giovedì 25 marzo 2021

Corrispondenze

 


Un lettore estremamente attento a ciò che scrivo su queste pagine mi ha fatto notare che da qualche tempo insisto molto su un concetto che mi limito a enunciare come se fosse autoevidente, senza sentire alcun bisogno di dimostrarne la solidità, ma soprattutto senza considerarne le ultime conseguenze (non arriva all’imputazione di nichilismo, ma insomma...).

«Non credi sia apodittico – mi scrive – affermare, come fai tu, che il bene comune sia sempre fondato su “un interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un determinato numero di individui”? […] Tu fai discendere questo dal fatto che “buono, vero e bello (morale, dati scientifici e canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla storia di una società, e non sono superiori o antecedenti all’uomo, né in lui connaturati come universali e eterni”, per dirli “sempre dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali...”, ma “funzionali” a cosa? Funzionali, dici, alla difesa di “un interesse che è riuscito ad affermarsi come generale in seguito a un conflitto tra differenti, se non opposti, interessi particolari”. […] Non so se te ne avvedi, ma questo implica qualcosa che io credo sia dirompente: non esisterebbero valori condivisibili al di sopra degli interessi di parte, non vi sarebbe modo di costruire una convivenza su basi valoriali universalmente condivisibili, ma in fondo neppure basi valoriali per una qualsiasi forma di pacifica convivenza. Pensaci un attimo: negando di fatto che esistano valori realmente condivisibili da tutti, che fine fa la società? Se quello che una società dichiara essere bene comune nasconde sempre in realtà l’interesse particolare della classe che in quella società è riuscita a riuscita a imporsi come egemone, ogni patto sociale stipulato su valori condivisi è da considerare sempre un atto di resa che i perdenti hanno siglato in favore dei vincenti. [...] Questo a me pare un incubo: come se ne esce?».

Non se ne esce, caro R., semplicemente non se ne esce. D’altronde, cos’è che ti fa sembrare un incubo una realtà priva di valori che possano essere condivisi senza dover essere imposti? Semplice: è l’idea che buono, vero e bello siano concetti superiori o antecedenti all’uomo, o in lui connaturati come universali e eterni; in più, è un’idea di storia intesa come processo teso a dare su di essi un accordo equanime e unanime, come meta ultima dell’umana autocomprensione; in sostanza, è un vagheggiamento di uscita dalla storia, ma l’esperienza ci ha dato innumerevoli prove che l’incubo vero è proprio lì fuori, nel luogo dove buono, vero e bello sono dichiarati indiscutibili, e dunque non più motivo di conflitto. In realtà, l’esperienza ci ha dato innumerevoli prove che anche uscire dalla storia è impossibile.

Mi limito, qui, a considerare gli ultimi due tentativi fatti, tralasciando quelli effettuati nel corso dei secoli passati: il primo è stato quello di pensare a una società senza classi; il secondo è stato quello di pensare a un uomo senza gravami identitari. Nel primo caso, è parso ovvio che, senza classi, fossero impossibili interessi di classe: bastava abolirle e il bene comune si sarebbe fatto strada da solo. Nel secondo caso, è parso altrettanto ovvio che, liberato dai particolarismi identitari, l’uomo non avrebbe avuto più alcuna difficoltà nello scoprire in sé un’umanità che accomunava i suoi interessi a quelli di ogni altro suo simile. Il primo tentativo, come è noto, si è rivelato fallimentare: una società senza classi doveva comunque avere una guida, e la guida ha finito sempre per farsi classe, rivelando interessi non sempre coincidenti con quelli delle masse che era stata chiamata a guidare, almeno a giudicare dal rapido venir meno del consenso che esse le avevano inizialmente dato. Chi continua a sostenere la bontà del fine, peraltro, non riesce a offrire una soluzione soddisfacente per ovviare a quello che pare essere un insuperabile limite del mezzo: a tutt’oggi, infatti, non si ha esperienza di un tentativo di abolizione delle classi che non sia esitato nella formazione di un ceto dirigente la cui idea di bene comune non dovesse di regola essere brutalmente imposta.

Non diversamente pare stia andando col secondo tentativo, che è tuttora in atto: sembrano avere indubbio peso, infatti, le resistenze alla cosiddetta globalizzazione, che, attraverso il mercato unico mondiale, mira a imporre come indiscutibili dei valori che si ritiene non possano non essere condivisibili perché il mercato regga. Sembra, tuttavia, che il tozzo di pane offerto a miliardi di essere umani che fino a poco tempo fa morivano letteralmente di fame non basti a rendere accettabili i valori che fanno da companatico: il morto di fame si piglia il tozzo di pane, ma pare non sia disposto a rinunciare al proprio kit identitario. Superfluo dire che anche qui il conflitto torna a fare storia.

Ti dovrebbe esser chiaro, caro R., che la questione sta tutta in ciò che chiamiamo «valore». E qui, come ho già scritto in altre due o tre occasioni, io mi sento di dover dar ragione a quella bestia nera di Carl Schmitt, che in suo scritto minore, densissimo ancorché assai breve (Die Tyrannei del Werte, 1959-1960; in italiano lo trovi edito da Adelphi, 2008, col titolo La tirannia dei valori), sulla questione mi pare assai convincente.

Prima di entrare nel merito di ciò che Schmitt afferma, però, ritengo utile aprire una parentesi su un’altra questione, che a quella dei valori è strettamente collegata, e che pure ho già affrontato su queste pagine: la convenzione che divide i diritti tra «umani» e «civili», convenzione che regge sullo stesso assunto che buono, vero e bello siano concetti superiori o antecedenti all’uomo, o in lui connaturati come universali e eterni. Quelli «umani», infatti, sarebbero diritti che nascono insieme all’uomo, mentre quelli «civili» sarebbero acquisiti. In realtà, la storia insegna che tutti i diritti sono acquisiti e quelli che chiamiamo «diritti umani» sono semplicemente quelli acquisiti da molto più tempo, da tanto più tempo che ormai ci paiono imprescindibili dall’uomo, al punto che quelli di più assai recente acquisisione, e che pure ci paiono fondamentali, ci danno l’impressione di essere più scoperte che invenzioni: erano nati insieme all’uomo, ma fino a un certo punto non lo si sapeva ancora. Quando ne ho parlato, ho preso a esempio il diritto di migrare che dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 è messo tra quelli considerati «inalienabili», ma di cui non si ha traccia nel Bill of rights del 1789, né nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793. E qui, per dar conto di quanto il concetto di «valore» sia strettamente collegato a quello di «diritto umano», con ciò che implica il voler considerare, e a torto, trascendente ciò che in realtà è del tutto immanente, positivo, interamente immerso nella storia e nei conflitti dei quali essa non può fare a meno, occorre fare attenzione a una parolina che sembra assai innocente e invece è usata come un’arma per imporre come generale ogni interesse particolare, con ciò che ne consegue riguardo alla reale natura di quello che chiamiamo bene comune. Questa parolina è «dignità», che non a caso, nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, sta a ragione del doverli dichiarare tali: è nel loro rispetto che la dignità umana può dirsi piena. Sfugge ai più che il «dignus» della «dignitas» trae etimo, peraltro non del tutto certo, da un «dicere» e/o un «docere» che giocoforza implica un chi «dicit-docet» cosa valga e quanto, il quale non può farlo altrimenti che in veste di «dignitario», cioè di chi è investito del potere di conferire «valore» in nome e per conto di un’autorità costituita, che solitamente si dichiara interprete delle leggi di Dio o della Natura, che, quando cè da dare alluomo una dimensione creaturale, sostanzialmente coincidono.

Ovviamente Schmitt non perde tempo a interrogarsi sull’etimo dei termini in oggetto, va dritto al cuore della questione: «Il valore – scrive – non è, ma vale. […] Questo valere implica ovviamente un impulso tanto più forte alla realizzazione. Il valore aspira apertamene a essere messo in atto. Non è reale, ma è senza dubbio riferito alla realtà, e attende con impazienza di essere attuato ed eseguito». Ma come è riuscito a diventare indispensabile? Come è riuscito, il valore, che fino a un certo punto è stato attribuito solo a cose, a diventare misura della dignità delle persone? È accaduto col trionfo di «una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, [che è parso] minaccia[sse] la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo il regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno di valori come regno della validità ideale. Era un tentativo di affermare l’uomo come creatura libera e responsabile, non già in un essere, ma quantomeno nella validità di ciò che veniva chiamato valore. Un tentativo, questo, che può senz’altro essere definitito un surrogato positivistico del metafisico. La validità di valori si basa su atti di posizione. Ma chi è, qui, che pone i valori?». Qui, stranamente, Schmitt dice che la risposta più chiara a questa domanda è stata data da Max Weber, per il quale «a porre i valori è l’individuo umano nel suo totale libero arbitrio puramente soggettivo. Egli si sottrae così alla avalutatività assoluta del positivismo scientifico, contrapponendo a esso la sua visione del mondo libera, cioè soggettiva. La libertà puramente soggettiva della posizione di valori conduce però a un eterno conflitto di valori e delle visioni del mondo». «E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita – conclude Weber (Wissenschaft als Beruf, 1918) – e precisamente per l’eternità»; dacché Schmitt chiosa: «Sono sempre i valori a fomentare la battaglia e a tener viva l’ostilità».

Ritengo si possa trarne quanto basta per affermare che una condivisione di valori sia sempre basata sulla momentanea sconfitta di altri valori, e che questa condizione corrisponda alla vittoria di un interesse particolare che è riuscito a imporsi come generale su altri interessi particolari. Tutto sembra pacifico, ma è una pace che segue a una guerra, che non di rado è stata feroce.

Ecco perché, caro R., dietro la locuzione «bene comune» io non riesco a vedere alcuna comune convenienza. Per meglio dire: ad un determinato «bene comune» si può arrivare a con-venire, ma in quel luogo cè chi arriva come convocante e chi arriva come convocato, se non come obbligatoriamente coscritto.  

mercoledì 17 marzo 2021

Ma non mi aspetto alcuna risposta

 

Non è contraddittorio dire che tutte le misure restrittive della libertà di movimento sono necessarie a fare in modo che la campagna vaccinale possa darci la più ampia e rapida soluzione della pandemia per tornare finalmente alla normalità, e poi licenziare un documento nel quale si legge che, dopo aver avuto un contatto con un soggetto positivo al Sars-CoV-2, anche chi è vaccinato «deve adottare le stesse indicazioni preventive valide per una persona non sottoposta a vaccinazione, a prescindere dal tipo di vaccino ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione», con lobbligo di osservare dieci giorni di quarantena dal suddetto contatto, dalla quale potrà uscire solo dopo aver effettuato un test antigenico o molecolare che risulti negativo, senza con ciò potersi successivamente ritenere sollevato dalle regole di distanziamento sociale cui sono tenuti i soggetti non vaccinati? Non sollevo obiezioni a questi obblighi per il vaccinato, sia chiaro, accetto supinamente quanto il documento adduce a motivare questi obblighi (la protezione vaccinale non raggiunge mai il 100% di protezione, le famose varianti possono eludere la risposta immunitaria, ecc.), anzi dico di più: da vaccinato accetterei supinamente questi obblighi anche se la ragione non avesse alcunché di razionale ma fosse solo apotropaica, anche se accettarli servisse solo a far fede del mio senso civico come adesione a un gesto solo simbolico, ma moralmente eloquente per i benpensanti, perché sentimentalmente pregnante. Ma allora mi chiedo, sperando che la domanda non sia ritenuta provocatoria o, peggio, insultante, che senso abbia indicare il successo della campagna vaccinale come passo indispensabile per il ritorno alla vita di prima del marzo 2020? Se vaccinarmi non è servito a niente, perché continuo ad essere, almeno potenzialmente, ungibile e untore, perché a chi me lo fa presente pare una tragedia dover sospendere la somministrazione di un solo tipo di vaccino, quello della AstraZenica, e solo per tre o quattro giorni (sospensione che per la brevità pare essere più di bella maniera che avere valido scopo), peraltro al fine di escludere che esso sia responsabile dei gravi effetti indesiderati che anche solo ipoteticamente potrebbero essergli imputati? Sia chiaro, tuttavia, che me lo chiedo, ma non mi aspetto alcuna risposta.

martedì 16 marzo 2021

Il bugiardino dell’Aspirina e altre carabattole

 

Tra gli effetti indesiderati dellAspirina, puntualmente riportati dal suo bugiardino, ce ne sono alcuni che sono indicati come «gravi», altri come «fatali» e altri ancora come «letali»: non ne faccio lelenco, basta avere in casa una confezione del medicinale, aprirla, prendere il bugiardino e leggerlo. Non così col bugiardino del vaccino AstraZeneca contro il Sars-CoV-2, che però è facilmente accessibile in rete, sul sito dellAgenzia del Farmaco. Con uneccezione rispetto al bugiardino dellAspirina: per poterlo leggere, occorre cliccare «Accetta» in calce a un pop-up dal titolo «Condizioni di utilizzo del sistema» dopo aver apposto una spunta a «Ho letto e compreso le condizioni d’uso del sistema». Se non ho in casa una confezione di Aspirina, il sito dellAgenzia del Farmaco esige analoga procedura per farmene leggere il bugiardino? No. E perché? Per comprenderne la ragione non resta che leggere le «Condizioni di utilizzo del sistema». Leggendole, però, non sembra esserci nulla di strano, tanto più che neppure un cenno è dedicato al vaccino AstraZeneca: quel pop-up, insomma, potrebbe aprirsi alla richiesta del bugiardino di qualsiasi farmaco, incluso quello dellAspirina, cui invece si accede senza dover accettare condizioni di sorta. La stranezza deve essere nellovvio, che qui mi pare sia relativo ai punti in cui le condizioni richiedono – nellordine qui esposto – (1) che io «s[ia] consapevole che queste informazioni possono essere aggiornate più volte durante il periodo di validità del medicinale», (2) che «potrebbero sussistere difformità tra le informazioni qui presentate ed altre informazioni di dominio pubblico» e (3) che io «prend[a] atto che le informazioni pubblicate per questo medicinale potrebbero non rappresentare la versione più aggiornata». Se la sintassi risponde ad una logica, (1) e (3) mi dicono che tra gli effetti indesiderati del vaccino AstraZeneca potrebbero esservene di mai occorsi durante la sperimentazione clinica, mentre (2) mi dice che, in attesa che lAgenzia del Farmaco aggiorni le informazioni relative ai possibili effetti indesiderati del vaccino, quelle fin lì pubblicate non corrispondono a quelle di dominio pubblico. Mi pare ovvio che quelle di dominio pubblico non possano avere la stessa rilevanza che hanno quelle date dallAgenzia del Farmaco, e tuttavia neppure in modo implicito traspare quella che sarebbe la pur sacrosanta pretesa di far valere il parere di eminenti esperti in farmacologia, clinica e statistica sui «sembra» e sui «si dice» della zotica plebe. In sostanza, non cè scritto che le informazioni relative al vaccino AstraZeneca lì riportate siano le uniche da ritenersi sempre puntualmente ed attualmente valide, ma solo che potrebbero avere «difformità» rispetto ad altre. Cosa ci dice questa mancata riaffermazione di avere lunico e ultimo parere valido sul vaccino AstraZeneca, più che esplicita per tutti gli altri farmaci, insieme alla necessità di accettare le predette condizioni duso alla lettura del suo bugiardino? Ogni risposta mi pare un azzardo: mi limito a considerare che chi in queste ore ripete che, «a leggere il bugiardino dellAspirina, nessuno più lassumerebbe», è intellettualmente meno onesto dellAgenzia del Farmaco. L’affermazione, infatti, tende a sussumere nella stessa categoria di rischi quelli che sono comuni ad ogni farmaco sul quale si sia fin qui avuto un lungo, ampio e approfondito studio post-autorizzativo (non a caso, perciò, si prende a esempio l’Aspirina, perché è farmaco che si usa da sempre, che si compra in farmacia senza ricetta medica, ecc.) con quelli di un vaccino approntato in tempi brevissimi e con procedure durgenza. Quel che rivela maggiore disonestà intellettuale in questo caso, però, è che a ritenere accettabile questa sussunzione sono proprio coloro che maggiormente si sono distinti dal marzo 2020 ad oggi per un tuziorismo spinto. Il dogma di una cautela che, fino a ieri, si spingeva a dichiarare santo un lockdown generalizzato al fine di salvare anche un oltre ultranovantenne – era dovere morale immaginarsi come nostro nonno – oggi, non vale più: dopo poche ore da una dose di AstraZeneca, ne muore uno qui, uno lì, cinque in Germania, dodici nel Regno Unito, per giunta erano anche giovani, apparentemente sani, e lAgenzia del Farmaco correttamente si pone qualche problema, oltre a pararsi il culo, e loro? Ma, via, si muore tutti i giorni, di tutto, perfino di Aspirina, che vuoi che sia un morto, o due, o sette, su milioni di iniezioni di AstraZeneca?  Ma poi chi cazzo sono, chi li conosce, perché si dà tutta questa visibilità alla loro morte? Sarebbero morti comunque, via. Causa-effetto? Non diciamo sciocchezze. Correlazione? Anche il solo ipotizzarlo ci fa correre il rischio di mandare al diavolo la tanto millantata discontinuità con le misure del vecchio esecutivo e, se la campagna vaccinale va a puttane, ci va pure Draghi, si va alle elezioni, vincono le destre... Non scherziamo, via, fate sparire in fretta queste notizie, rubricatele come allarmismo. Pure ’sti giornalisti, cazzarola, erano stati così seri nell’allarmare a dovere sui reali rischi del virus, e ora eccoteli così irresponsabili nellallarmare sugli inesistenti rischi del vaccino. Sembravano così affidabili, e ora si rivelano così cinici da buttarsi su qualunque cosa possa tornar utile a far audience, ma è possibile? Pure ’sta cazzo di Agenzia del Farmaco, poi. E la Germania? E l’Olanda? Da non credere. 

Ah, dimenticavo: sul bugiardino del vaccino AstraZeneca non ho trovato traccia di possibili effetti collaterali «gravi», «fatali» o «letali»


[Molte sarebbero state le premesse a quanto fin qui detto per non essere frainteso. Per esempio, avrei dovuto dire che su queste pagine non sè mai detto che il Sars-CoV-2 non esista o che non costituisca un problema (che dovesse essere affrontato senza isterismi, senza spettacolarizzarlo, senza usarlo strumentalmente per fini criminali o miserabili, per lenire psicopatologie preesistenti o per tornare utile a progetti altrimenti irrealizzabili, questo sì, e non ho cambiato idea); né si è mai messa in dubbio limportanza della profilassi vaccinale (quello della Pfeizer è stato il mio quindicesimo vaccino, escludendo quelli anti-influenzali, che faccio ogni anno da almeno dieci). Ma, anche a farlo qui, chiudendo, so bene che non servirà a niente: contro il fanatismo non ci sono ragioni che tengano e lanno appena trascorso ci ha costretto a prendere atto che quello dei tuzioristi non è meno belluino di quello dei negazionisti. Di poi, cè che lo scontro tra queste due opposte orde di invasati si dà quasi interamente nelle forme che Guy Debord ha definito «spettacolo», inteso non già come «insieme di immagini», ma come «rapporto sociale fra individui mediato da immagini», che oggi si consuma quasi interamente nel luogo che replica la vita come «movimento autonomo del non-vivente»: in sostanza, nel succedaneo della relazione sociale come rappresentata dal web. Non cè spazio per premesse, per distinguo, tra bestie bestialmente opposte. Lunico scampo è offerto solo dallentrare in clandestinità: chiudere tutti gli account, ritirarsi nella vita vera.]

domenica 14 marzo 2021

Ore contate per l’odio online

 



«Se lo Stato è santo, la censura deve esistere»

Max Stirner – Der Einzige und sein Eigentum


Giulio Andreotti, Mariano Rumor, Oscar Luigi Scalfaro, Antonio Bisaglia, Francesco Compagna. E poi Giuliano Amato, Riccardo Misasi, Antonio Maccanico, Gianni Letta, Filippo Patroni Griffi. Basta una scorsa ai prestigiosi nomi che si sono succeduti alla carica di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per intuire limportanza del ruolo e la competenza che questo ruolo esige. Una competenza che, a detta di chi sta più addentro agli arcana imperii della nostra amata Republichetta, necessariamente implica doti non comuni sul piano tecnico e su quello politico. Fu per questo che assai timidamente, lanno scorso, avanzavo qualche perplessità sulliniziativa presa dallallora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Andrea Martella, che con apposito decreto aveva dato vita ad una commissione chiamata a studiare soluzioni per contrastare «lodio online» (tra virgolette perché il decreto si esprimeva proprio in questi termini). Di là dal ritenere – insieme – ridicolo e pericoloso dichiarare guerra a un sentimento, «non si capisce che senso abbia questa commissione – scrivevo – né quali innovative soluzioni essa possa partorire per arricchire la già fornita utensileria del nostro codice penale dedicata ai reati che sono concretizzazione dell’odio in forma di insulto, minaccia, calunnia, e perfino di malaugurio. Anche laddove essa fosse immaginata come embrione di un’authority che stabilmente vigili sul web, si fa fatica a immaginare possa bypassare la magistratura con funzione di censura» (Bisogna andarci cauti, col denigrare lodio Malvino, 9.2.2020). Ma la timidezza con la quale esprimevo queste mie perplessità era dovuta anche ad altro: questa cosa tra think tank e task force era composta da quindici persone che il parere pressoché unanime degli organi dinformazione dava tra i più esperti delle problematiche relative al web.

Sia chiaro che qui non sè mai preso per oro colato quel che cola dagli organi dinformazione, però stavolta qualcosa mi spingeva a fidarmi: nulla sapevo di quattordici dei quindici membri della neonata commissione, ma di uno, lottimo Mantellini, qualcosina sì, e quello bastava a darmi adeguata garanzia che anche gli altri fossero d’altrettale competenza, sicché, anche quando il Mantellini lasciò lincarico per motivi che mi sembrò indelicato approfondire, alla commissione anti-odio voluta dal Martella restarono appiccicati il prestigio e lautorevolezza che le avevo transitivamente conferito.

Con queste premesse, si può ben intuire con quanto interesse qui si attendessero i risultati dello studio della commissione anti-odio a fugare le mie perplessità, che, che seppure timidamente espresse, sentivo colpevoli di una patente mancanza di fede in competenze fuori discussione. Bene, il lavoro della commissione è giunto a conclusione.

Sarà che in genere sono incline a farmi sviare dai dettagli marginali, ma la prima cosa ad avermi colpito è la copertina del documento, che è opera di SacSix, noto street artist newyorkese chiamato ad affrescare gli interni di lussuosi hotel e ristoranti della Big Apple, a firmare una linea di sneakers della Adidas, a collaborare per le scene di alcuni film di Spike Lee, a curare ledizione degli MTV Video Music Awards del 2016, e le cui produzioni sono ottimamente quotate: impensabile che lillustrazione che impreziosisce il Rapporto finale del Gruppo di lavoro «Odio Online» non gli sia stata doverosamente retribuita. Quanto, è senza dubbio una stupida curiosità. Se fosse necessaria, forse, un po meno.

Il secondo dettaglio che mè balzato agli occhi, subito dopo, è lultima pagina del documento, quella dei Ringraziamenti. Qui vengo a conoscenza del fatto che i quindici esperti chiamati dal Martella ad estirpare lodio dal web – quattordici, dopo le dimissioni del Mantellini – sono diventati venticinque, che si sono avvalsi di ben ventotto consulenti, per partorire diciotto paginette dallariosa interlinea, nelle quali ciò che è ragionevolmente condivisibile sul piano dellanalisi è di una avvilente banalità, mentre ciò che pare offrirsi a soluzione del problema è di una sconcertante vaghezza, cui tuttavia fa schermo il noto gergo da internettologi con almeno due dozzine danni di esperienza sul groppone, che hanno gas discharge o stink release in luogo delle nostre banali e ignoranti scoregge.

La Premessa apre con unaffermazione che deve essere stata oggetto di assai meditata riflessione: lodio è un sentimento. Quello che, però, dà la piena misura di quanto la competenza qui chiamata a esprimere il suo informato parere su un tema estremamente delicato come lodio non sia fredda conoscenza tecnica è la concessione che «gli esseri umani sono liberi di provare sentimenti». Non so a voi, ma a me questo pare molto bello.

Sì, ma cosè lodio? Di fronte a una domanda tanto impegnativa, quanti di noi, che esperti non siamo, ci saremmo trovati in seria difficoltà? Non gli internettologi della commissione voluta dal Martella, ai quali è venuta in testa unidea geniale: consultare un dizionario. Qui hanno preso atto, concordando (non sappiamo se all’unanimità), che lodio è quel «sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui». Ci sarà voluto il tempo necessario per arrivarci, ma direi che non sia stato speso invano. Tanto più che proprio questo primo passo della commissione consente quello successivo, col quale, in un assunto assai elegantemente esposto, viene racchiusa una preziosa perla di filosofia del diritto: «Quando dal desiderio del male altrui si passa all’azione, per favorire o realizzare tale male, subentrano le responsabilità».

Così avviata, la riflessione non può che scorrere spedita, penserà luomo comune: quando unazione è imputata di mirare efficacemente al male altrui, si chiama un giudice e gli si chiede di valutare se ci sia o meno una responsabilità penale. Luomo comune, appunto, per il quale, dunque, la commissione potrebbe chiuderla qui e andare a ristorarsi al buffet. In realtà, ciò che sfugge alluomo comune è che un giudice opera in virtù delle leggi che il legislatore gli mette a disposizione: bastassero quelle vigenti, che senso avrebbe avuto una commissione anti-odio? È chiaro che quelle vigenti non bastano, e che ne occorrono di nuove. E tuttavia «i legislatori devono dimostrare grande saggezza. Perché su questa materia si osservano diritti in tensione tra loro, come la libertà di espressione, appunto, il diritto alla privacy, il diritto al rispetto della libertà di pensiero, coscienza e religione, il diritto di proprietà e la libertà di mercato, il diritto a essere difesi contro le violenze... Il problema fondamentale è quello di bilanciare i diversi diritti»: in sostanza, il rischio è che nuove leggi possano entrare in contraddizione con quelle già vigenti. Come se ne esce? È qui che occorre far spazio a una nuova fattispecie penale. Giacché «qualunque policy in materia di odio online non può non considerare che ci sono diverse gradazioni della gravità dei comportamenti dettati dall’odio e diverse manifestazioni di odio, […] l’argomento prioritario di una policy sull’odio online riguarda i casi in cui si arriva a generare una lesione dell’ordine pubblico»: in altri termini, dovrà trovarsi il modo di imputare a unazione di mirare efficacemente al male altrui, se e quando sia in grado di turbare l’ordine pubblico, un ordine che è evidentemente diverso da quello garantito dalle leggi vigenti, a meno che non si voglia credere che tale garanzia non sia mai stata piena. Si è giocoforza chiamati a interrogarsi sulla natura di un ordine pubblico così riconsiderato. Vediamo come.

«L’espressione di odio attraverso internet non riduce la difficoltà di definire il sentimento in modo standardizzato ma aggiunge un ulteriore elemento di complessità, per la capacità delle tecnologie digitali di influenzare i comportamenti delle persone e amplificarne la portata, creando nel contempo le condizioni per implementare peculiari modalità di contenimento». In buona evidenza, siamo dinanzi al tentativo di immaginare unimputabilità di turbamento dellordine pubblico che scatti quando potenzialmente in grado di creare consenso riguardo ad unazione mirante a turbarlo: in parole povere, al giudice si affianca il sociologo, qui inteso come ingegnere sociale. Sia chiaro, nessuno è così ingenuo, qui, da ignorare che qualsiasi legislazione nasce in un funzione di un particolare ordine pubblico che si intenda tutelare; né si ignora che, in tal senso, il legislatore svolga un ruolo di garante degli interessi che tale ordine pubblico è chiamato a difendere; dovrebbe essere chiaro, tuttavia, che una cosa è la difesa di questi interessi, che da particolari sono riusciti ad affermarsi come generali, con gli strumenti della repressione delle azioni miranti a lederli, unaltra è la loro difesa con gli strumenti della repressione delle azioni miranti a mettere in discussione che essi siano realmente interessi generali. Ritenendo indispensabile questo secondo tipo di difesa, diventa «odio» tutto ciò che sia potenzialmente in grado di minare il consenso attorno a interessi, che da particolari sono riusciti ad affermarsi come generali, col metterne in discussione la legittimità dellaffermazione. Detto prosaicamente, il tentativo è quello di sterilizzare il conflitto sociale.

Anche se non ve ne fosse immediata coscienza, tale fine pare evidente laddove il Rapporto afferma che «i media digitali sono strumenti potenti e possono essere trasformativi anche per i fenomeni di odio, non solo perché i media, che tutti possono usare per esprimersi, liberano e talvolta amplificano la voce di ciascuno senza le intermediazioni tradizionali, ma anche perché gli algoritmi e le interfacce influenzano l’esposizione, la selezione e la diffusione dell’informazione, diventando veri e propri filtri cognitivi alla percezione della realtà». E quale interesse particolare è mai riuscito ad affermarsi come generale senza dover ricorrere a un filtro cognitivo alla percezione della realtà? Cosè la persuasione, se non la piena accettazione di un determinato filtro cognitivo? E perché mai i filtri cognitivi dovrebbero essere ad esclusivo appannaggio delle «intermediazioni tradizionali»? Daltronde, basta entrare nel merito delle proposte avanzate dal gruppo di lavoro sullodio online per aver chiaro che ogni soluzione non riesca a prospettarsi in altro modo che come riaffermazione di un particolare filtro cognitivo. Esse sono articolate in tre capitoli: «attività di prevenzione», «interventi normativi» e «sostegno allinfodiversità».

«Attività di prevenzione»: «Un programma educativo per l’epoca digitale, di pari ampiezza di quello che ha reso possibile accompagnare l’industrializzazione nel corso del “miracolo economico”, è in gran parte necessario. E non si rivolgerà soltanto ai giovani, ma all’insieme della società. [...] Il Ministero dell’Istruzione può lanciare un grande programma di modernizzazione culturale di base rafforzando il percorso di educazione all’uso consapevole del digitale previsto nel quadro dell’insegnamento dell’educazione civica introdotto nel 2019. [...] Premiare le aziende che attivano percorsi di formazione rivolti alle famiglie sui temi della consapevolezza digitale e in particolare sul contrasto ai discorsi di odio e a tutti i reati legati all’espressione (diffamazione, incitazione alla violenza e così via). […] Proporre allOrdine Nazionale dei Giornalisti lintegrazione del codice deontologico dei giornalisti con uno specifico articolo che possa vietare azioni mirate alla diffusione di discorsi di odio. Introduzione di una strategia di contrasto alla violenza sui media, con esemplari disposizioni da inserire nel contratto di servizio che regola il servizio pubblico, della Rai o delle aziende incaricate di svolgerlo. Condizionamento del finanziamento pubblico ai giornali al rispetto dell’obbligo – da introdurre – di astenersi dal ricorso a campagne di incitamento all’odio e dall’uso di un linguaggio discriminatorio». Stato, famiglia, ordini professionali: filtri cognitivi affidati ad intermediazioni tradizionali.

«Interventi normativi»: «Un controllo massivo dello Stato e della pubblica autorità che tenda a governare e filtrare il discorso pubblico in rete che travalichi la legittima e doverosa attività di prevenzione e repressione delle specifiche fattispecie di reato previste per legge sarebbe ovviamente inammissibile ». Daltra parte, «l’ordinamento già determina quali contenuti sono illeciti e quali comunicazioni in rete consentono da parte dello Stato interventi di rimozione e sanzione; ipotizzare una strategia repressiva con nuove forme di illeciti legati all’odio online appare arduo e inutile». Bene, e allora? «Per efficaci politiche di contenimento potrebbe esser utile creare centri di ascolto e percorsi assistiti per generare consapevolezza negli utenti resisi responsabili di condotte qualificabili come “hate speech”, soprattutto se minori o adolescenti. Anche per le vittime potrebbe esser utile prevedere percorsi di supporto per cercare di attenuare l’impatto subito da condotte di odio online. In caso di procedimenti per fattispecie penali legate all’odio online, potrebbero esser previste forme di definizione del processo con percorsi di recupero ed educativi, o forme di messa alla prova con condotte riparatorie in grado di estinguere il reato. […] Se è errato pensare di delegare alle piattaforme ed a provider privati il ruolo di “gatekeeper” che decidono ciò che è consentito e ciò che non è consentito comunicare pubblicamente, è però necessario incentivare la moderazione dei contenuti caricati dagli utenti a opera degli stessi provider, per permettere alle piattaforme la creazione di ambienti digitali più sicuri. [...] Regole certe e standardizzate per la segnalazione e la rimozione dei contenuti ritenuti dannosi [ritenuti dannosi da chi?] eventualmente agevolando accordi con “segnalatori privilegiati” individuati [individuati da chi?] in relazione al ruolo o all’attività svolta e obblighi di fornire informazioni all’autorità giudiziaria [in quale ruolo?]». Con un odio inteso come mero sentimento, il rischio sarebbe stato quello di una psico-polizia. Qui, dopo aver concesso che «gli esseri umani sono liberi di provare sentimenti», li si considera alunni discoli e si nomina un capoclasse.

«Sostegno allinfodiversità», capitolo che lascia sospesi tra il riso e il pianto. «Un contesto nel quale la struttura della piattaforma, i suoi algoritmi, la sua interfaccia, sia definita essenzialmente intorno al modello di business della raccolta pubblicitaria, nel quale dunque qualunque tipo di attenzione è un valore che si può vendere sul mercato della pubblicità, può tendere ad accettare qualche messaggio tossico in più. Anche per questo, a quanto pare, certi comportamenti sono stati consentiti sulle grandi piattaforme sociali attuali. Per l’enorme successo delle piattaforme sociali basate esclusivamente sulla pubblicità, una sorta di monocoltura pubblicitaria ha ridotto la biodiversità in questo settore. Una sorta di esternalità negativa del modello di business pubblicitario ha aumentato le probabilità, se così si può dire, di un “inquinamento” dell’ecosistema mediatico». Come si può disinquinare? «Nuove piattaforme, progettate in base a logiche più consapevoli dei diritti umani, possono essere favorite con forme di sostegno finanziario»: unetica di stato che si fa ipostasi in social network, ovviamente a spese del contribuente. Di poi, si potrebbero favorire forme di «aggregazione di persone che abbiano come loro atteggiamento mentale e sociale quello di evitare, rifiutare, disprezzare, le manifestazioni di odio. [...] L’influenza sul comportamento garantito da ambienti che attraggono soprattutto persone civili, rispettose degli altri, orientate all’ascolto e al dialogo sereno anche quando conflittuale o critico, sarebbe un forte incentivo ad adottare comportamenti civicamente avvertiti»: dar vita, insomma, ad una aristocrazia dei buoni sentimenti e dei modi fini, in cui ogni rozzo villano aspirerebbe ad entrare. Parti come zotico digitale, ma, se ti impegni, come Parsifal, diventi degno del Sacro Graal della civile conversazione online. Chissà, può darsi che un pizzico di fortuna possa portarti perfino ai livelli degli esperti chiamati dal Martella. Ma non metterci troppo il pensiero: l’empireo è già affollato di beati.