mercoledì 25 novembre 2020

Sulla popperiana Fälschungsmöglichkeit

 


Già due o tre volte, su queste pagine, ho scritto che, a mio modesto avviso, il termine «falsificabilità» può generare gravi fraintendimenti in luogo della «Fälschungsmöglichkeit» che Karl Popper formula come criterio per separare l’ambito delle teorie assoggettabili al metodo scientifico da quello delle teorie che non lo sono, e tuttavia non ho mai compiutamente argomentato sul perché. È quanto mi riprometto con questa pagina, che giocoforza mi rimanda a Logik der Forschung, l’opera di Popper in cui la «Fälschungsmöglichkeit» fa capolino per la prima volta fin dalle prime pagine (I, 4), e proprio come elemento per stabilire una demarcazione (Abgrenzungs) tra i due ambiti.

In quale campo si muovono le teorie non assoggettabili al metodo scientifico, se quelle che invece lo sono si muovono in quello «empirico»? Popper lo chiama «metafisico». Senza sapere perché ricorre a questo termine, la cosa avrà senzalcun dubbio il sapore di una semplificazione un po’ troppo grossolana: forse che le teorie formulate nell’ambito della cosiddetta soft science, che include scienze umane, come la psicologia, e quelle sociali, come l’economia, prescindono da qualsiasi dato empirico? No, di certo. Pretendono, per caso, lo statuto di scienza della «natura ultima e assoluta della realtà» (Treccani), che è quello della metafisica propriamente detta? Men che meno. E come possiamo, allora, considerare «metafisiche» le teorie di Freud o quelle di Marx? Come possiamo considerare «metafisiche» le costruzioni di Wittgenstein, Weber, Schmitt, Kelsen e Saussure? La loro, certo, non sarà una hard science, come invece lo sono la chimica o la fisica, ma questo ci consente di definire «metafisico» il campo in cui si muovono le loro teorie? In modo propriamente detto, no. Daltronde pare che anche Popper senta inadeguato il termine, perché in due o tre punti lo mette tra virgolette. E allora perché vi ricorre?

Perché vi è costretto dalla polemica che lo oppone ai positivisti. Questi ritengono che sia il metodo induttivo a caratterizzare le scienze empiriche, ma Popper non è d’accordo, perché, «per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi» (I, 1). Più in dettaglio: «Di solito i positivisti interpretano il problema della demarcazione […] come se si trattasse di un problema di scienza naturale. […] Essi credono di aver scoperto, tra scienza empirica da un lato e metafisica dall’altro, una differenza che esiste, per così dire, nella natura delle cose. Tentano costantemente di provare che per sua stessa natura la metafisica non è altro che una chiacchiera insensata […] Se con le parole “insensato” o “insignificante” non vogliamo esprimere nientaltro [...] che “non appartenente alla scienza empirica”, allora la caratterizzazione della metafisica come non-senso insignificante è assolutamente ovvia […] Ma [...] i positivisti credono di poter dire, intorno alla metafisica, molto di più che non che alcune delle sue asserzioni sono non-empiriche. […] Ciò che i positivisti vogliono veramente non è tanto una efficace demarcazione quanto piuttosto lo scalzamento e l’annichilimento definitivi della metafisica […] [E tuttavia] ogni qual volta i positivisti hanno tentato di dire con maggior chiarezza che cosa significhi “significante”, il loro tentativo ha condotto allo stesso risultato [e cioè] a una definizione di “enunciato significante” (distinto da “pseudo-enunciato insignificante”) che reiterava il criterio di demarcazione della loro logica induttiva. […] Ciò mostra come il criterio induttivistico di demarcazione non riesca a tracciare una linea di divisione tra sistemi scientifici e sistemi metafisici. […] Invece di sradicare la metafisica dalla scienza empirica, il positivismo conduce allirruzione della metafisica nel dominio della scienza» (I, 4). E poco oltre: «Il problema di demarcazione inerente alla logica induttiva, e cioè il dogma positivistico del significato [da segnalare il fatto che lo definisca «dogma»], è equivalente alla richiesta che tutte le asserzioni della scienza empirica (ovvero tutte le asserzioni “significanti”) debbano essere [...] passibili di una decisione conclusiva riguardo la loro verità e falsità» (I, 6). Ma come può essere conclusiva lasserzione che «tutti i cigni sono bianchi», cui mi ha condotto la logica induttiva, quando anche un solo cigno nero la smentisce? E cosa mi rivelerà che un sistema empirico di osservazione dei cigni è veramente scientifico o no? «Per essere scientifico, un sistema empirico deve poter essere confutato dallesperienza» (I, 6); e qui è da segnalare che, dove il corsivo intende dare rilevanza al testo, Popper non scrive «falsificato» (gefälscht), ma «confutato» (widerlegt).

Ma il reale senso da dare alla popperiana «Fälschungsmöglichkeit» appare ancor più evidente nel punto in cui si fa distinzione tra «falsificabilità e falsificazione» (il virgolettato dà titolo al paragrafo che tratta la questione – IV, 22), dove leggiamo: «Dobbiamo fare una netta distinzione tra falsificabilità e falsificazione. Abbiamo introdotto la falsificabilità soltanto come criterio per stabilire il carattere empirico di un sistema di asserzioni». Ciò che tuttavia rende solare, di là da ogni dubbio, che la teoria «falsificabile» non debba intensa come teoria «che si può falsificare», ma come teoria «passibile di essere confutata», è il passaggio della Prefazione all’edizione italiana (Penn, Buckinghamshire, marzo 1970) in cui Popper scrive: «Non c’è induzione: il nostro ragionamento non procede mai da fatti a teorie, se non per confutazioni o “falsificazioni”», dove «o» sta per «ovvero», «ossia», e dove il termine che si avverte possa essere frainteso è messo tra virgolette. Poche righe più in basso, daltra parte, il termine riappare, e stavolta è in corsivo e contrapposto a «verificazione», che di certo non sta per «inverare», ma per «confermare», «comprovare», «riscontrare»: è consentito inferire che, come la «verificazione» presume di comprovare la verità di una teoria, non già di renderla vera, così la «falsificazione» di una teoria non sta nelladulterarla, ma nel dimostrare che è confutabile. Per inciso, occorre rilevare che la tesi illustrata da Logik der Forschung è già in nuce nella famosa lettera di Albert Einstein a Max Born di otto anni prima (4 dicembre 1926), in cui si legge: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione, ma un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato».

Per chiudere questa premessa, che ritengo indispensabile per avvicinarsi al reale senso di un termine chiarendo il contesto in cui compare per la prima volta a designare un concetto fin lì inedito, ritengo utile segnalare che la «Fälschungsmöglichkeit» che troviamo in Logik der Forschung (1934) diventa la «falsification» che troviamo in The Logic of Scientific Discovery (1959) solo a un quarto di secolo di distanza. Nella Nota dellautore alla traduzione inglese leggiamo: «La traduzione fu preparata dallautore con laiuto di Julius e Lan Freed»; e i nomi dei due fratelli co-traduttori ritornano nei Ringraziamenti in coda a Realism and the Aim of Science from the Postscript to the Logic of Scientific Discovery, che è del 1956, dove si esprime loro gratitudine per aver «dato moltissimi suggerimenti per migliorare lo stile», mentre una nota dell’editore, tra parentesi, avverte: «Sono morti entrambi molti anni prima della sua pubblicazione». Molti anni prima del 1956, dunque.

Ora Popper arriva nel Regno Unito nel 1946 dalla Nuova Zelanda, dove ha riparato nel 1937 in seguito all’avvento del nazismo; nel Regno Unito ha però già stazionato per qualche tempo, tra il 1935 e il 1936, per un ciclo di conferenze. Si può ragionevomente desumere che la traduzione in inglese di Logik der Forschung debba essere iniziata non più tardi del suo definitivo trasferirsi nel Regno Unito, e che i fratelli Freed abbiano potuto assisterlo per due, tre, al massimo quattro anni. Sta di fatto che nella sua «autobiografia intellettuale», in The Library of Living Philosophers (1974), parlando della stesura di The Poverty of Historicism, che esce nel 1957, scrive: «Il mio primo guaio era soprattutto di doverlo scrivere in un inglese accettabile», segno che almeno per linglese scritto per lui rimanevano serie difficoltà a oltre ventanni dallessersi definitivamente stabilito a Londra. «Prima di allora – prosegue – avevo già scritto qualche cosa, ma dal punto linguistico era scritto veramente male». Ma «prima di allora» aveva tradotto dal tedesco allinglese la sua Logica della scoperta scientifica, e con laiuto dei Freed: «scritta male» anche quella? E per quale difficoltà intrinseca legata alla diversa natura delle due lingue? Il problema, per esempio, era più sintattico o lessicale? Soprattutto lessicale, a quanto pare: «Nessun lettore tedesco, per esempio, bada ai polisillabi. In inglese, invece, si deve imparare ad averne repulsione». Un polisillabo come «Fälschungsmöglichkeit» può aver dato qualche problema di resa in inglese? Sarebbe stato possibile renderlo con una perifrasi, certo, ma doveva esprimere un concetto cardine della tesi popperiana: era necessario fosse reso da una sola parola. La «possibilità» che in tedesco è espressa da «-möglich» riesce ad essere adeguatamente espressa in inglese da «-able»? E allora, via, «Fälschungsmöglichkeit» diventa «falsifiability». Ma, una volta che avrò dimostrato «falsch» una teoria, sarò stato io ad averla «gefälscht»? Certo che no. Potrò dunque dire che lho «falsified» se non ho fatto altro che dimostrarla «false»? Altrettanto certamente, no. Qual è il senso che allora devo dare allaffermazione che, per esser veramente tale, una teoria scientifica deve (poter) essere «falsificabile»? Non cè dubbio: deve (poter) essere inficiabile, confutabile, smentibile. Ma quanto è inficiata, confutata, smentita, dirla «falsificata» non implica che qualcuno l’abbia adulterata ab initio? Quando, poi, un brav’uomo come Mario Trinchero, incaricato dalla Einaudi di tradurre in italiano The Logic of Scientific Discovery, prova ad essere quanto più fedele possibile a un testo inglese tradotto con qualche affanno dal tedesco, cosa volete che ne possa venir fuori? 


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Difficile stringere tutto questo nei 280 caratteri di un tweet, ma ci ho provato, e a commento della segnalazione che Antonio Polito ha fatto del suo articolo sul Corriere della Sera di martedì 24 novembre (Serve la fiducia per costruire una comunità: anche sui vaccini), nel quale scriveva che «nel campo della scienza, ce l’ha insegnato Popper, non si può mai dire una volta e per sempre che un’affermazione sia vera, ma si può sottoporla a così tanti e severi tentativi di falsificazione da poterlo ragionevolmente presumere», ho twittato: «So che lo fanno tutti – la mia è una battaglia persa in partenza – ma tradurre la popperiana “Fälschungsmöglichkeit” con “falsificabilità” ingenera notevoli fraintendimenti: si tratta di “inficiabilità”, i dati scientifici sono inficiabili (quando falsificati, è truffa)». In prima battuta, mi ha risposto: «Hai ragione», ma poi la discussione è proseguita in privato. Qui mi ha fatto presente che «dimostrare falsa una teoria è qualcosa in più che inficiarla», al che ho risposto che «inficiarla significa dimostrare che non è valida» (sul piano della fondatezza fa qualche differenza tra «falso» e «invalido»?) e che «dire che una teoria è “falsificabile” implica che può nascere intenzionalmente falsa ab initio, mentre dire che è “inficiabile” implica che a posteriori se ne può dimostrare la non validità». Allora mi è stato proposto un compromesso: «“Fallibilità”: più di “inficiabilità”, meno di “falsificabilità”». Potevo rifiutare lofferta di un gentiluomo?


domenica 22 novembre 2020

Un souvenir

 


L’intervista che la scorsa settimana il fumettista, illustratore e regista Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, ha concesso a Esquire offre innumerevoli spunti di riflessione, ma qui ne svilupperò solo due o tre, cominciando col prendere in considerazione il brano relativo alle ragioni che hanno portato Gipi alla decisione di abbandonare i social network, che pare stia diventando un classico nel repertorio di molte nostre primedonne. Come un tempo, bevendo del cognac accanto al caminetto mentre il levriero sonnecchiava, ci appassionavamo su chi fosse stata miglior interprete dell’«ebben ne andrò lontana» che sta ne La Wally del Catalani, se la Callas o la Tebaldi, è il caso che domani, nella mensa dell’ospizio, sotto l’occhio vigile di una suora senegalese, discuteremo davanti a un brodino, con la stessa passione, se sia stato più toccante l’abbandono di Twitter da parte di Gipi o da parte di Mentana.

Perché ha abbandonato i social network, Gipi? Dall’intervista emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto, che poi è il punto in cui essi riproducono pressoché in tutto le dinamiche relazionali di quella che definisce «tribalità», e che dice essere «il problema della nostra società». E in cosa consiste, questa «tribalità»? «Nessuno riesce a fare un ragionamento autonomo. E non nel senso di pensare con la propria testa, del credere in se stesso o altre puttanate simili. Nel senso di sottoporre ad un esame spietato ogni proprio pensiero. Ogni convinzione. Per esempio: queste idee, questi principi, sono davvero miei? Li ho capiti? O mi sono stati solo trasmessi da qualcun altro? Dalla mia famiglia, dal mio giro, dalla mia cerchia di conoscenze?». Per esempio? «Se quello che ha parlato appartiene alla mia tribù, al mio giro, al mio gruppo, sono d’accordo. Se non fa parte della mia tribù, allora lo disprezzo. Indipendentemente dall’argomento o dal pensiero espresso. […] A me viene da pormi una domanda: è davvero possibile che nessuno, in nessuna delle due parti, dica mai qualcosa di logico agli occhi e alle orecchie della parte avversa? È possibile che non accada mai che qualcuno a destra riconosca la possibile ragionevolezza di una frase detta dalla sinistra e viceversa?».

La mano è senza dubbio assai naïf, ma la psicopatologia così ritratta da Gipi è la stessa che ritroviamo nei lavori di Serge Moscovici (Psicologia delle minoranze attive – Boringhieri, 1981), di John Levine e Mark Pavelchak (Psicologia sociale – Armando, 1986), di Geneviève Paicheler (Psicologia delle influenze sociali – Liguori, 1987), di Robert Cialdini (Le armi della propaganda – Giunti, 1995), di Angelica Mucchi Faina (L’influenza sociale – Il Mulino, 1996) e di Otto Kernberg (Le relazioni nei gruppi – Raffaello Cortina, 1998), tanto per citare gli autori che ho sullo scaffale più vicino. Psicopatologia sostanzialmente identica a se stessa da sempre, ma che, rispetto ai tempi in cui ancora il web non c’era, oggi sembra non avere più alcun bisogno di camuffarsi da militanza politica: faziosità, dogmatismo, doppia morale, spirito gregario si sono liberati dalle greppie di questa o quella ideologia, per diventare meri distintivi di appartenenza alla «tribù», che di ideologico d’altronde non ha più niente, ridotta com’è ad aggregato mobile, non di rado estemporaneo, di giri grossi e piccini, bolle dentro bolle, consorterie più o meno verniciate di prestigio, robette e robone tenute insieme da impasti più meno labili di simpatie e interessi, da politiche dell’amicizia che hanno lo scadenzario dei tour promozionali dell’ultima novità editoriale.

Dall’intervista – dicevamo – emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto. La decisione di Gipi, infatti, sembra non esaurirsi nella cancellazione di qualche account, ma nel chiamarsi fuori dalla logica della «tribalità», che il web si limita solo ad esasperare. Sembra che Gipi voglia farci credere che i social network l’abbiano fatto cadere in quella logica, che però non è mai stata la sua. E «ho molta vergogna per quello che ho fatto», dice, ma non sta parlando solo di questo o quel tweet, perché aggiunge «non potrei più andare in tv a fare battute su Salvini». Quando, dunque, dice «facevo parte di un meccanismo tribale», aggiungendo un «non ero abbastanza consapevole» quasi a volersene scusare, a parlare non è semplicemente @gipi, ma proprio Gian Alfonso Pacinotti, una delle punte di lancia di Propaganda live per esempio, che non è solo la trasmissione che piace alla gente che piace, ma anche il tempio in cui ogni venerdì sera una ben nota «tribù» celebra i suoi fasti. Bene, prendiamo atto, ma in sostanza cosa è accaduto? «Probabilmente mi sono sempre considerato di sinistra per caso – ci dice Gipi – accettando una serie di dogmi che adesso rifiuto». Risposta elusiva, caro Gipi, riformuliamo in altro modo la domanda: cosa te ne ha fatto rendere conto?

Domanda destinata a cadere nel vuoto, purtroppo non eravamo noi a intervistare Gipi. C’è da supporre, tuttavia, che a fargli rendere conto di dove si fosse andato a infilare sia stata la vicenda di cui è stato coprotagonista lo scorso gennaio. Ne ha parlato, non c’è bisogno d’altro che ridargli voce: «È successo questo: il mio amico Massimiliano Parente ha scritto un pezzo per il Giornale che ha fatto incazzare un sacco di gente. Nel pezzo, a un certo punto, dice che gioca a Call of Duty con me. Le persone che si sono incazzate con Massimiliano mi chiedono di “prendere le distanze”, di “dissociarmi”. Altri sono “sbigottiti” dal fatto che io possa essere amico di una tanto orribile creatura. A tutte le persone che hanno espresso il loro sbigottimento, voglio dirvelo: preferirò sempre le più storte, ignobili, irresponsabili, maldestre, infelici creature di questo mondo a questa nuova generazione di preti che mi ritrovo intorno e alla quale fate a gara per appartenere. Non prendo le distanze da un amico. Piuttosto lo meno in privato. Ma non sto dalla vostra parte. Non ci sono mai stato. Non ci starò mai» (Corriere della Sera, 9.1.2020). È stato questo a motivare la sua decisione di uscire dal «meccanismo tribale» o almeno ad innescare la riflessione che l’ha maturata? Non lo sapremo mai. Non ci resta che tornare all’intervista nel tentativo di cogliere qualche indizio che possa dar più forza alla nostra supposizione.

Ahinoi, ne troviamo uno che la indebolisce nel punto in cui leggiamo: «Tendevo a discutere con chiunque, anche con chi non lo meritava». Ora, io ho pieno diritto di dire a chicchessia che non ho voglia di discutere con lui. Non ha importanza quali siano le ragioni. Peraltro non sono neppure tenuto a dargliene conto. Non voglio discutere con lui e non ci discuto, punto. Il motivo? Basta, non mi va di dare spiegazioni. Comunque mi si giudichi, nessuno può costringermi a discutere con lui, né a dire perché non voglio. Altra cosa, però, è decidere di non discutere con lui, adducendo a ragione il fatto che «non mi merita», perché il «merito» è quanto «costituisce giusto motivo di stima, lode, riconoscimento, ecc.» (De Mauro): con la ragione addotta, io mi faccio metro di ciò che è «giusto», e cioè di ciò che è legittimo e fondato ben al di sopra di ogni valutazione tutta personale. Nel dire, insomma, a chicchessia che «non merita» ch’io discuta con lui, io avanzo una pretesa che esorbita dal mio diritto: pretendo che a una valutazione tutta personale vengano conferiti i crismi dell’inconfutabilità e dell’incontrovertibilità di ciò che tutti – lui compreso – sono tenuti a ritenere «giusto». È evidente che l’eventuale discussione non avrebbe avuto alcun senso, se non quella di farmi stabilire se il mio interlocutore fosse o no degno di «stima, lode, riconoscimento, ecc.», e cioè del «merito» che gli avrei riconosciuto continuando a discutere con lui. Sia chiaro, avrei potuto ricoscergli quel «merito» anche se nella discussione avessimo avuto posizioni diverse, ma è ovvio che, spettando a me il riconoscerglielo, gliel’avrei potuto negare in ogni momento. Nemmeno sarebbe stata una discussione, via, tutt’al più un esame a cui lui si sarebbe sottoposto per sapere con quanta benevolenza io fossi disposto a giudicarlo. Possiamo tranquillamente sorvolare su cosa ciò dica di me sul piano psicoanalitico, basti quanto è stato scritto da più autori sulla frase «tu non mi meriti» con la quale il narcisista mette fine a una relazione amorosa: uno per tutti, il già citato Otto Kernberg, però stavolta in Relazioni d’amore (Raffaello Cortina, 1995). Sul piano retorico, però, non si può sorvolare: io pretendo che il foro esterno sia tenuto a far proprie le ragioni del mio foro interno. Una pretesa che sta a corollario di quella di superiorità morale che è uno dei segni distintivi della «tribù» da cui Gipi è scappato. Diremmo che ne è scappato portandosene via un souvenir.

domenica 15 novembre 2020

Rap


Lo scorso giovedì – giovedì 12 novembre – La7 ha rinunciato per la prima volta a drammatizzare qualsiasi cosa abbia a che fare anche marginalmente con la pandemia da Covid-19 perché il quadro dinsieme sia massimamente spettacolarizzato. Voglio dire che un infarto di Crisanti in diretta avrebbe fatto una gran bella audience, e invece, niente, quando Formigli gli ha detto: «Senta, il governatore della Campania, De Luca, la vuole querelare, lo sa?», Crisanti si è limitato a cagarsi addosso, e questo, di drammatico, ha dato poco o niente. Diciamo che nel terrificante insieme di un Inferno assai simile a quello di Bosch, dove un orrido uccellaccio mangia tutti i sieropositivi e, dopo un veloce transito per unazzurrina bolla di terapia intensiva, plof, plof, plof, li defeca nel pozzo nero spalancato sotto il suo trono, Crisanti ci ha rimediato la figura del dannato col flauto ficcato in culo. In realtà, per quel nasale che ne caratterizza il timbro, in culo a Crisanti starebbe meglio un oboe, ma qui non è il caso di star troppo a sottilizzare. Ora, sia chiaro, un infarto in diretta sarebbe stato il massimo, ma pretenderlo da Crisanti neppure sarebbe stato giusto. In segno di gratitudine per tutta la visibilità che la La7 gli ha dato, però, Crisanti poteva almeno prodursi in uno svenimento. Niente, manco quello: «Ah, beh... uhm... uhm... ma perché... mi sorprende questo... comunque... vabbè... che lo facesse... non penso di aver detto... non penso...». Non parliamo di Formigli, poi, che, per chi adesso non lo avesse presente, è quello che «la realtà è la nostra passione». La realtà era che, di querela, De Luca aveva minacciato Ricciardi. Ora, dico io, con tutta questa passione che hai per la realtà, la tratti a questo modo? Errare humanum est, direte voi, e certo, dirò io, però, quando un lancinante «ahia!» della realtà ti fa capire che un eccesso di passione ti ha fatto sbagliare buco, che fai, abbozzi un sorrisuccio dimbarazzo, dici «pardon!», e continui a fottere? «Ah, no, scusi, non contro di lei, ma contro Ricciardi. Ho fatto confusione perché dopo di lei ci sarà il professor Ricciardi. Lo chiederò a lui, allora...». Eccheccazzo, Formi, drammatizzi tutto, drammatizza pure linfortunio. Quellingrato di Crisanti rifiuta dinfartuarsi in diretta, e manco sviene, e tutto sta per precipitare nel ridicolo, spezzando la tensione creata dal servizio mandato poc’anzi in onda, che tostissimo, tutto sommato, non era, ma che la musica di sottofondo rendeva straziante quanto basta a dare lo share giusto per enfatizzarmi lo spot degli assorbenti per le «gocce della risata», e tu mi smosci tutto a questo modo? Ma blocca tutto, cazzarola, e metti in scena un autodafé di quelli come Dio comanda: togli la camicia, prendi il flagello e fatti tutto lacerocontuso, schizza di sangue il megaschermo. Manco tanto perché tra due minuti dovrai definire «tragicomica» la figura di Cotticelli, ma per sostenermi il climax della trasmissione. 


martedì 10 novembre 2020

lunedì 9 novembre 2020

Invece di «anziani» ha detto «vecchi», lapidiamo il Bernabei!

 


Qualche pagina fa (Alla radice di una certa presunzione di superiorità morale Malvino, 7.10.2020), ho scritto che forse è Wittgenstein a dare «la miglior definizione» di Weltanschauung dove afferma che «etica ed estetica sono tutt’uno» (Tractatus logico-philosophicus, 6.421). In realtà, l’affermazione non ha neppure la struttura sintattica di una definizione, tuttavia mi pare colga un tratto essenziale – direi quasi fondante – di un’ideologia: per aver piena ragione della visione del mondo che rappresenta, essa non può rinunciare a inscrivere il suo ordine morale in una dimensione formale nella quale ogni significato etico abbia un significante estetico ben riconoscibile, sicché non può fare a meno di dirsi vera in quanto buona e non può fare a meno di dirsi buona in quanto bella. Ne consegue che tutto ciò che la contesta è falso perché cattivo, ed è cattivo perché brutto: l’interdizione morale, insomma, si traduce in censura di ciò che sul piano formale si pretende sia riprovevole perché sgradevole e inopportuno perché sconveniente. Accade quasi sempre, così, che le leggi morali che una visione del mondo si è data assumano forma di norme di un galateo, e che la loro violazione assuma il senso di una messa in discussione della verità che essa ritiene indiscutibile.

Un esempio di quanto si è fin qui detto ci è offerto, sul piano lessicale, dalla censura che cade su alcuni termini che una certa sinistra avverte come discriminanti, e dunque offensivi, ai danni delle minoranze di cui si intesta in esclusiva la cura degli interessi. In questo caso, come ho già scritto altrove (Cose cosìMalvino, 27.10.2020), la censura suona al modo cui Ricolfi ha così dato voce nel suo Perché siamo antipatici (Longanesi, 2005): «Tu non devi parlare come vuoi». Ora qui potremmo intrattenerci a lungo sulla reale efficacia di questa cura che, pretendendo si parli di «individuo verticalmente svantaggiato», non è comunque in grado di far crescere neppure di un centimetro un «nano», e tuttavia parrebbe che un dubbio al riguardo, per quanto ogni volta prontamente rimosso, insidi fin dal di dentro la politically correctness, costringendola a quell’incessante affanno dietro a ellissi, perifrasi, reticenze ed eufemismi per fare del «minorato» un «invalido», e di un «invalido» un «handicappato», e di un «handicappato» un «portatore di handicap», e di un «portatore di handicap» un «disabile», e di un «disabile» un «diversamente abile», senza che mai, peraltro, risulti pienamente soddisfatto il tentativo di mutare realmente la condizione dell’individuo in oggetto. Il termine censurato, così, diventa una minaccia, perché rivela l’inedaguatezza del mezzo che l’ideologia impiega al fine di offrire la sua visione del mondo come universalmente accettabile.

Questo è quanto accade con un termine come «vecchio», al quale si pretende sia preferito quello di «anziano» (per fortuna non si arriva a pretendere che sia sostituito da «diversamente giovane») a neutralizzare ogni possibile insinuazione che «vecchio» possa significare «inutile». Sul piano lessicale è interessante osservare che la censura, qui, opera un’inversione prospettica (con l’aggettivazione di un avverbio come «antea» l’«anteanus» diventa colui che viene molto prima, mentre «vetus» è colui che sta molto dopo) come a mettersi di spalle allo scorrere del tempo per evitare di vederne il termine, in una sorta di procedura esorcistica atta a rimuovere il pensiero della morte. Tutto questo, ovviamente, non è detto accada in modo cosciente, anzi è assai probabile che non lo sia per niente (il conformismo verbale non ha bisogno di darsi ragioni che abbiano fondamento logico, figuriamoci filologico), e che «vecchio» sia censurato per la semplice ragione di avere un suono troppo duro rispetto ad «anziano». È quanto accade, per esempio, con esclamazioni come «Cristo!» e «Gesù!», dove con la prima si ha sensazione che si stia imprecando da blasfemi e con la seconda che si stia invocando da devoti.

L’occasione per parlare della censura che la politically correctness muove all’uso del termine «vecchio» mi è data dalla sanzione morale che di recente è stata somministrata al professor Roberto Bernabei, primario geriatra presso il Policlinico «Agostino Gemelli» di Roma e membro del Comitato tecnico-scientifico del cui parere il Governo si avvale nella gestione della crisi da Covid-19, reo di averlo usato nel corso della puntata di Piazza Pulita andata in onda giovedì 5 novembre su La7. Sanzione morale tanto più dura, ovviamente, perché il Bernabei è geriatra, dacché ne conseguiva che, se l’uso del termine poteva essere messo in discussione sul piano estetico, in discussione giocoforza era anche il profilo deontologico del medico che ne faceva uso. Così è suonata la condanna: «Il geriatra che parla di “vecchi”. Ora manca solo il pediatra che cita i fottuti lattanti» (@mante, 6.11.2020). Tutto ciò che il Bernabei aveva detto nel corso di quella trasmissione poteva essere eluso, dando per scontato che per tenore etico non potesse essere migliore. E però si è detto che «etica ed estetica sono tutt’uno», e questo ovviamente deve valere anche per la visione del mondo che si oppone a quella che ritiene eticamente ed esteticamente riprorevole l’uso del termine «vecchio», sostenendo che invece «è la parola che definisce con gran rispetto un pezzo della nostra vita», come ha tenuto a precisare appunto il Bernabei a Myrta Merlino che gliene chiedeva conto stupita del fatto che «“vecchio” è una parola che non usa più nessuno» (L’aria che tira – La7, 6.11.2020). Cè da presumere che abbia un approccio al Covid-19 diverso da quello ormai prevalente (tanto prevalente da ridurre chiunque muova unobiezione allo strawman del negazionista): può tornarci utile darle voce al riguardo? Cosa dice esattamente il Bernabei?

«Sentiamo nei bollettini quotidiani che c’è un aumento delle vittime, ma non sentiamo che l’età media di queste è di 82 anni, [il che è] singolare poiché l’aspettativa di vita in Italia è proprio di circa 82 anni (85 per le donne e 80 per gli uomini), 20 anni in più in mezzo secolo […] Capisco che una affermazione come questa possa lasciare sconcertati perché purtroppo ci hanno detto che la scienza vince sempre, che si deve campare indefinitamente, che il governo deve trovare una soluzione ed i medici un farmaco. La controprova di una selettività che segue rispettosamente la natura delle cose, invece, è che il virus ha colpito in modo ultimativo oltre 35.000 persone nel nostro Paese e di queste solo 90 erano sotto i 40 anni, tutte con problemi di salute gravi […] Mi sembra [che il Sars-CoV-2] si sia inserito con successo in un processo, che da qualche anno avverto, di “impaurimento” della popolazione. Che tutti coinvolge, a cominciare dai media che ritengono di lucrare su questo allarme continuo che fa vendere copie o fa audience […] Passata la fase emergenziale di marzo-maggio, oggi bisognerebbe trattare il Covid-19 come una malattia “normale”. Non è l’infarto che richiede immediatamente il Pronto Soccorso e non è il cancro che richiede l’ospedalizzazione. E una malattia da curare a casa, anche perché non c’è un farmaco specifico o che possa somministrare solo l’ospedale. Se poi cala significativamente la percentuale di ossigeno nel sangue si aggiunge la terapia con ossigeno che in qualche caso sarà meglio fare in ospedale. Ma su giudizio del medico curante. Infine una quota parte di questi a cui serve ossigeno, e che quindi hanno una forma più severa di polmonite, può aver bisogno di cure intensive […] Se lei mette le cose così, abbassiamo la tensione, riduciamo gli allarmi e gli affollamenti dei Pronto Soccorso, le colpevolizzazioni e forse i lockdown» (L’Eco di Bergamo, 31.10.2020).

Si può essere daccordo o meno, è ovvio. Se non si è daccordo, tuttavia, può bastare liquidare il tutto come sgradevole o servono degli argomenti? Una certa presunzione di superiorità morale li ritiene superflui: Bernabei ha torto a prescindere, perché ad «anziani» preferisce «vecchi». In attesa del «pediatra che cita i fottuti lattanti», lapidiamo lui.


Proscritto

Mavvedo daver anche stavolta preso il Mantellini a esempio di quella presunzione di superiorità morale che, citando ancora Ricolfi, sembra in grado di dirci solo «io sì che la so lunga», «tu non devi parlare come vuoi», «tu non puoi capire», «noi parliamo alla parte migliore del paese». Lho già fatto parlando della disinvoltura con cui questa presunzione di superiorità morale fa uso di mezzucci retorici senzalcuno scrupolo, quasi che la presunta superiorità morale possa intendersi al di sopra dogni morale, e di questo il Mantellini sè pregiato di dirmi dessersene molto risentito, accusandomi di acredine e malafede. Quel che più ha ferito il mio amor proprio, tuttavia, è stato il fatto che innalzarlo a emblema di una categoria del pensiero mi sia stato ripagato con laccusa di avergli mosso un attacco personale. Possibile che una persona tanto sensibile da riuscire a sentire pulsare vita nella bic, nella reflex e nella mappa stradale della Michelin possa incorrere in un tal genere di travisamento? Un attacco personale, caro Mantellini, è di tuttaltra fatta. Avessi voluto rimproverarti la presunzione di superiorità morale come tratto esclusivamente personale, avrei fatto un cenno alla spocchia con cui dai a intendere di avere in tasca il miglior piano anti-epidemia e dopo averti messo sotto il muso questa roba


avrei detto: «Mantelli, per il 14° di “dirigenza” che ti compete, prima di pensare al macrocosmo sanitario tutto, comincia col far guadagnare qualche stellina in più al microcosmo che ti passa lo stipendio». Ma lho fatto? Non lho fatto.