse visto da tutti, per poterli poi additare più efficacemente all’opinione pubblica come i soli responsabili di un eventuale flop del Def. Il copione era già scritto, comprese le repliche alle critiche, peraltro tutte prevedibilissime.
Il messaggio è chiaro, e arriva nel modo più efficace a tutti i destinatari: non solo ai tecnici del Mef, ma anche a chiunque volesse assimilarli al titolare del dicastero per creare spaccature nel Governo e attriti col Quirinale, perché – sia chiaro – Giovanni Tria è «un ministro serio che si occupa dei problemi degli italiani».
Fa ridere, chi chiede la rimozione di Rocco Casalino dall’incarico affidatogli: è stato solerte esecutore di ordini che venivano dall’alto e, a considerare le dichiarazioni di Matteo Salvini sul caso, è assai probabile che la cosa fosse stata opportunamente concordata tra i vertici di Lega e M5S.
Tra due giorni non se ne parlerà più, ma intanto i tecnici del Mef adesso sanno cosa rischiano e non potranno più ritenersi al sicuro nella certezza, consolidata dalla pratica che ha accomunato Prima e Seconda Repubblica, che i politici passano, ma i tecnici restano.

Ma veniamo alla sostanza del problema, che direi si possa porre in questi termini: Rocco Casalino ha esposto in modo rozzo e volgare un concetto che tra le personcine fini ed eleganti è noto come «spoils system», e che peraltro è stato pienamente recepito dalla nostra legislazione, con la legge n. 145 del 15 luglio 2002, che dalla Consulta ha avuto conferma di legittimità costituzionale con la sentenza n. 233 del 16 giugno 2006.
Vi si legge che «per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro»; che «con il provvedimento di conferimento dellincarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi [...], sono individuati loggetto dellincarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dallorgano di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dellincarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati»; che «il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero linosservanza delle direttive imputabili al dirigente [...], comportano, ferma restando leventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, limpossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, lamministrazione può, inoltre, revocare lincarico […] ovvero recedere dal rapporto di lavoro».
Di là dal ritenere giusta o no una legge che consente alla politica di sbarazzarsi dei tecnici che a proprio insindacabile giudizio ritenga incapaci o indisponibili allo scopo loro preposto, dovè la differenza con quanto ha detto Rocco Casalino? Cè quellantipatico dare del «pezzo di merda» a chi si considera responsabile del «mancato raggiungimento degli obiettivi» o, peggio, dell«inosservanza delle direttive», e cè quella minaccia di «mega-vendetta» invece di una più mite constatazione dell«impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale», e infine cè quella «cosa ai coltelli» che dà un fastidioso eccesso di colore al ben più neutro «revocare lincarico», ma il giovanottone è un villico, esce dalla tv berlusconiana, cosa si può pretendere?

venerdì 21 settembre 2018

De causis corruptae eloquentiae


Incredibile, lo so, ma ve la racconto lo stesso.
Leggevo l’articolo di un tizio che lamentava il degrado della comunicazione pubblica: brutali volgarità, laide menzogne, diffusa aggressività e, soprattutto, ignoranza, tanta ignoranza. Bel pezzo, devo dire, non si poteva fare a meno di annuire ogni tre righe.
Costretto ad annuire di continuo, era possibile accadesse, e infatti è accaduto: annuendo mentre accostavo alle labbra il mio tazzone di caffè, me n’è caduto un po’ sul giornale.
D’istinto ho tamponato con un kleenex, ma ho fatto peggio: un pezzo del giornale è venuto via, lasciando un buco nella pagina. E qui viene il bello, perché attraverso il buco vedo che sotto c’è la ruvida superficie di un papiro sul quale sono impressi caratteri che compongono parole inconfutabilmente latine: «-ata peroratio atque pro- / -ptum in quo rata- / -ibi bene cecid- / …».
Trasalisco, ovviamente, e prima grattando con l’unghia, poi strappando a brani tutta la pagina del giornale, davanti a cosa mi trovo? Al De causis corruptae eloquentiae di Quintiliano, per tutti andato perduto. In realtà non si trattava dell’opera completa, ma solo del proemio, per giunta mutilo del finale.
Non vi dico con quale eccitazione mi fiondo a leggere. È lui, è lui, non c’è dubbio che sia proprio lui: periodo faticoso, frequenti ripetizioni, ogni concetto espresso sempre in due o tre modi diversi, ciascuno aperto a dare aggancio a uno sviluppo diverso. Da estenuare chi oggi non concepisce un saggio che non sia innanzitutto una sequenza di aneddoti, citazioni, citazioni di citazioni, carinerie e rimandi a ciò che si dà scontato si sia già letto, e che poi semmai non ha letto neppure chi scrive, ma di cui, a onor del vero, ha sentito parlare.
Quintiliano, no. Quintiliano procede per proposizioni che sono squadrate con pazienza dal granito, che vanno a costruire edifici resistenti pure ai terremoti di magnitudo 9, nei cui meandri a volte ci si perde, ma solo per tornare da dove si è partiti.
È con piacere che offro al mio lettore il proemio del De causis corruptae eloquentiae. Tradotto con qualche libertà, ovviamente, per non tediare troppo chi è abituato ad argomentazioni non più lunghe di 280 battute.
Superfluo dire, com’è d’obbligo per tutto ciò che è vecchio di secoli: di strabiliante attualità.


Non è obbligatorio scendere nel foro in cui l’uditorio sia manifestamente refrattario alla retta argomentazione per cercare di persuaderlo alle proprie ragioni. Se lo si fa, però, non ci si può lamentare che la retta argomentazione non ottenga il risultato voluto. D’altronde, se si sente irrinunciabile persuaderlo alle proprie ragioni, la retta argomentazione non è l’unico strumento a disposizione: ve ne sono di scorretti, ma assai efficaci, anzi, tanto più efficaci quanto più scorretti, perché la refrattarietà alla logica che informa la proposizione valida rende solitamente estremamente ricettivi a sofismi, paralogismi, antinomie, fallacie.
Usare strumenti scorretti potrà far sorgere qualche scrupolo, che però non sarà difficile soffocare nella convinzione che il fine giustifichi ogni mezzo, soprattutto se si sente indispensabile ottenerlo in fretta. Se non si è dominati da questa urgenza e, ancor più, se non si è disposti a usare un mezzo scorretto per ottenere il proprio fine, rimangono due sole alternative: non scendere affatto in quel foro; oppure scendervi, ma armati di coraggio e pazienza, disposti a spendere tutte le proprie energie in uno sforzo che in buona sostanza è tutto e solo pedagogico, avendo ben presente, però, che, anche se instancabilmente operoso, non è affatto detto sia destinato a trovare successo, tanto meno in tempi brevi.
Ciò premesso, a nessuno sfuggirà che lo spazio di comunicazione pubblica sia un foro; che il motivo per il quale solitamente vi si scende è sempre (in senso stretto o in senso lato) politico; che in quest’ambito relazionale la persuasione si traduce in consenso; che, quando questo sia maggioritario, darà legittimità al governo della cosa pubblica; che chi aspira al governo della cosa pubblica lo considera quasi sempre un fine irrinunciabile.
Non credo sia necessario tradurre nei termini che sono propri della lotta politica quanto si è poc’anzi detto: se il discorso pubblico è, al pari di ogni altra forma di comunicazione, l’articolazione di proposizioni che possono rispondere o meno alle norme della retta argomentazione, data una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%, c’è da attendersi che il ricorso a strumenti scorretti possa senz’alcun dubbio dare risultati assai migliori, e in tempi assai più brevi.
Cosa può dissuadere dal farlo? Nulla, in realtà. In teoria potrebb’esserci il sapere che un buon fine difficilmente resta tale quando è ottenuto con mezzi disonesti; sta di fatto che, quando il fine è considerato irrinunciabile, difficilmente si riuscirà a valutarne la bontà lungo l’iter necessario a conseguirlo, e questo a voler dar per certo che fosse buono all’inizio. Sempre in teoria potrebb’esserci il sapere che la persuasione ottenuta in tempi troppo brevi e con metodi scorretti è estremamente labile, perché su basi poco salde; in pratica, tuttavia, si finisce quasi sempre per credere, e anche a ragione, che a un consenso ottenuto con argomenti invalidi si possa dare continuità con nuovi argomenti, altrettanto invalidi, ma altrettanto efficaci.
Direi sia veramente difficile rinunciare a strumenti retorici disonesti quando si ha la certezza, fondata sull’esperienza, che una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75% risponde meglio a questi che a quelli onesti. È del tutto naturale, dunque, che anche chi scenda in un tal foro armato delle migliori intenzioni sia costretto a scegliere: un consenso facile e immediato, largo ancorché labile, ottenuto in modo disonesto, o un’onesta, lunga e faticosa missione pedagogica che miri ad un consenso che c’è attendersi comunque assai limitato? Solo scrupoli di natura morale possono scoraggiare dallo scegliere la prima opzione, ma non s’è sempre detto che politica e morale non hanno nulla da spartire? Come si può continuare a dirlo sostenendo nel contempo che è lecito acquistare consenso solo usando mezzi onesti? Che c’entra l’onestà con una pratica i cui risultati devono essere giudicati solo sul piano della capacità? E da cosa è dato, il giudizio, se non dalla misura del consenso? È dato dalla sua misura, non già da come lo si è ottenuto. E dunque si sia seri: chi ha fede nella retta argomentazione non può e non deve attendersi consenso nel foro in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%.
Non a caso parlo di fede. Se alla logica, infatti, attribuiamo le qualità che il credente attribuisce a Dio (ve n’è evidente corrispondenza quando questi lo chiama Logos), occorre rassegnarsi al fatto che il suo regno – il regno in cui la logica detta le norme al dire e al fare – non è di questo mondo; che, se decide di incarnarsi, la logica, deve essere disposta ad esser crocifissa, dopo essere stata offesa e derisa; che eventualmente può risorgere, ma solo per tornarsene da dov’è venuta, dopo una fugace Pentecoste che serve solo a lasciare a evangelisti, apostoli e discepoli il mandato al martirio; che può darsi tornerà alla fine dei tempi, ma solo per trovare sulla terra una sparuta manciata di giusti.
Si scherza, ovviamente, sappiamo che la logica non ha nulla di divino: è una tecnica, oppure, per meglio dire, è una disciplina, e ha regole ferree, inderogabili. Possiamo a buon diritto ribaltare quanto detto, com’è per tutto ciò che è divino: non è la logica ad aver creato l’uomo, ma viceversa; non apparve sulla terra così come la vediamo oggi, ma nel tempo, a dispetto del ritenerla anteriore e superiore ai tempi, ha subìto una profonda trasformazione, tanto profonda da farle perdere la primigenia natura; ha pretese universalistiche, ma deve fare i conti con le condizioni che incontra e non di rado l’inculturazione le riesce male, trovando resistenze che sembrano più biologiche che culturali; i suoi sacerdoti predicano bene, ma spesso sono sorpresi a razzolare male, e in più vestono insegne di casta; la fede in lei può facilmente trasformarsi nella vuota celebrazione di rituali astrusi, in un arido sistema di precetti algebrici che la vita quotidiana s’incarica di dimostrare inapplicabili.
Si fa torto al presente pensando che questo non sia accaduto sempre...


Nota al testo

Al lettore che si stupisse di trovare in un testo del I secolo la locuzione «analfabeti funzionali» occorre far presente che nelloriginale essa era resa dalla perifrasi «stulti qui vivunt, cogitant et loquuntur ad mentulam canis».

lunedì 17 settembre 2018

Siete serviti


In linea di principio, potrei anche rinunciare alla democrazia in favore di una forma di governo in cui il potere sia esercitato da un’élite illuminata, ma è che sul piano pratico vedo ostacoli insormontabili.
Il primo, e il più grosso, sta nel fatto che da un certo punto in poi potrei smettere di considerarla illuminata, ma allo stesso tempo non aver alcun diritto di metterne in discussione il potere, il che di fatto me la trasformerebbe in una dittatura. Infatti, delle due, una: o è sempre illuminata, e non può smettere d’esserlo (non è questo, infatti, che legittima il suo potere in alternativa alla democrazia?), e allora sono io in errore a pensare che non lo sia più (ma questo non implica che potrei essere stato in errore anche quando pensavo che lo fosse?); o è realmente possibile che abbia smesso d’essere illuminata (come è possibile che non lo sia mai stata), e allora non si capisce che bisogno avrei di rinunciare alla democrazia che mi consente di poter rivedere il mio giudizio a scadenze prefissate dopo aver verificato l’operato di chi ho eletto o dopo aver constatato che si trattava di un giudizio errato in partenza.
È che «élite» significa – appunto – «eletta», «scelta», ma il nodo del problema sta nel «da chi», perché, se su quanto sia illuminata, e per ciò legittimata ad esercitare il potere, devono esprimersi quanti in un sistema democratico sono periodicamente chiamati a scegliersi dei rappresentanti, tra élite e rappresentanza scompare ogni differenza, così come smette di esserci alternativa tra due forme di governo che in realtà sono una sola. Si dovrebbe, altrimenti, dar ragione a chi afferma che una democrazia regge solo se riesce a esprimere un’élite illuminata, che però si dà a intendere non possa sortire da un voto. Chi lo afferma, infatti, fa chiara distinzione tra élite ed eletti dal popolo, anche se ammette possano esserci aree di sovrapposizione e coincidenza tra i due insiemi in quelle personalità che riescano ad ottenere un rinnovato mandato elettivo per un lungo periodo. È tuttavia evidente che, se a esprimersi su quanto sia illuminata una cerchia di personalità cui si voglia affidare l’esercizio del potere devono essere chiamati tutti, la qualità in oggetto sarà semplicemente conferita da un consenso maggioritario, che non potrà mai avere peso assoluto, né tanto meno oggettivo: l’élite sarà illuminata del tanto che le sarà riconosciuto dalla maggioranza degli aventi diritto al voto e per la sola durata del mandato, ma allora che senso avrà considerare alternative due forme di governo che in realtà sono una sola?

Sì, confesso, fin qui ho giocato un poco a fare il finto tonto. In realtà so bene che, per definizione (ancorché all’etimo piaccia far confusione), un’élite illuminata non può sortire da un voto popolare: «da chi» dovrebbe essere «scelta», dunque? E soprattutto: come dovrebbe essere legittimata a esercitare il potere? Io qui credo che non ci sia altra soluzione: un’élite illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a quelle medie, come conoscenze e capacità a un alto grado d’eccellenza; non può altrimenti essere legittimata a esercitare il potere, dunque, che autolegittimandosi; né può altrimenti arrivare a esercitarlo se non indipendentemente dal consenso di chi in un sistema democratico sceglie i propri rappresentanti, nel senso che un eventuale consenso popolare potrà facilitarle il fine, con ciò dandole un mandato che si tradurrà in un’investitura d’autorità in tutto coincidente ad un’attribuzione di autorevolezza, ma non precluderglielo, perché c’è da supporre che i mezzi a sua disposizione siano in grado di raggiungerlo comunque, ancorché il buonsenso possa poi consigliare di non renderne manifesto il conseguimento (l’élite illuminata potrebbe decidere sia più opportuno esercitare il potere senza darlo da vedere, semmai condizionando le decisioni di chi il potere lo detiene solo formalmente per averne avuto investitura per suffragio universale).

Finto tonto anche qui? Sì, un pochino, ma era per mettere in evidenza la sostanziale coincidenza tra élite illuminata e oligarchia, dove non è affatto escluso che, nel prendere in mano il potere e nell’esercitarlo, entrambe possano godere del consenso popolare (almeno nella sua espressione maggioritaria, foss’anche nella forma di un’acquiescenza passiva) o della soggezione di chi il popolo ha scelto come suo rappresentante: finto tonto per alzare il velo d’ipocrisia e di mistificazione che sta nell’affermare l’impossibilità di una democrazia senza un’élite illuminata a correggerne gli errori, che sarebbero tutti nel volere degli elettori.
Ci sono due modi per dirlo, e per entrambi ricorrerò a degli esempi. 
Il primo è rozzo, ma assai efficace, quasi a prendere dal bignamino la teoria di Robert Michels: «Una oligarchia bene organizzata somiglia ad una democrazia possibile» (Giuliano Ferrara, Il Foglio, 22.5.2008).
Il secondo è un po’ più articolato, e forse anche perciò meno efficace, perché, quando c’è da affermare un principio sostanzialmente antidemocratico, l’articolazione finisce sempre per essere d’impaccio. Si tratta del rimprovero a chi ha «scarsa consapevolezza del fenomeno democratico quale organizzazione elitaria del potere. Dalla Gloriosa rivoluzione fino ai moti liberali dell’Ottocento, la strada per la democrazia è stata la strada per l’individuazione di una legittimazione del potere che comunque separasse l’élite dal volgo, i capaci dagli incapaci a governare. Le teorie e gli istituti democratici sono nati e si sono sviluppati al servizio di una teoria oligarchica della democrazia che consentisse una legittimazione nuova rispetto al potere assoluto del re, una legittimazione popolare sì, ma per un governo estraneo e riparato dai governati. Nella schizofrenia del continuo appello alla sovranità popolare e alle forme di democrazia diretta e partecipata e, d’altro lato, della contestuale delusione per le sue scelte, pensiamo che il busillis sia nelle soluzioni istituzionali che razionalizzino il principio maggioritario: voto sì ma non su tutto, e persino voto sì ma non per tutti. Ma il punto è molto più delicato dell’ingegneria istituzionale: democrazia non vuol dire necessariamente appello assoluto alla sovranità popolare, come troppo spesso si sente dire da alcuni partiti e movimenti politici e da una certa classe intellettuale, quando le torna comodo. Al contrario, la fortuna della democrazia si è avuta con l’erigersi del voto a illusione politica e col rafforzamento di una teoria del potere e della sovranità diversa dall’assolutismo ma comunque elitaria, che identificasse nella oligarchia degli eletti la legittimazione ad agire e al tempo stesso la garanzia dei talenti. Se questa è la democrazia, è democratico anche un sistema, come quello italiano, dove su certi argomenti il popolo non può esprimersi, o un regime che non fa della trasparenza e della volontà popolare il feticcio del potere legittimo. Se questa precisazione non ci piace, non ci resta che accettare sempre la volontà popolare, anche quando si esprime come non vorremmo» (Serena Sileoni, sempre su Il Foglio [dove sennò?], 5.7.2016). Che poi sarebbe stare al gioco anche quando se ne perde una tornata.

Ecco, direi di essere arrivato al punto cui mi proponevo di arrivare con questo intervento. Dobbiamo concepire la democrazia come «legittimazione popolare» di un «governo estraneo e riparato dai governati»? Dobbiamo credere che la democrazia possa reggere solo sullassunto che il voto sia «illusione politica»? Dobbiamo ritenere che una «sovranità diversa dall’assolutismo» sia possibile, ma solo se «comunque elitaria», consistente in una «oligarchia degli eletti», che già sarebbe tanto, visto che darsi per illuminata può pure essere unélite religiosa o militare?
Già, perché ancora non abbiamo chiarito a chi spetterebbe darle la certificazione di «illuminata». Si trattasse di unélite teocratica, sarebbe tutto facile, e invece chi sostiene che una democrazia è possibile solo a maquillage di unoligarchia professa molto spesso un credo laico, anche se poi altrettanto spesso si tratta di una laicità che sappoggia al «veluti si Deus daretur». Sarebbe tutto facile anche con unélite militare – anche troppo facile, direi, basterebbe contare i bernoccoli invece che le schede che escono dalle urne – ma dopo Julius Evola nessuno più contempla lipotesi. Illuminata, allora, sì, ma certificata tale da chi, se a darle tale certificazione a mezzo di elezioni significherebbe renderla un po meno élite?
Non se ne esce: abbiamo detto che un’élite illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a quelle medie? È evidente allora che solo in tale contesto può darsi legittimità a definire superiori certe qualità. In sostanza, non può essere che unélite illuminata a potersi dire illuminata. Non funziona col pazzo che dice di essere Napoleone, ma con lélite illuminata occorre funzioni.
Trattandosi di élite illuminata, non c’è dubbio che i criteri di cooptazione per entrare a farne parte sarebbero ineccepibili. Non c’è dubbio, per esempio, che l’entrare a farne parte non potrebbe mai essere motivato unicamente dall’esser figlio di chi già ne fa parte, ma da meriti incontestabili. D’altronde, chi mai potrebbe contestarli, questi presunti meriti, se non chi già ne faccia parte? E dunque: chi mi può assicurare che tra i membri di questa élite non si finisca per trovare un seppur tacito accordo del tipo «se chiudi un occhio su mio figlio, io poi ne chiudo uno sul tuo»? I figli so’ piezze ’e core, si sa. Qui in Italia, poi, più che mai. Non cè il rischio che questélite mi diventi anche dinastica?

Basta fare il finto tonto, sta stufando pure me: la sovranità, o appartiene al popolo o non gli appartiene. Deve esercitarla nelle forme e nei limiti prefissati dalla Costituzione che si dà, ma non possiamo dire gli appartenga solo per modo di dire. Sennò è del tutto naturale che si senta preso per il culo. E preso per il culo oggi, preso per il culo domani, finisce che sincazza e dà il peggio di sé. Allora sì che, come dice la Sileoni, diventa «volgo», ma diciamo che diventa difficile capire quanto già lo fosse di suo e quanto lo sia diventato per incazzatura. Che lo diventi potrà rafforzare in qualcuno la convinzione che unélite illuminata sia cosa estremamente necessaria, ma è evidente che quella messa in discussione dal «volgo» non fosse tanto illuminata da riuscire a conservare il potere che fino a un certo punto ha esercitato senza trovare ostacoli. Illuminata fino a un certo punto, diciamo, ma poi non più. Le dinastie decadono, diciamo. E se proprio è necessario che sia unélite a dare anima a una democrazia, ogni tanto un ricambio non guasta. Se al «volgo» spetta solo il ruolo di spettatore, ben venga ogni tanto una guerra per bande. Non si capisce, però, perché non debba vincere il migliore, e cioè loligarchia che meglio riesca a darsi faccia «volgare». Le elezioni dovevano servire unicamente a dare legittimazione a unoligarchia? Bene, siete serviti.

venerdì 14 settembre 2018

La logica che imporrebbe al becero grillozzo di tacere


La logica che imporrebbe al becero grillozzo di tacere dinanzi al sommo Burioni quando si discute di vaccini – parlo della logica che in una discussione su un tema di natura squisitamente tecnica nega parità di peso allopinione di chi è esperto in materia, soprattutto se carico di titoli che ne comprovano lautorevolezza, e a quella di chi esperto non è, e anzi non di rado è un emerito coglione – pretenderebbe, quando in questione è il codice penale, che limputato taccia quando parla lavvocato, che lavvocato stia zitto quando il giudice legge la sentenza, che il giudice di primo grado non apra bocca sulla decisione della Corte dAppello, che sia la Cassazione a dire lultima parola, se a volersela prendere non è la Consulta. Ahinoi, non va così.
Come il becero grillozzo pretende di tener lezione di virologia a Burioni, così Il Foglio pretende di spiegare al presidente della Corte dAppello di Roma perché ha sbagliato a condannare Buzzi e Carminati per associazione a delinquere di stampo mafioso. Con ineguagliabile garbo, però. Perché il grillozzo è aggressivo e petulante, e cè pure il caso che, a vedersi sbattere sul muso indiscutibili prove scientifiche, cerchi di svicolare per la tangente, tirando in ballo Popper e Feynman (ovviamente a cazzo di cane), arrivando addirittura allinsulto e alla minaccia. Il Foglio, no: saldo nella convinzione che la sentenza dappello sia stata imposta al giudice da un torbido ordito mediatico, né più né meno di come il grillozzo è saldo nella convinzione che Burioni faccia spot per i vaccini perché al soldo delle case farmaceutiche, ma tuttun altro stile.
Con la sentenza di primo grado, giorni e giorni a ricamare chiose e glosse, e «comeravamo stati bravi a dirlo fin dallinizio», e «aspetta che adesso te lo faccio rispiegare meglio da Tony e da Fiandaca», e «se proprio ti resta un dubbio, cè il simpatico Bordin che te lo fa passare in meno di mille battute, sennò cè la Chirico, che alla simpatia aggiunge un assai convincente accavallo di coscia»; con la sentenza dappello, profilo basso (musetto lungo, posa da Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich dinanzi ai marosi di una giustizia malata, un flemmatico «aspettiamo il deposito delle motivazioni», e il tutto in una sola giornata di magro).
Altro stile, ma stessa coriaceità del grillozzo: proprio non si vuol capire che quel benedetto art. 416 bis non parla di associazioni mafiose, ma di «associazioni di tipo mafioso», e che dunque in questione è una tipologia di reato, non la sua specchiabilità nel connotato di mafia come fin qui si è storicamente configurato. Pensi che sia un articolo stronzo? Legittimo pensarlo, ma intanto vige: facciamo finta di no?
Niente da fare, si insiste: «No violenza generalizzata, no attacco e infiltrazione nel cuore dello stato, no famiglie e cosche e rituali omertosi correlativi...», ma quando mai lart. 416 bis dice che è tutto questo a configurare la fattispecie? «Non c’è né un arsenale né un tesoro o tesoretto di capitali di un qualche peso...», ma forse che lart. 416 bis li contempla come indispensabili? Niente da fare, «c’è stato un tribunale che ha stabilito che il fatto è il fatto, e la bolla la bolla, sottraendo al processo e alla sentenza di primo grado tutto il glamour che invece l’accusa penale, rappresentata da giudici estranei alla conoscenza approfondita della città, richiedeva, in un contesto in cui se non sei un cacciatore di mafiosi sei uno stracciarolo della piccola delinquenza municipale, e nessuno è in grado di usare politicamente e demagogicamente il tuo lavoro». Solo in trasparenza, ovviamente, ma chiaramente si legge: «La scienza ufficiale è un verminaio di loschi interessi che sui vaccini impone il suo pensiero unico alla stragrande maggioranza degli operatori nel capo sanitario, che sono obbligati a rispettarlo se non vogliono pagarla cara: dite quello che volete, ma noi restiamo dellidea che i vaccini possano causare lautismo e che la chemioterapia possa essere sostituita dal bicarbonato».
Ma forse sbaglio io: sui virus e sui vaccini può aprire bocca solo Burioni, che ha studiato, si è laureato, si è specializzato e ha fatto ricerca per decenni e decenni; sul come sia da interpretare correttamente un articolo di legge, può bastare la licenza di maturità classica (non mi risulta che Ferrara si sia mai laureato, tanto meno in giurisprudenza).

Rimango attonito


Da stupeo, che sarebbe rimango attonito, abbiamo lo stupor, la sorpresa dinanzi al mai visto prima, allo straordinario, all’inatteso – sorpresa che spesso assume significato di scoperta, non di rado accompagnata a incanto – ma pure la stupiditas, lottusità che causa smarrimento – quasi sempre accompagnato da incidente, ancorché di entrambi spesso non si abbia segno di cosciente percezione – anche dinanzi a ciò che è comunemente risaputo, del tutto ordinario, facilmente prevedibile. Dedurremmo che la differenza tra stupor e stupiditas stia tutta negli strumenti della conoscenza di cui si è in possesso? Se sì, saremmo autorizzati a correggere chi si dice stupito del fatto che certezze considerate fino a ieri indiscutibili siano oggi così spesso e così pesantemente messe in discussione. A dispetto della reputazione di cui eventualmente godi – saremmo autorizzati a dirgli – è stupidità, non è stupore: è evidente che gli strumenti della conoscenza in tuo possesso fossero in realtà assai carenti o comunque assai male utilizzati. In tal caso, puoi darci assicurazione del fatto che il non utilizzarli a dovere non sia stato intenzionale? Liberaci da questo scrupolo: siamo sempre stati troppo buoni ieri a dar per certo che che tu fossi in possesso dei notevoli strumenti della conoscenza che l’opinione pubblica ti attribuiva o siamo troppo cattivi oggi a pensare che tu preferisca sembrarci stupido per stornare il sospetto che il non utilizzarli a dovere sia stato intenzionale?
Ieri, per esempio, davi per ormai fenomenologicamente connaturati, geneticamente acquisiti, storicamente irreversibili, sistemi come il libero mercato o la liberaldemocrazia, sicché sostenevi che metterci mano per proteggerli dalla concentrazione monopolistica o dall’ingerenza confessionale significava voler far violenza alla Natura, alla Genetica, alla Storia (e il fatto che usassi maiuscole nell’ambito delle cosiddette scienze sociali poteva, volendo, già puzzare un poco): nel farti paladino del laissez faire e dell’esportazione della democrazia, eri ispirato dall’Alto o eri a libro-paga di chi oggi mostra a te – finalmente, se eri solo sprovveduto – e a noi – purtroppo, se abbiamo voluto crederti – che le poste in gioco fossero ben altre?
Fai mostra di stupore, misto ad apprensione, per il fatto che oggi l’individuo sia sorpreso in affannosa ricerca di un’identità comunitaria e, ancor più, di cento piccole e tutto sommato inutili protezioni, in cambio delle quali è disposto a rinunciare a quasi tutti i diritti precedentemente acquisiti, ma dei quali non ha mai potuto far concreto utilizzo per darsi protezione da sé, pronto a rendersi cellula obbediente di uno Stato organico, fedele ricetrasmittente di un’etica di Stato, insomma un fascista 2.0 di cui dici di non saperti dar ragione, se non in uno sdegnato inorridire, ma non si tratta dello stesso individuo che ti tornava comodo da conformista della società alla Fine della Storia, e che ti dava prova di incrollabile fede democratica nel fatto che non andasse a votare? Non è lo stesso individuo che ti sembrava essere lUltimo Uomo proprio perché apparentemente convinto delle fake news ufficiali che ti erano commissionate dalle paternalistiche élites a guardia della ragion di Stato?
Tenevi tanto alla fama dhomme du monde, e di un mondo che aveva finalmente fatto i conti con le sue contraddizioni, e ora che riemergono aggravate dal non aver dato ad esse soluzione dallesito del conflitto che pretendevano si consumasse – il conflitto ti avrebbe guastato la digestione – ora, dico, ti stupisci che minaccino di metterti a soqquadro il sistemino filosofico che ti eri costruito? Tutta quella bella pedagogia che doveva far di una plebe un popolo, dandole a esempio da imitare il tizio che era riuscito a spacciarsi per datore di lavoro, in realtà prendendolo, che fine fatto dinanzi al mostro che oggi ti si para di fronte, rozzo, ignorante, aggressivo? Soprattutto: ti eri guadagnato una livrea da lacchè più bella della divisa di un ammiraglio, ti stupisci che oggi vogliano impiccarti ad un pennone? Ti confesso: rimango attonito.

martedì 4 settembre 2018

De tempore barbarico



Da mesi va diffondendosi, prendendo sempre maggiore consistenza, la sensazione di avere i barbari alle porte o addirittura già dentro le mura. Effetto del 4 marzo, ovviamente. Infatti, giacché sono le oche che fanno guardia in Campidoglio quando l’impero piscia come un colabrodo, un primo starnazzare s’ebbe già all’indomani delle Politiche, quando piangendo – così ci confidò Francesco Merlo – la Boschi si disperava – diceva – «non per la maldestra perdita di uno scudetto, e neppure perché finisce il sogno politico di questo Pd e della sinistra dei quarantenni, ma perché finisce un mondo che è fatto di letture e buone maniere, di educazione e di civiltà» (la Repubblica, 6.3.2018).
Volendo, poteva venire in mente la piccola Anja ne Il giardino dei ciliegi, ma chi poteva volerlo? Buone maniere, chi? Quali letture, poi? Campioni di quale educazione, i suoi compari, di quale civiltà? Bulli di provincia malamente ripuliti, smargiassi e gradassi della peggior risma, retroterra culturale da liceali, avevano per anni fatto oggetto dell’epiteto di «professorone» chiunque avesse un etto di cultura più di loro, mentre chi aveva anche soltanto un grammo di senso critico a porsi dubbi, e a porli in agorà, sul loro ipertiroideo fare per fare veniva rubricato senza appello a «gufo» o «rosicone». Fieri «rottamatori», armati di «lanciafiamme», sempre pronti a far roteare la mazza chiodata di un «ciaone» sulla zucca di chiunque osasse ostacolarne il baldanzoso passo. Piangeva, la Boschi, la cosa poteva – a piacere – intenerire o tirar via un sacrosanto «mafammoccammàmmete», e tuttavia era interessante considerare quell’autopercezione del sentirsi migliore espressione di un «mondo» ormai alla «fine». Nota, la «fine», ma che «mondo» era? Lasciamo sospesa la domanda.

Dal 4 marzo ad oggi lo starnazzare è diventato assordante. Tra i palmipedi da sempre rilevanti più per pâté che per pathos spicca oggi Il Foglio, che fino a all’altrieri ci invitava a guardare con sospetto tutti i «professoroni», a non dar troppa retta a Darwin e, più in generale, a nutrire i dovuti dubbi e le dovute paure sul faustiano mondo della scienza che per esempio col vaccino anti-hpv induceva alla troiaggine le ragazzine, sempre pronto a un liberatorio «e che palle!» ad ogni prepotenza del politically correct, sempre pronto a trollare con sublime crudeltà chiunque stesse sul cazzo al «signor direttore».
Oggi è irriconoscibile: d’un conformismo, ma d’un conformismo... Si rimpiangono quelle belle provocazioni da energumeno travestito da dandy che un tempo erano il marchio inconfondibile della casa. Oggi è pro-vax; si struscia con voluttuosità su ogni «parruccone» che gli capita a tiro; lamenta che i barbari giallo-verdi tendano vili agguati ai loro avversari su Twitter e su Facebook; dall’allarme perché sul barcone c’era il perfido jihadista s’è convertito a un open arms tutto zanotelliano.
Dico io: sei stato un precursore di questi zotici, e lo so che non ti sono venuti fighissimi, ma non essere incontentabile. Per un quarto di secolo hai vagheggiato il leader pop e dai modi spicci, e ora che fai, schifi il Truce? Ti ha eccitato fino allo squirting il giovane rampante, ignorante ma armato di fluente scilinguagnolo, e ora storci il muso a Giggino? E perché? Perché non usa il congiuntivo? Qualche anno fa te lo rimproverava Facci, per questo gli davi del fighetta, e ora, come San Quodvultdeus, ci ammolli il tuo dolente de tempore barbarico?

Nel qua-qua-qua che ci dà la sveglia dal Campidoglio non poteva mancare chi, sperando che Renzi durasse un ventennio, mirava a una carriera alla Maurizio Costanzo e che ora londa giallo-verde minaccia di far naufragare sullIsola dei famosi: lo senti strepitare che è «il secolo dello spegnimento dei lumi», e lo strepita dalla vetta del meglio di «filosofie, culture, correnti di pensiero, religioni» su cui onestamente verrebbe voglia di fargli un esamino per sapere con quale diritto ci sta sopra, per giunta più da pavone che da oca. Oh, niente di troppo difficile: basterebbe qualche domandina da Trivial Pursuit per vedere quanto tempo gli servirebbe per riempire un esangocino. Chessò, carino, dimmi: la virgola tra soggetto e verbo è barbara o ganza? Attenzione, prima rispondere: è di comune uso da parte di tutti falsi account che ancora non si è capito se a partorirli è Putin o Casaleggio, volendo potresti dire di aver fatto scuola.
Non si può fare, ha pure lui contezza del fatto che la vetta del meglio di «filosofie, culture, correnti di pensiero, religioni» altro non è che il tavolino del bar al quale si è dato appunto coi suoi amici al termine delle vacanze estive (per le «filosofie» ci sarà il buon Makkox, per le «culture» il buon Mantellini, per le «correnti di pensiero» il buon Bordone...), sicché non resta che «aspettare che le cose cambino in modi imprevisti – capita, nella Storia – o che a qualcuno venga un’idea geniale». E sì che da uno che si dà tante arie uno si aspetterebbe qualcosa in più di semplici sospiri.

La sensazione – ma è un po più di una sensazione, in certi istanti mi si para innanzi con la solidità di una certezza – è che a lamentarsi dellarrivo dei barbari siano solo – ripeto: solo – quelli che, in un modo o nellaltro, l’hanno sollecitato, finendo addirittura per spalancar loro le porte ed eccitarne la furia. Più dei barbari, che sono barbari, e non si può pretendere non lo siano, ritengo che sia loro la responsabilità del sacco che ora devasta la già peraltro devastata Urbe. Dovrebbero tacere, ma comprendo quanto sia difficile per chi non è capace di stare neppure ventiquattr’ore senza postare che è ancora vivo, e che per farcene gioire appieno allega apposita playlist: chi più, chi meno, avevano tutti conquistato una posizioncina, e ora la vedono in pericolo. In pericolo vedono soprattutto ciò che fino a ieri davano per scontato: poter continuare a lucrare rispetto da quella posizione. Perché nulla di peggio c’è per la famiglia mafiosa che si è ripulita, fa affari con le istituzioni e si è perfino comprata un albero genealogico che la dà d’antica nobiltà sveva o normanna, al netto d’un bisnonno semianalfabeta che stava tappato in un casolare a scrivere pizzini e a nutrirsi di cicoria e ricotta, che vedersi minacciato il salone degli arazzi, la biblioteca zeppa di volumi mai neppure sfogliati, da una mafia nuova, agguerrita, affamata, feroce come è sempre una mafia destinata a vincere su quella destinata a perdere. Saranno corleonesi, i grillini e i leghisti, ma onestamente a me pare che prima non ci fosse che Bontade.

Ad allargare il campo non mi pare sia troppo diverso. La globalizzazione trova sempre più numerosi oppositori, l’Unione europea trova sempre più scettici e critici, non è più di moda dirsi liberali, perfino sulla democrazia c’è qualche dubbio (diamo il voto solo a chi supera un apposito esamino o ci affidiamo a un leader cazzuto che sprizzi carisma da ogni poro?): e sì, ma a chi darne la colpa?
La globalizzazione – diciamocela tutta – non è stata guidata proprio da dio: si è data una manciata di riso a qualche miliardo di morti di fame, ma il riso si è comprato a spese del ceto medio, che medio ormai non è più, mentre sono aumentati i profitti di chi il riso lo distribuiva in cambio di forza-lavoro. Si è fatto di tutto per dar ragione a Marx, diciamo, anche se poi, per non dovergliela dare del tutto, si è mandato Fusaro nei talk show.
E l’Unione europea? Ci avevano creduto tutti, com’è che adesso trova critiche anche in chi continua a crederci? Non dev’essere venuta al meglio, tant’è che come unica virtù pare le resti solo la peraltro indimostrabile funzione di aver evitato lo scoppio di una guerra tra Francia e Inghilterra o tra Germania e Italia, come se poi quelle a colpi di spread, di casini in Libia e di Regeni uccisi al Cairo non fossero guerre guerreggiate in trasferta. Via, è venuta da schifo, questa Unione europea. E non si può certo dire che tutto vada storto perché alle elezioni europee la plebe ha messo sul trono un monarca stronzo. Se a surrogare un potere politico centrale che di fatto resta in mano ai paesi membri sono i delegati dei delegati, e se a reggere i cordoni della borsa è una Bce fatta com’è, ogni fesso che a due più due sappia rispondere tre o cinque mi diventa favorevole alla democrazia diretta, pronto a sentirsi sanculotto (supponendo che a proteggerlo sia San Culo).
E dove sono i tempi in cui perfino i miserabili sotto i ponti gridavano «meno stato, più mercato»? Funzionava: più pietanze alle élites, più avanzi al ceto medio, più briciole ai pezzenti. Poi la mano invisibile è sparita, e la compassione del capitalismo compassionevole è scemata: non è normale che gli schiavi che hanno costruito la piramide la vogliano nazionalizzare anche se dentro c’è posto per una mummia sola? Sarà ingenuo, ma vaglielo a spiegare.
E la democrazia? Com’è che m’è caduta in disgrazia, la democrazia? Sarà l’anaciclosi? Boh, di certo se un Sarkozy dà della «racaille» alla gente della periferia parigina e se un Hollande dà dell«édenté» a un poveraccio, un presidente della repubblica democraticamente eletto finisce per somigliare più a Luigi XVI che a Robespierre. Poi, sì, la plebe finirà per fare fuori entrambi, ma almeno sfoga il disappunto del momento. Non puoi considerarla bestia indomabile e poi considerarti l’unico in grado di domarla: prima o poi finisci male.

Questo post – avrete visto – apre con un video che riprende Salvini a Viterbo, qualche giorno fa. Nell’auriga – avrete visto – non aveva il servo a rammentargli «memento mori», è comprensibile che avesse un bel faccione sorridente, di quei bei faccioni che un linciaggio disfa in un niente. All’illuderlo di poter durare più di quanto al solito dura uno come lui e semmai a farlo in effetti durare anche un po’ di più – tranquilli, non si supera il ventennio – è il ceto politico che l’ha preceduto. Ciò che verrà da Salvini & c. – nulla di buono, c’è da credere – sarà il necessario momento di purificazione per chi, pur senza volerlo, lo ha lungamente incubato. Non c’è dubbio che sarà dura, che a farne le spese sarà pure chi non ne ha colpa alcuna, ma il mondo gira a questo modo, e così continuerà a girare, almeno fino a quando certi assunti rimarranno saldamente ancorati al senso comune. Che finora ha sempre fatto a pugni col buonsenso, e ha vinto sempre.