domenica 22 novembre 2020

Un souvenir

 


L’intervista che la scorsa settimana il fumettista, illustratore e regista Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, ha concesso a Esquire offre innumerevoli spunti di riflessione, ma qui ne svilupperò solo due o tre, cominciando col prendere in considerazione il brano relativo alle ragioni che hanno portato Gipi alla decisione di abbandonare i social network, che pare stia diventando un classico nel repertorio di molte nostre primedonne. Come un tempo, bevendo del cognac accanto al caminetto mentre il levriero sonnecchiava, ci appassionavamo su chi fosse stata miglior interprete dell’«ebben ne andrò lontana» che sta ne La Wally del Catalani, se la Callas o la Tebaldi, è il caso che domani, nella mensa dell’ospizio, sotto l’occhio vigile di una suora senegalese, discuteremo davanti a un brodino, con la stessa passione, se sia stato più toccante l’abbandono di Twitter da parte di Gipi o da parte di Mentana.

Perché ha abbandonato i social network, Gipi? Dall’intervista emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto, che poi è il punto in cui essi riproducono pressoché in tutto le dinamiche relazionali di quella che definisce «tribalità», e che dice essere «il problema della nostra società». E in cosa consiste, questa «tribalità»? «Nessuno riesce a fare un ragionamento autonomo. E non nel senso di pensare con la propria testa, del credere in se stesso o altre puttanate simili. Nel senso di sottoporre ad un esame spietato ogni proprio pensiero. Ogni convinzione. Per esempio: queste idee, questi principi, sono davvero miei? Li ho capiti? O mi sono stati solo trasmessi da qualcun altro? Dalla mia famiglia, dal mio giro, dalla mia cerchia di conoscenze?». Per esempio? «Se quello che ha parlato appartiene alla mia tribù, al mio giro, al mio gruppo, sono d’accordo. Se non fa parte della mia tribù, allora lo disprezzo. Indipendentemente dall’argomento o dal pensiero espresso. […] A me viene da pormi una domanda: è davvero possibile che nessuno, in nessuna delle due parti, dica mai qualcosa di logico agli occhi e alle orecchie della parte avversa? È possibile che non accada mai che qualcuno a destra riconosca la possibile ragionevolezza di una frase detta dalla sinistra e viceversa?».

La mano è senza dubbio assai naïf, ma la psicopatologia così ritratta da Gipi è la stessa che ritroviamo nei lavori di Serge Moscovici (Psicologia delle minoranze attive – Boringhieri, 1981), di John Levine e Mark Pavelchak (Psicologia sociale – Armando, 1986), di Geneviève Paicheler (Psicologia delle influenze sociali – Liguori, 1987), di Robert Cialdini (Le armi della propaganda – Giunti, 1995), di Angelica Mucchi Faina (L’influenza sociale – Il Mulino, 1996) e di Otto Kernberg (Le relazioni nei gruppi – Raffaello Cortina, 1998), tanto per citare gli autori che ho sullo scaffale più vicino. Psicopatologia sostanzialmente identica a se stessa da sempre, ma che, rispetto ai tempi in cui ancora il web non c’era, oggi sembra non avere più alcun bisogno di camuffarsi da militanza politica: faziosità, dogmatismo, doppia morale, spirito gregario si sono liberati dalle greppie di questa o quella ideologia, per diventare meri distintivi di appartenenza alla «tribù», che di ideologico d’altronde non ha più niente, ridotta com’è ad aggregato mobile, non di rado estemporaneo, di giri grossi e piccini, bolle dentro bolle, consorterie più o meno verniciate di prestigio, robette e robone tenute insieme da impasti più meno labili di simpatie e interessi, da politiche dell’amicizia che hanno lo scadenzario dei tour promozionali dell’ultima novità editoriale.

Dall’intervista – dicevamo – emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto. La decisione di Gipi, infatti, sembra non esaurirsi nella cancellazione di qualche account, ma nel chiamarsi fuori dalla logica della «tribalità», che il web si limita solo ad esasperare. Sembra che Gipi voglia farci credere che i social network l’abbiano fatto cadere in quella logica, che però non è mai stata la sua. E «ho molta vergogna per quello che ho fatto», dice, ma non sta parlando solo di questo o quel tweet, perché aggiunge «non potrei più andare in tv a fare battute su Salvini». Quando, dunque, dice «facevo parte di un meccanismo tribale», aggiungendo un «non ero abbastanza consapevole» quasi a volersene scusare, a parlare non è semplicemente @gipi, ma proprio Gian Alfonso Pacinotti, una delle punte di lancia di Propaganda live per esempio, che non è solo la trasmissione che piace alla gente che piace, ma anche il tempio in cui ogni venerdì sera una ben nota «tribù» celebra i suoi fasti. Bene, prendiamo atto, ma in sostanza cosa è accaduto? «Probabilmente mi sono sempre considerato di sinistra per caso – ci dice Gipi – accettando una serie di dogmi che adesso rifiuto». Risposta elusiva, caro Gipi, riformuliamo in altro modo la domanda: cosa te ne ha fatto rendere conto?

Domanda destinata a cadere nel vuoto, purtroppo non eravamo noi a intervistare Gipi. C’è da supporre, tuttavia, che a fargli rendere conto di dove si fosse andato a infilare sia stata la vicenda di cui è stato coprotagonista lo scorso gennaio. Ne ha parlato, non c’è bisogno d’altro che ridargli voce: «È successo questo: il mio amico Massimiliano Parente ha scritto un pezzo per il Giornale che ha fatto incazzare un sacco di gente. Nel pezzo, a un certo punto, dice che gioca a Call of Duty con me. Le persone che si sono incazzate con Massimiliano mi chiedono di “prendere le distanze”, di “dissociarmi”. Altri sono “sbigottiti” dal fatto che io possa essere amico di una tanto orribile creatura. A tutte le persone che hanno espresso il loro sbigottimento, voglio dirvelo: preferirò sempre le più storte, ignobili, irresponsabili, maldestre, infelici creature di questo mondo a questa nuova generazione di preti che mi ritrovo intorno e alla quale fate a gara per appartenere. Non prendo le distanze da un amico. Piuttosto lo meno in privato. Ma non sto dalla vostra parte. Non ci sono mai stato. Non ci starò mai» (Corriere della Sera, 9.1.2020). È stato questo a motivare la sua decisione di uscire dal «meccanismo tribale» o almeno ad innescare la riflessione che l’ha maturata? Non lo sapremo mai. Non ci resta che tornare all’intervista nel tentativo di cogliere qualche indizio che possa dar più forza alla nostra supposizione.

Ahinoi, ne troviamo uno che la indebolisce nel punto in cui leggiamo: «Tendevo a discutere con chiunque, anche con chi non lo meritava». Ora, io ho pieno diritto di dire a chicchessia che non ho voglia di discutere con lui. Non ha importanza quali siano le ragioni. Peraltro non sono neppure tenuto a dargliene conto. Non voglio discutere con lui e non ci discuto, punto. Il motivo? Basta, non mi va di dare spiegazioni. Comunque mi si giudichi, nessuno può costringermi a discutere con lui, né a dire perché non voglio. Altra cosa, però, è decidere di non discutere con lui, adducendo a ragione il fatto che «non mi merita», perché il «merito» è quanto «costituisce giusto motivo di stima, lode, riconoscimento, ecc.» (De Mauro): con la ragione addotta, io mi faccio metro di ciò che è «giusto», e cioè di ciò che è legittimo e fondato ben al di sopra di ogni valutazione tutta personale. Nel dire, insomma, a chicchessia che «non merita» ch’io discuta con lui, io avanzo una pretesa che esorbita dal mio diritto: pretendo che a una valutazione tutta personale vengano conferiti i crismi dell’inconfutabilità e dell’incontrovertibilità di ciò che tutti – lui compreso – sono tenuti a ritenere «giusto». È evidente che l’eventuale discussione non avrebbe avuto alcun senso, se non quella di farmi stabilire se il mio interlocutore fosse o no degno di «stima, lode, riconoscimento, ecc.», e cioè del «merito» che gli avrei riconosciuto continuando a discutere con lui. Sia chiaro, avrei potuto ricoscergli quel «merito» anche se nella discussione avessimo avuto posizioni diverse, ma è ovvio che, spettando a me il riconoscerglielo, gliel’avrei potuto negare in ogni momento. Nemmeno sarebbe stata una discussione, via, tutt’al più un esame a cui lui si sarebbe sottoposto per sapere con quanta benevolenza io fossi disposto a giudicarlo. Possiamo tranquillamente sorvolare su cosa ciò dica di me sul piano psicoanalitico, basti quanto è stato scritto da più autori sulla frase «tu non mi meriti» con la quale il narcisista mette fine a una relazione amorosa: uno per tutti, il già citato Otto Kernberg, però stavolta in Relazioni d’amore (Raffaello Cortina, 1995). Sul piano retorico, però, non si può sorvolare: io pretendo che il foro esterno sia tenuto a far proprie le ragioni del mio foro interno. Una pretesa che sta a corollario di quella di superiorità morale che è uno dei segni distintivi della «tribù» da cui Gipi è scappato. Diremmo che ne è scappato portandosene via un souvenir.

1 commento:

  1. non sono d'accordo. Rifiutarsi di discutere con qualcuno adducendo la motivazione del mancato merito è meno scortese e piu' leale che rifiutarsi senza offrire spiegazioni. Nel primo caso sto semplicemente dando un giudizio negativo dell'altra persona, nel secondo caso sto disconoscendo l'altro come essere umano.

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