venerdì 28 febbraio 2014
mercoledì 26 febbraio 2014
Fare per fare / 3
Nel
secondo paragrafo di Fare per fare (Malvino, 24.2.2014) ho scritto che «l’apparente
ineffabilità della relazione [tra l’impostore e i suoi “polli”] si scioglie
nello spostare l’attenzione dall’offerta alla domanda» e che «la promessa di un
interesse assai più alto di quello un promotore finanziario può ragionevolmente
assicurare ai suoi clienti» trova il “pollo” in chiunque nutra l’«illusoria
aspettativa d’inclusione» nella «pseudologica phantastica» (Helen Deutsch) che «l’impostore
affida alla cifra simbolica della propria persona», come dispensatrice degli
effetti dei suoi «poteri magici» (Max Weber): è per questo che ho parlato di un
«doppio investimento», perché a quello che promette il lucro materiale (un incremento della cifra investita nel caso di un promotore finanziario, elevati utili aziendali nel caso di un manager, condizioni di vita migliore nel caso di un tribuno della plebe, ecc.) si
sovrappone, per certi versi si sostituisce, quello che assicura al “pollo” un
effetto di «legatura» all’impostore, equivalente del sortilegio che nelle
pratiche magiche lega le sorti di mandante e mandatario. Occorre tuttavia
spiegare donde nasca l’«illusoria aspettativa» cui facevo cenno, e trovare gli
elementi che nel “pollo” siano il concavo di ciò nell’impostore sta nel
convesso della sua impostura. E qui torna l’assunto argomentato ne Il cosiddetto carisma (Malvino, 13.12.2012):
«Grave errore, [...] quello di considerare il carisma come un dato oggettivo, incontestabilmente reale [...] Il carisma è un prodotto relazionale [...] Si dovrebbe smettere di considerarlo come una sorta di grazia della quale un leader può essere dotato o meno, ma una sorta di disgrazia nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità severamente disturbata».
Robert Cialdini (The Psychology of Persuasion,
1984) individua in sei attributi l’armamentario tattico dell’impostore: (a) l’ingegno
nel darsi veste di autorità; (b) l’abilità nel riprodurre un ingannevole
rapporto di congrua reciprocità tra offerta e domanda; (c) l’essere in grado di
dare all’offerta una preziosa dote di peculiarità che la renda rara o addirittura unica; (d) il
saper attribuire all’adesione
un carattere di riprova sociale d’un qualche prestigio; (e) la capacità di
acquisire gradi crescenti di adesione come tributi di coerenza ad un iniziale
impegno di pur scarso valore; (f) la capacità di creare un simpatetico medium comunicativo. Non è affatto difficile individuare le debolezze del
“pollo”
che esaltano queste doti nell’impostore, né è difficile immaginare gli scenari entro i quali queste debolezze vengono evocate e accentuate: occorre solo aver fatto tesoro della lezione della psicosociologia di scuola anglosassone (Richard T. Lapiere, Collective Behavior; Kimball Young, Social Psychology; Neil J. Smelser, Theory of Collective Behavior).
Chiarita la natura della «legatura» tra impostore e “polli”,
possiamo passare a considerare i caratteri che assume quando
l’impostura ha per oggetto una massa, e qui può tornarci utile l’analisi di ciò che Nello Barile ha definito
«neototalitarismo» (La mentalità neototalitaria, 2008), che in buona sostanza è la militarizzazione delle pratiche di mimesi e di seduzione. La conquista non è di uno spazio pubblico che viene egemonizzato per esclusione o marginalizzazione del diverso, ma per espropriazione della sua diversità, che
l’impostore incorpora senza che questa generi elemento di rottura nella narrazione mitopoietica dei suoi
«poteri magici»: «Il
verbo neototalitario consiste nella volontà di affermare il proprio punto di
vista impossessandosi di quello dell’altro in una sommatoria di comportamenti
contraddittori […] La mentalità neototalitaria non contraddistingue colui che
esclude l’altro ignorandolo, né chi lo include assoggettandolo, ma è propria di
colui che esclude l’altro attraverso l’emulazione». Siamo così all’inversione del paradigma che faceva del totalitarismo politico del Novecento un progetto di reductio ad unum così ben illustrato nel celeberrimo passo del discorso che Pio XI tenne il 18 settembre 1938, ribadendo la legittimità della pretesa che il cattolicesimo opponeva agli usurpatori: «Se c’è
un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della
Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle,
dato che l’uomo è creatura del Buon Dio. E il rappresentante delle idee, dei pensieri
e dei diritti di Dio, non è che la Chiesa».
Con la «mentalità neototalitaria», la conquista dell’egemonia politica e culturale rinuncia ai massacri: al terrore subentra la fascinazione. Non per questo, tuttavia, vengono meno i rischi per chi se ne fa attore. Basti comparare ciò che il generale Raffaele Cadorna scrisse in epitaffio al Ventennio: «È la solita folla che alterna l’“Osanna!” al “Crucifige!” e che tende ad attribuire a uno solo le proprie fortune o le proprie sciagure. Chi la trascina e la esalta, accarezzandone gli istinti ed eccitandone le passioni, la vedrà delirare nell’ora del successo, ma se la ritroverà davanti, inesorabile e spietata, al momento del disastro» (La riscossa, Rizzoli 1948), con ciò che Manfred Kets de Vries ha scritto sul destino che incombe sull’impostore: «Se c’è un aspetto su cui la letteratura non solo concorda, ma è unanime, è proprio che essere leader significa o richiede innanzitutto di dimostrare di avere una visione. La visione non di rado coincide con il sogno (“ho fatto un sogno…”) là dove la leadership si salda al carisma: la leadership carismatica è la leadership di un grande sogno che si insegue, che si vuole realizzare e che per molti aspetti è alto nella scala dei valori, alto nella scala delle difficoltà, alto nella fedeltà che richiede. Il sogno nella relazione con chi è sotto diventa così il vero profondo motivo psicologico delle vicissitudini della relazione di potere. In questo senso a sognare si è in due: il capo e i suoi gregari, tutti ugualmente coinvolti ad alimentare, a inseguire il sogno, a rispecchiarsi in esso: un sogno a due, un bi-sogno. Evidentemente così forte da potersi trasformare in illusione, autoinganno, fuga dalla realtà. La caduta del sogno, l’aprire gli occhi sulla realtà per quella che è, la delusione più grande della leadership, la sua fine, molto spesso proprio per questo violenta e distruttiva, è la vendetta per un sogno tradito» (Essays on the Psychology of Leadership, 1993).
Ma prima di tirare le somme della nostra riflessione occorre ancora un altro paragrafo: quello che ci chiarisca il precipitato storico della personalizzazione della politica, dalle forme del culto della persona dell’autocrate al successo mediatico dell’impostore, nel ventaglio delle sue più comuni tipologie.
Con la «mentalità neototalitaria», la conquista dell’egemonia politica e culturale rinuncia ai massacri: al terrore subentra la fascinazione. Non per questo, tuttavia, vengono meno i rischi per chi se ne fa attore. Basti comparare ciò che il generale Raffaele Cadorna scrisse in epitaffio al Ventennio: «È la solita folla che alterna l’“Osanna!” al “Crucifige!” e che tende ad attribuire a uno solo le proprie fortune o le proprie sciagure. Chi la trascina e la esalta, accarezzandone gli istinti ed eccitandone le passioni, la vedrà delirare nell’ora del successo, ma se la ritroverà davanti, inesorabile e spietata, al momento del disastro» (La riscossa, Rizzoli 1948), con ciò che Manfred Kets de Vries ha scritto sul destino che incombe sull’impostore: «Se c’è un aspetto su cui la letteratura non solo concorda, ma è unanime, è proprio che essere leader significa o richiede innanzitutto di dimostrare di avere una visione. La visione non di rado coincide con il sogno (“ho fatto un sogno…”) là dove la leadership si salda al carisma: la leadership carismatica è la leadership di un grande sogno che si insegue, che si vuole realizzare e che per molti aspetti è alto nella scala dei valori, alto nella scala delle difficoltà, alto nella fedeltà che richiede. Il sogno nella relazione con chi è sotto diventa così il vero profondo motivo psicologico delle vicissitudini della relazione di potere. In questo senso a sognare si è in due: il capo e i suoi gregari, tutti ugualmente coinvolti ad alimentare, a inseguire il sogno, a rispecchiarsi in esso: un sogno a due, un bi-sogno. Evidentemente così forte da potersi trasformare in illusione, autoinganno, fuga dalla realtà. La caduta del sogno, l’aprire gli occhi sulla realtà per quella che è, la delusione più grande della leadership, la sua fine, molto spesso proprio per questo violenta e distruttiva, è la vendetta per un sogno tradito» (Essays on the Psychology of Leadership, 1993).
Ma prima di tirare le somme della nostra riflessione occorre ancora un altro paragrafo: quello che ci chiarisca il precipitato storico della personalizzazione della politica, dalle forme del culto della persona dell’autocrate al successo mediatico dell’impostore, nel ventaglio delle sue più comuni tipologie.
lunedì 24 febbraio 2014
Fare per fare / 2
Sarebbe
ingenuo, prima che ingiusto, considerare Matteo Renzi un avventuriero con
straordinarie capacità di impostura. Com’è stato per Silvio Berlusconi, è
piuttosto da intendersi come sintomo di una patologia, e della stessa patologia,
come vedremo, ma ad uno stadio notevolmente più avanzato. Come non è dato
impostore, infatti, senza platea di gonzi che ne esprima il bisogno, ancorché
inconscio, legato all’illusoria aspettativa d’inclusione in quella narrazione che
Helen Deutsch ha definito «pseudologica phantastica» (Neuroses and Character
Types, 1965), allo stesso modo non è dato carisma, weberianamente intenso come «qualità
della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli
uomini comuni ed è trattato come uno dotato di qualità soprannaturali,
sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali, non accessibili alle
persone normali» (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922), che non sia espressione di
un investimento emotivo che tende ad acquisire i benefici effetti di una «grazia»
(χάρις): in entrambi i casi, l’apparente ineffabilità della relazione si
scioglie nello spostare l’attenzione dall’offerta alla domanda. Nella promessa
di un interesse assai più alto di quello un promotore finanziario può ragionevolmente
assicurare ai suoi clienti c’è sempre la richiesta di un doppio investimento
che in buona parte è sui suoi «poteri magici» (Max Weber, ibidem): tale domanda
trova ineluttabilmente adesione nel bisogno di essere toccati da questa «magia»,
della quale si presume esser fatti degni dall’atto di fede alla narrazione che l’impostore
o il leader carismatico affidano alla cifra simbolica della propria persona,
che si offre come fattore «legante». E non è un caso, infatti, che il termine «legatura» ricorra nelle pratiche magiche come sinonimo di sortilegio che implica mandante
e mandatario.
Lo straordinario caso di Silvio Berlusconi, che mostra la natura
di questo vincolo pattizio anche nei suoi effetti residuali, laddove la «magia»
si è rivelata deludente per oltre un terzo della platea che aveva sottoscritto
il mandato, si offre come paradigma di questo meccanismo di fidelizzazione, e
trova le ragioni che ne hanno reso possibile la parabola non già nella sua persona,
o comunque non solo, ma innanzitutto nelle aspettative di quello che per una
lunga stagione è stato un vero e proprio blocco sociale, la risultante di un
profondo mutamento della società italiana. Per dirla in altro modo, la tv di
Silvio Berlusconi non ha creato ex novo dei bisogni, ma li ha solo liberati
dalla rimozione che li traduceva in nevrosi, sicché è stato facile, per chi si
offriva come «liberatore», accreditarsi come più genuina espressione di un
profondo che esigeva legittimazione. È così anche per Matteo Renzi, ma in uno
stadio ulteriore di questo venir meno della denevrotizzazione del rimosso, che denota
una palese tendenza all’ingravescenza della peraltro cronica incapacità degli
italiani ad assumersi responsabilità. Questo, d’altronde, è il motivo per cui la
personalizzazione della politica, che è orientamento cui solitamente inclina la
democrazia nelle sue più gravi crisi, in Italia assume ancora e ancora le
fattezze dell’Uomo della Provvidenza, quelle del decisionista le cui decisioni
nascono da un cieco senso della volontà, dell’innovatore che rappezza il vecchio
in patchwork neanche tanto originali, del rivoluzionario che ha per orizzonte un
rimpasto del presente. Non è un caso che da trent’anni non si abbia idea di Rinascita, che non debba dirsi in debito con la profetica visione di Licio Gelli.
domenica 23 febbraio 2014
Fare per fare
In
questi ultimi giorni ho ascoltato, in gran parte riascoltato, gli interventi coi quali Matteo Renzi ha
chiuso le quattro edizioni della Leopolda [(2010) 1, 2, 3, (2011) 4, (2012) 5,
(2013) 6], tutte le interviste televisive di più ampio respiro che ha concesso
dal 2008 ad oggi [(Le invasioni barbariche) 7, 8, 9, 10, 11, (Che tempo che fa)
12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, (Ballarò) 19, 20, (In mezz’ora) 21, 22, (Porta a
porta) 23, (Otto e mezza) 24, 25, 26, 27, 28, (Virus) 29, 30], tutto ciò che ha detto nel corso
dei confronti televisivi tenutisi in occasione delle primarie del 2012 per la candidatura a premier [(Raiuno) 31, 32,
33, 34, 35, 36] e di quelle del 2013 per la segreteria del Pd [(Sky Tg24) 37] e una dozzina di suoi discorsi, per lo più tenuti nell’ultimo anno, in occasione di comizi elettorali e riunioni di partito [38, 39, 40, 41, ecc.], per un totale di circa 42 ore, una vera e propria full immersion nel suo vacuo scilinguagnolo, dalla quale sono riemerso senza essere riuscito a cogliere traccia, non già di una Weltanschauung renziana, nella quale d’altronde non contavo di imbattermi, ma neppure di un
suo pur vago progetto di società, e non dico di un progetto originale, ma renziano anche solo per scopiazzatura, sicché mi sembra di poter concludere in serena coscienza che, dietro la mimica da personaggio di cinepanettone e le battute da piazzista di biancheria intima in lycra,
in Matteo Renzi c’è il grado zero della politica intesa come idea di polis e che, dunque, lo
stato delle cose che trova sintesi d’immagine nel suo arrivo a
Palazzo Chigi consente di disertare ogni valutazione di merito su un eventuale orizzonte strategico in cui sia ragionevole pensare la
linea politica del suo esecutivo: ammesso e non concesso che il suo governo riesca a tracciarne una che non sia la mera risultante delle resistenze interne ed esterne che si opporranno al suo velleitarismo, è impossibile immaginarne un’articolazione, quindi è del tutto inutile intrattenerci a ipotizzarne la direttrice. Sarà un fare per fare, nel tentativo di durare per durare.
venerdì 21 febbraio 2014
E qui ho lasciato
Comincio
a scrivere:
Serracchiani
arriva ad insinuare che Barca sarebbe affetto da una stravagante forma di
mitomania: dietro al rifiuto di entrare nell’esecutivo di Renzi malcelerebbe
l’inconscia, ma forse neanche tanto inconscia, smania di entrarvi, tanto più prepotente
quanto più denegata. Miserevole rivalsa sul severo giudizio che l’economista ha
espresso nel colloquio telefonico col finto Nichi Vendola de La Zanzara, ma
almeno le sue guanciotte hanno un pur lieve accenno al rossore, e l’evidente
imbarazzo nel ferire il piano buonsenso, in buona misura, l’assolve.
Altro
discorso per Adinolfi: con l’insuperabile faccia di corno che è il suo tratto
peculiare, dice che a uscire a pezzi dalla telefonata non è Renzi, ma Barca, che
sarebbe «la sinistra da dimenticare», «una sinistra sostanzialmente vanesia e
velata di ipocrisia, che vede con terrore l’avanzata della giovane leadership e
prova ad esorcizzarla con la maldicenza, condendo il tutto con l’invenzione del
complotto plutocratico teso a minare la virtù del duro e puro».
Niente
a gratis, ovviamente, perché Adinolfi mette sempre all’incasso ogni sua
sfrontatezza, e poco importa se spesso non ne abbia a ricavare quanto era nel calcolo:
difettando di ogni senso del ridicolo, riesce a trovare gratificazione anche dalle
peggiori figure di merda, prontamente rubricate in curriculum vitae al capitolo
delle nobili battaglie cui er monno ’nfame ha negato la vittoria.
È che
di giorno in giorno diventa sempre più difficile che il cerchio magico ormai
consolidatosi attorno al segretario del Pd lo accolga in seno, e allora occorre
che l’offerta dei suoi servigi sia oltremodo generosa, accompagnata dalla
promessa di una fedeltà che in lui non troverebbe alcun intralcio da importuni
scrupoli morali: in pratica Adinolfi si offre pure per i lavoretti sporchi,
basta che in cambio gli si dia almeno
l’opportunità di un provino per la parte di consigliere del Principe...
Mi
fermo un attimo. Mi chiedo: sto scrivendo un post su Adinolfi, il mio lettore
me lo perdonerà? E allora metto da parte il foglio e ne prendo un altro:
L’uomo
di scienza non si sottrae all’attenta osservazione di ciò che causa disgusto anche
al fuggevole sguardo dell’uomo comune, e al moto propulsivo che regola
l’avanzamento delle feci nell’intestino crasso, alla formazione dell’essudato
nell’ozena purulenta, alle variabili delle fratture scomposte che negli
incidenti automobilistici esitano dall’impatto del massiccio faciale contro lo
specchietto retrovisore, agli insetti che accompagnano le fasi della
putrefazione cadaverica, eccetera, riesce a dedicare la stessa premurosa cura
che un maestro d’ikebana pone nell’allestimento d’una composizione floreale.
Tanto mi auguro basti a dar ragione dell’intento meramente scientifico che mi
muove a parlare di Mario Adinolfi, e stia a mo’ d’avvertenza per il lettore
dallo stomaco delicato.
Adinolfi
scodinzolava già da qualche tempo attorno a Renzi, quando all’indomani della
sconfitta che questi riportò nei confronti di Bersani al ballottaggio delle
primarie del 2012 ebbe l’improntitudine di avanzare la pretesa di un ministero
nel caso in cui il centrosinistra avesse vinto le Politiche del 2013. In quota
renziana, ovviamente, e dopo che Renzi aveva già esplicitamente rifiutato di voler
mettere all’incasso il 40% ottenuto contro il 60% di Bersani. Riuscì ad
ottenere solo un «va’ a cagare» da Bersani, per giunta imbarazzando Renzi,
trovandosi così dapprima escluso dalle liste elettorali del Pd e poi anche da
quelle di Monti, presso il quale si era precipitato a scodinzolare, sperando
gli si buttasse un osso. Nisba, e sì che aveva tentato un aggancio perfino col
M5S: ohilà, ragazzi, non è per dire, ma nel 2001 ho messo su una cosetta che si
chiamava Democrazia Diretta, in pratica sto a Grillo come San Giovanni Battista
stava a Gesù. Neanche un «va’ a cagare», qui. Non restava che rassegnarsi, aspettare
tempi migliori, ammazzare il tempo con qualche provocazione omofoba sui social
network, il poker, qualche comparsata in tv…
Mi
fermo ancora e mi chiedo: ma ti ha dato così tanto fastidio quel post su Barca?
Evidentemente, sì. Ma al punto di sentirti in dovere di rammentare chi sia Adinolfi? E qui ho lasciato.
lunedì 17 febbraio 2014
[...]
Avere
un figlio piccolo regala l’opportunità di fare scoperte di rara bellezza che
altrimenti rimarrebbero sepolte per sempre nella nostra ignoranza.
[...]
Qualche
giorno fa, Bergoglio ha incontrato la delegazione dell’American Jewish Committee e ieri L’Osservatore Romano ha pubblicato il testo del discorso che ha tenuto in
quell’occasione. Niente di eccezionale, le solite carinerie che da qualche
decennio i pontefici spalmano su secoli e secoli di feroce antigiudaismo. Tra
queste, la più ruffiana: gli ebrei sarebbero i «fratelli maggiori» dei
cristiani.
Ora, si dà il caso che le brutture della cronaca politica italiana mi
costringano a distogliere lo sguardo dalle miserabili panzane che in questi
giorni vanno accreditando come soluzione emergenziale quello che di fatto è un
colpo di stato strisciante. Lascio, dunque, a chi ha stomaco più forte del mio,
e lodevole fiducia nel fatto che dimostrarne la fallacia possa neutralizzarle
(io ho miei dubbi, gli italiani sono in gran parte stupidi e in fondo un Renzi,
dopo un Berlusconi, lo meritano), per dedicarmi a una panzana assai più grossa, e che per giunta gode di gran credito:
che gli ebrei sarebbero «fratelli maggiori» dei cristiani.
Panzana che trova
basi solide su un assunto che anche autorevoli studiosi danno per scontato, e
cioè che tra il I e il II secolo dell’era volgare l’ebraismo avrebbe subìto uno
scisma: i cristiani sarebbero gli scismatici che abbandonarono l’antica fede
per fondarne una nuova, tuttavia ramo di quel tronco. Bene, le cose non stanno
affatto in questo modo: né l’ebraismo è così «antico», né il cristianesimo è
così «moderno», come abitualmente si ritiene. Del tutto errato, dunque,
concepire il dissidio che tra di essi si consumerà per oltre quindici secoli,
dalle Homiliae contra Iudaeos di Giovanni Crisostomo alle pagine de La Civiltà
Cattolica a cavallo tra XIX e XX secolo, in termini di «superamento», come vorrebbero
i cristiani, o di «tradimento», come vorrebbero gli ebrei.
Nel II secolo,
quando ormai il cristianesimo ha assunto già buona parte dei suoi caratteri
distintivi, l’ebraismo non è affatto la religione dell’Antico Testamento, ma il
risultato di ciò che ha prodotto la riforma rabbinica del I secolo, che ha
corso parallelo a quella che dall’antica fede porta al cristianesimo, nel quale
molti elementi ne continuano ad essere presenti. In sostanza, la nascita dell’ebraismo
(così come è oggi) è coeva a quella del cristianesimo: sono due rami dello stesso
tronco, dal quale si dipartono nello stesso arco di tempo. Ma c’è di più,
perché nel cristianesimo persistono alcuni elementi che la riforma rabbinica
del I secolo espunge dall’antica fede: né il cristianesimo, dunque, è così «rivoluzionario»
come si dà per inteso dietro sua pretesa, né l’ebraismo che conosciamo noi
esisteva ancora ai tempi di Cristo, e dunque non è così «tradizionale» come
pretende di darci a intendere.
È che con la distruzione del tempio di
Gerusalemme, nel 70 d.C., si ebbe la chiusura di un arco storico – quello che
appunto è relativo al cosiddetto «Giudaismo del Secondo Tempio» – nel quale si
fa davvero fatica ad individuare un’ortodossia di fede tra le numerose correnti
di pensiero che orbitano nella galassia giudaica (sadducei, farisei, zeloti, esseni,
samaritani, battisti, ecc.), e in fondo Cristo non è che il fondatore di una
nuova setta in questo variegato contesto, come d’altronde più che ampiamente
documentato negli Atti degli Apostoli: fino al 70 d.C. i seguaci di Cristo sono
considerati membri di una delle tante sette giudaiche, dai membri delle altre
sette e dai pagani, ed essi stessi si considerano tali.
Cade così l’assunto che
il cristianesimo abbia radici nell’ebraismo così come lo conosciamo oggi, per
il semplice fatto che questo ebraismo non esisteva ai tempi di Cristo. Tanto
meno l’assunto regge dopo il 70 d.C., con la nascita di questo ebraismo, che è
soltanto, al pari del cristianesimo, un prodotto della riforma del vecchio, che
d’altronde è solo quanto dal Primo al Secondo Tempio è venutosi a sedimentare
in un corpo dottrinario assai poco univoco, e nel quale si distinguono tre
prevalenti tendenze (quella sadducea, quella farisea e quella essena) che per lungo tempo
troveranno modo di convivere senza troppe difficoltà.
Qui, allora, si pone la
questione: da quale di questi filoni Cristo prende le mosse per la sua riforma
dell’ebraismo che andrà in divergenza con quella rabbinica? L’ipotesi di un
Gesù esseno, scartata dopo il ritrovamento dei Manoscritti di Qumram, è da
riprendere in considerazione dopo la scoperta che a scriverli furono membri di
una comunità assai esigua in ambito esseno, quasi certamente in dichiarato
dissidio con la gran parte degli esseni, e su un punto fondamentale, cioè il
rapporto tra Dio e il Male. A differenza del gruppo che si ritirò sulle sponde del
Mar Morto, la comunità essena traeva le proprie convinzioni sul punto da quanto
andò a confluire, tra il IV e il I secolo a.C. nel Libro di Enoch, che non a
caso non trova alcuna eco nei testi di Qumram ed è considerato apocrifo anche dagli
ebrei che seguirono la riforma rabbinica.
Bene, basta leggere il Libro di Enoch
per trovarvi spiegazione di più d’uno di quei punti oscuri che sono sparsi nei
Vangeli, soprattutto quelli in relazione a massime che escono dalla bocca di
Gesù: volendone negare il tributo che devono alla tradizione enochica, com’è d’obbligo
per chi deve presentare il cristianesimo come inedita «rivoluzione», si è costretti
a inverecondi salti mortali, mentre a cercarne spiegazione nel Libro di Enoch,
soprattutto nelle due prime sezioni (Libro dei Vigilanti e Libro delle Parabole),
di cui da qualche tempo abbiamo prova che in origine fossero stesi in aramaico,
tutto si scioglie e il Padre di cui parla Gesù trova pieno riscontro. Così col senso che il cristianesimo darà alla personificazione del Male. Così col senso che il cristianesimo darà al Regno dei Cieli. In pratica, Gesù si limita allo scandalo del porsi a nodo tra Figlio dell’Uomo e Figlio di Davide, e in fondo pagherà solo per questo con la vita. Un libro, quello di Enoch, che così è sottratto ad ogni attenzione: per gli ebrei
«riformati» è materiale inservibile, per i cristiani è una placenta da divorare.
Altro che
«rivoluzione», il cristianesimo è di derivazione enochica come l’ebraismo nella
forma che conosciamo (quella che deve il massimo contributo alla riforma di
rabbi Yehudah HaNasi) è di derivazione sadducea. Altro che «fratelli maggiori»
e «fratelli minori», si tratta di due gemelli eterozigoti partoriti dalla
stessa grande crisi che nel I secolo travolge il «Giudaismo del Secondo Tempio».
Vabbe’, era per dire
La
logica che affida la memoria alle scansioni temporali periodiche che sono
diventate d’uso corrente mi è sempre parsa – insieme – coatta e arbitraria,
perciò detesto le ricorrenze date dai multipli di quei segmenti cronologici –
anni, decenni, secoli, ecc. – che in fondo, senza neanche farne troppo mistero,
pretendono di conferire un valore alla durata, secondo la gerarchia che dall’istante
sale fino al millennio. A mio modesto avviso, invece, la durata non ne ha
alcuno. La persistenza di ciò che si tiene in vita – fosse pure in quella
particolare forma di vita che è surrogata dalla memoria – non ha, infatti,
altro merito che l’essersi data – spesso senza volerlo, sennò con una volontà
che sta sempre a un passo dal fine – la forma dell’approssimazione all’eterno,
e cioè l’ipocrisia (qui intesa in senso letterale, come infedele rappresentazione)
della resistenza. Per quanto piccola possa essere, questa porzione di eterno
che si rosicchia alla morte o all’oblio pretende un riconoscimento di durata
che le scansioni temporali periodiche segnano come traguardi di una corsa che
si dà per infinita, sicché direi che col festeggiare un compleanno o
commemorare un centenario tifiamo per la tartaruga contro Achille, e diamo
fiducia al fatto che la sfida abbia un senso. A me questo è sempre parso
assurdo, né ho trovato mai una spiegazione convincente al perché
– farò un esempio che solleverà più di un’obiezione, ne son certo –
le 83 annate
de La Settimana Enigmistica dovrebbero avere un valore superiore alle 3 di Acéphale, e cioè il valore di quella durata che in fondo sta solo nel cercare e trovare i mezzi per durare. Di mezzo dev’esserci senza dubbio il valore che diamo all’adattabilità all’ambiente, ma questa non implica una duttilità che ineluttabilmente modifica i caratteri di chi aspira a resistere? Cosa persiste, quando persiste? Non ciò che voleva persistere: persiste la sua sola volontà di persistenza, sennò il suo persistere oltre la sua volontà. In pratica, si muore di traguardo in traguardo:
solo l’effimero ha il diritto di dirsi vivo, finché può.
Vabbe’, era per dire che a marzo Malvino compie dieci anni, che in questi ultimi mesi ho riletto i suoi 11.451 post e che è bastato a farmi passare del tutto la già poca voglia di festeggiare.
[...]
«Coloro
che amministrano o tengono le redini del governo, qualunque misfatto
commettano, sempre si studiano di adombrarlo con l’apparenza del diritto e di
persuadere il popolo di aver agito onestamente: e ciò riesce loro anche
facilmente, quando tutta l’interpretazione del diritto dipende soltanto da essi»
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico (XVII)
venerdì 14 febbraio 2014
[...]
L’ho
scritto tre anni fa e non ho cambiato idea. Oggi la nausea è così forte che non
mi va di commentare, sicché mi limito a ripeterlo: «Renzi è la larva che il
berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd».
martedì 11 febbraio 2014
[...]
A me
pare che non ci sia proprio alcun dubbio sul fatto che Napolitano abbia esorbitato
in più di un’occasione dal ruolo che la Carta assegna al Presidente della
Repubblica. Se poi la cosa abbia gli estremi del reato di attentato alla
Costituzione, non saprei dire, né la questione riesce ad appassionarmi. Quello
che solleva in me un certo interesse, invece, è il fatto che tra chi lo difende
dalle accuse di aver giocato un ruolo che non gli competeva ci siano persone che
stimo per la loro onestà intellettuale e tuttavia negano l’evidenza. Potrebbero
trovargli mille attenuanti, dire che si è assunto l’onere di colmare il pericoloso
vuoto di potere che in questi ultimi anni si è prospettato in molti frangenti,
che in fondo per il Quirinale, e da sempre, è sempre valsa una Costituzione
materiale un po’ più larga di quella formale, che sarà pur venuto meno all’imperturbabilità
dell’arbitro ma sempre in nome di quanto in buona sostanza era il superiore
interesse dello Stato. E invece no, niente di tutto questo, si limitano a
negare l’evidenza. Anche abbastanza infervorati, devo dire. Ci ricavano figura assai
migliore di chi chiede per Napolitano quello che impropriamente è detto
impeachment sulla base di accuse risibili come l’aver avuto un ruolo nella
cosiddetta trattativa Stato-Mafia o, peggio, di aver tramato per ottenere il
secondo mandato o, peggio ancora, anche solo di averlo accettato. E tuttavia mi
pare che anch’essi, certo in misura di gran lunga minore, certo con un aplomb
di cui gli assaltatori del Quirinale sono del tutto privi, siano mossi da un
umore partigiano, che in qualche modo autorizza l’opposta fazione a parlare di
un Partito del Presidente, strumento metà politico e metà mediatico di cui
Napolitano si sarebbe servito per compiere le sue subdole mosse. Passi per quanti,
a torto o a ragione, lo hanno sentito, lo sentono e probabilmente lo sentiranno
sempre come «uno dei nostri», qualunque cosa dica o faccia. Passi per chi dalle
scelte di Napolitano ha tratto qualche vantaggio o conta di trarne. Passi anche
per chi considera intoccabile il Quirinale, chiunque ci sia dentro, qualunque
cosa faccia. Ma gli altri? Hanno sotto gli occhi le prove indiscutibili di un
attivismo che da mesi e mesi detta modi e tempi alla politica, del continuo venir
meno a star sopra le parti, come d’altronde era in premessa all’accettare il
secondo mandato sub condicione di poter dare indirizzo a Governo e a Parlamento:
come possono negarlo?
lunedì 10 febbraio 2014
Intorno al cacozelo
Ignorato
dal Treccani, dal Devoto-Oli e dal De
Mauro, il lemma cacozelo (dal greco κακός
ζήλος) è definito «inusit. a noi» perfino
dal Tommaseo, e sta per «imitazione o emulazione
di quel che è vizioso, o men bello per affettazione di
bellezza», anche se la sua miglior definizione è in
Quintiliano (Institutionum Oratoriarum Libri Duodecim,
VIII, 56-58), per il quale sta nel ricorso alla congerie
delle «tumida et pusilla et praedulcia et abundantia et
arcessita et exultantia» ed è perciò «omnium in
eloquentia vitiorum pessimum», perché «mala
adfectatio», aspirazione (al bello) con esito infelice (di
caduta nel lezioso). Col cacozelo, insomma, possiamo
dire che siamo al più goffo infortunio dell’artificio
retorico: l’eloquenza manca il suo fine e si esaurisce in
ostentazione compiaciuta della sua vacua ridondanza.
A
parte, sarebbe da considerare che nel Tommaseo, come
d’altronde dà conto il Pianigiani, l’«affettazione» è
già il fine mancato cui mirava la pretensione dell’«adfectatio»:
nella retorica dev’essere accaduto qualcosa – vedremo
cosa – che ha fatto prendere coscienza delle infauste
conseguenze delle eccessive libertà che, col passaggio dal
Rinascimento al Barocco, la Maniera si è presa nei confronti della
Misura. Basti pensare a come il severo giudizio di Quintiliano
si ammorbidisca, e di molto, nel Seicento. Per François de La Mothe
Le Vayer, ad esempio, «quelli che si sottomettono troppo
scrupolosamente a tutti precetti dell’arte [retorica] senza
volerne trasgredire alcuno sono simili a quei funamboli o ballerini
sopra la corda, che contano i passi che fanno e stanno in apprensione
continua di cadere. Questo timore gl’impedisce di sollevarsi
in alto e, non pensando che a tenersi lontani dal vizio, trascurano
sovente le parti più nobili e più cospicue dell’eloquenza.
Non è per tanto che debbansi sprezzare le sue regole [...] [ma],
ancorché le ridondanze o le superfluità siano molto viziose, le
magrezze e le aridità del discorso lo sono ancora molto più» (Scuola
de’ prencipi e de’ cavalieri, cioè la geografia, la
rettorica, la morale, l’economica, la politica, la logica, e la
fisica; cavate dall’opere francesi del sig. Della Motta Le Vayer,
che le ha distese per istruzione di Luigi 14. re di Francia, tradotte
nella lingua italiana dall’abbate Scipione Alerani - In
Bologna, per Giacomo Monti, 1677).
Ma
qualcosa accade – dicevamo – con l’uscita
dal Barocco, anzi non è di troppo azzardo il ritenere che se ne esca
proprio per ciò che accade: il retore cambia ruolo sociale, non
importa quale sia il suo foro. Non è una scelta: è la società che
gli cambia d’attorno, e in primo luogo si trova dinanzi un
altro uditorio. Per meglio dire: l’argomentazione impone regole
nuove. In altri termini: si vanno ponendo le basi alla nascita della
logica proposizionale, nella quale «le parti più nobili e
più cospicue dell’eloquenza» stanno nella
capacità di dimostrare, piuttosto che in quella di mostrare. Ne è
prova il fatto che la metafora, dapprima considerata banco di prova,
lascia il posto all’analogia, che ben presto sarà guardata
anch’essa con sospetto. Non a torto, perché anche oggi che non è
affatto bandita dalle terre del «dominio
retorico» è l’ultimo rifugio il cui
il cacozelo riesce a trovare accoglienza.
domenica 9 febbraio 2014
La bufala di Michelangelo neurologo
Mauro
Covavich dà credito alla bufala, degna al più di una puntata del Voyager di
Roberto Giacobbo, che, nella Creazione di Adamo affrescata sulla volta della
Cappella Sistina, Michelangelo Buonarroti abbia voluto «inscrivere il gruppo di
Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano», e di suo ci aggiunge il
dirsi «colpito» dal «fatto che, nella religiosità tormentata di Michelangelo,
Dio apparisse in forma d’Intelletto (Nous), ipostasi neoplatonica di qualità
cerebrali che l’uomo riceve in dono» (la Lettura/Corriere della Sera, 9.2.2014
– pag. 21). Da dove cominciare per dimostrare che in meno di sei righe è
concentrato un gran bel mucchio di puttanate?
Cominciamo
col dire che nella prima metà del Cinquecento si sapeva poco o nulla
dell’anatomia del cervello, e per una semplicissima ragione: non si era ancora
giunti ad approntare un valido allestimento del tessuto cerebrale in grado di
consentirne lo studio macroscopico. Trattandosi di un organo che va incontro a
fenomeni degenerativi in tempi brevissimi dopo il decesso, all’apertura della
scatola cranica gli anatomisti dell’epoca trovavano al più solo un’informe
poltiglia. Non è un caso, infatti, che fino alla metà del Seicento gli studi
anatomici relativi al sistema nervoso centrale rendessero conto solo delle
formazioni più resistenti ai processi putrefattivi post mortem, come i nervi
cranici e il tronco encefalico, mentre il rilievo delle formazioni incluse
nelle masse emisferiche trova solo riscontro occasionale e per giunta controverso.
Bisogna aspettare il Cerebri anatome di Thomas Willis, che è del 1664, giusto
cent’anni dopo la morte del Buonarroti, e poi gli studi di Marcello Malpighi,
di Giovanni Battista Morgagni e di Xavier Bichat, per avere una descrizione
anatomica del cervello degna di questo nome, e in qualche modo approssimabile a
quella che Michelangelo avrebbe avuto per modello.
Stupisce che il primo a
intravvedere nella Creazione di Adamo una sezione sagittale mediana del
cervello umano sia stato un neurologo? Tutt’altro, basta non avere dimestichezza
con la Storia della Medicina, cosa relativamente comune tra i medici, soprattutto
quelli d’Oltroceano, e farsi prendere dalla tentazione, da nefrologi per
esempio, di intravvedere l’anatomia microscopica di un tubulo renale, descritta
per la prima volta nell’Ottocento, nell’organo idraulico ideato da Ctesibio nel
III secolo avanti Cristo. Questo è il genere d’infortunio occorso a Frank L.
Meshberger (An Interpretation of Michelangelo’s Creation of Adam Based on
Neuroanatomy – Journal of American Medical Association, 1990 – 264 [14]:
1837-41), che in realtà stupisce solo fino a un certo punto, perché anche le
correlazioni che egli imbastisce tra i dettagli del dipinto e quelli che
dovrebbero essere i corrispettivi anatomici cerebrali sono a dir poco forzati:
in buona evidenza, siamo al tragicomico dei fatti sacrificati in una ipotesi nella
quale vanno troppo stretti. Non è un caso isolato, d’altronde, basti pensare al
più recente tentativo di Ian Suk e Rafael Tamargo, ricercatori della Johns
Hopkins University School of Medicine di Baltimora, nel Maryland, che qualche anno
fa, su Neurosurgery, scrivevano di aver intravvisto l’anatomia della base
cerebrale e del tronco encefalico umani sul collo di Dio nel pannello della
Cappella Sistina detto della Separazione della luce dalle tenebre.
Passi per lo
svarione del dottor Meshberger, che non possiamo neanche escludere abbia voluto
prendersi gioco dei lettori del Journal
of American Medical Association se la sua ignoranza della Storia della Medicina nasconde una sofisticatissima provocazione intellettuale, ma cosa dire del Covacich, che Wikipedia ci assicura avere una laurea in filosofia? In Platone v’è più
d’un cenno a una correlazione tra Nous e cervello, questo è vero, e sappiamo
che i neoplatonici Marsilio Ficino e Pico della Mirandola ebbero contatti con
Michelangelo: anche ammettendo, tuttavia, che per prodigiose virtù divinatorie il Buonarroti avesse nozioni anatomiche del cervello che sarebbero state conosciute solo un
secolo dopo, con un committente come il Papato di quei tempi, di solito
attentissimo all’aderenza dell’opera d’arte a dettami ritenuti indiscutibili,
un artista poteva prendersi certe libertà? Quale era, ai tempi di Giulio II, la
posizione della Chiesa riguardo alla filosofia di Platone? Non benevola,
diciamo. Bisogna aspettare il primo Novecento per trovare un teologo cattolico
che riesca a liberare la teoria platonica delle Idee dall’accusa di contraddire
la dottrina, che l’accompagnava fin dal III secolo. In tale contesto,
Michelangelo poteva ritenersi libero di raffigurare Dio come un Nous in forma di
cervello? Avrebbe mai potuto rappresentarlo come «ipostasi neoplatonica di
qualità cerebrali che l’uomo riceve in dono»?
Senza titolo, al momento
«
La polis è più importante delle sue parti.
La parte è più importante d’ogni sua parte»
Eugenio Montale, Gerarchie
Riprendo
la riflessione sui sistemi elettorali che ho interrotto in questo punto: «In
mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e
che anzi abbia inclinazione a frammentarsi, considerare assolutamente
preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente
all’ingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di
governabilità porta ineluttabilmente a limitazioni del diritto di
rappresentanza» (Una premessa – Malvino, 23.1.2014). Qui pongo la seguente
questione: con la forte limitazione del diritto di rappresentanza che si è
avuta coi sistemi elettorali in adozione dai primi anni ’90, si è ottenuta la
tanto agognata governabilità?
Ad evitare che sul termine governabilità si possa
cadere in fraintendimento, cerchiamo di metterci d’accordo sul suo significato
affidandoci a ciò che Gianfranco Pasquino afferma nell’omonima voce
dell’Enciclopedia Treccani: parrebbe che in se stessa la governabilità sia concetto
assai vago, ma che acquisti un senso a considerare il suo rovescio,
l’ingovernabilità, intesa come instabilità del quadro politico cui consegua
l’impossibilità di una salda azione di governo da parte di una maggioranza
democraticamente designata a quel ruolo. E tuttavia questa stabilità è in se
stessa garanzia di governabilità? Non ancora, perché anche una stagnazione è
stabile. Quanto alla salda azione di governo, poi, siamo dinanzi ad un concetto politicamente neutro, perché non dà alcuna misura della sua efficacia.
Potremmo
azzardare che la governabilità sia il miraggio più frequente nel deserto della
ingovernabilità: un mito che nasce dal bisogno di dare allo Stato la forza che
lo giustifica in quanto Stato (sull’assunto troviamo singolarmente d’accordo
Lenin, Schmitt e Weber), e di trarla, quando la democrazia non riesca a
ricavarne dalle urne una adeguata, da un’applicazione del principio
maggioritario che la renda tale sottraendo proporzionalità alle opzioni
espresse, facendo così prevalere artificiosamente la maggioranza relativa (spesso
assai relativa) con un premio aggiuntivo per il numero di eletti. In pratica, si
crea forza di governo sottraendone alle opposizioni nella misura necessaria a
renderla adeguata alla governabilità.
Non occorre un occhio di lince per
scorgere che in questo modo la forza di governo è frutto di un mero artificio,
e che la sua legittimità è surrettizia.
[segue]
mercoledì 5 febbraio 2014
[...]
Non ho trovato
un solo argomento valido tra quelli usati da chi è sceso in polemica col M5S
in questi ultimi giorni, e sì che
non ne mancavano. E invece sono piovute accuse risibili, tanto più ridicole
quanto più si strepitava all’inaudito, perché in parlamento e fuori, in settant’anni
circa di vita repubblicana, c’è stato chi è riuscito a far ben peggio, contro
il codice e contro il galateo. Non me ne stupisco più di tanto, perché ad
essere più critico nei confronti dei grillini è stato proprio chi è corso
appresso a loro con più affanno, e fino a poche settimane fa: se gli argomenti
validi non li trovava allora, perché aspettarsi li trovasse ora? Il sospetto è
che chi in questi giorni ha sparato ad alzo zero sul M5S voglia rimuovere
l’imbarazzo di aver fatto male i propri conti, di essersi illuso che si trattasse
di una bestia addomesticabile, di un’anomalia riassorbibile: incapace di coglierne
il precipuo, ieri, incapace di coglierlo, oggi, perciò costretto a
rappresentarselo come accidente. La stessa cecità dei sussiegosi panzoni dello
Stato liberale in crisi dinanzi agli strambi manifesti di futuristi e
sansepolcristi: il socialismo era in piena mutazione genetica, e i fessi arricciavano
il naso alla volgarità di quei pantaloni alla zuava, di quegli incomprensibili
vocalizzi da barbari. Non voglio tediare il mio lettore, rimando ai numerosi
post che ho dedicato al M5S, e aggiungo che rimango saldo nell’opinione che ho
espresso in quelle occasioni. Non sarà un bel giorno quando il M5S arriverà al
30% o addirittura al 37% – so bene che oggi sembra impossibile, anche il 25% sembrava
impossibile l’anno scorso di questi tempi – però almeno di una cosa potremo consolarci:
un’oclocrazia belluina divorerà una oligarchia inetta.
[...]
Non mi sono mai spinto a chiedere che «the Holy See
assess the number of children born of Catholic priests, find out who they are
and take all the necessary measures to ensure the rights of these children to
know and to be cared for by their fathers, as appropriate», confesso che a questo non ero mai arrivato. Riguardo al resto,
lo dico con un sorrisetto da stronzo dipinto sulle labbra, il documento che l’Onu ha licenziato sugli abusi sessuali commessi da membri del clero cattolico a danno di minori sembra un copia-incolla di ciò che ho scritto tante volte su queste pagine negli anni passati.
martedì 4 febbraio 2014
L’ossessione della «famiglia normale»
La
famiglia è l’ossessione di chi ha vissuto la propria infanzia in una famiglia problematica,
e non c’è affatto bisogno che essa avesse notevoli particolarità per causare
problemi al piccolo, perché anche una famiglia cosiddetta normale è in grado di
causarne. È che «normale» vien da «norma», che vuol dire «legge», e in questo
caso rimanda a «natura», che però è pure sinonimo di quella che in statistica è detta
«moda», cioè «il valore che compare il massimo numero di volte in una
successione finita». Non è il caso di tirarla troppo per le lunghe, però anche «valore»
ha il suo ambiguo, perché rimanda – insieme – a un punto posto su una scala e ad
una logica che pretende di informare il senso di un bene, e non fa differenza
che sia materiale o immateriale. Un gran bel guaio quando si è costretti a
ricorrere a termini cotanto ambigui, e il guaio più grosso si rivela nel fare i
conti con la cosiddetta «famiglia normale», che da un lato potrebbe definirsi
come realizzazione di un disegno trascendente anche quando la si concepisce
come espressione di una «legge» di «natura», perché mai come in questo caso la «natura»
è intesa tanto «dentro» all’uomo da stargli in realtà «sopra» e «prima», e dall’altro
coincide col modello di famiglia conforme alla «moda» in un dato tempo e in un
dato spazio, che di solito costituisce il posticino più rassicurante sotto
una campana di Gauss. È questo che dà un tono tragico al tizio con l’ossessione
della «famiglia normale»: a dover rendere conto di quale «norma» sia informato
il modello di famiglia che per lui è ideale, non può far altro che indicare una
«legge» di «moda», rivelando che il suo «valore» è dato esclusivamente dalla
misura del suo esservi conforme. Si presenta come il difensore di un disegno
trascendente, ma a grattarne via il superficiale strato retorico che lo ricopre
emerge il conformista.
Un
esemplare campione di questo genere di ossessione è Giuliano Ferrara e ad
illustrarne il tragico è il suo editoriale in prima pagina su Il Foglio di martedì
4 febbraio, che prende a spunto la vicenda di cronaca che ha per protagonista
Woody Allen, che una sua figlia adottiva, oggi ventisettenne, ha accusato di atti di
pedofilia che si sarebbero consumati oltre venti anni fa. Dice di non essersi fatto un’opinione precisa su ciò che Dylan
Farrow ha raccontato al New York Times, anzi, dice di credere sulla parola a Woody
Allen, che ha dichiarato trattarsi di falsità, e aggiunge di non volere approfittare
di un’accusa che «sulla scala spettrale del desiderio rimosso» potrebbe nascere
solo dal «rapporto anaffettivo tra una figlia e un padre» per vendicarsi di quel «nichilismo
relativista», che a lui sta terribilmente sul cazzo, di cui i film di Woody
Allen sarebbero il manifesto. In pratica, lo fa. E non ha alcun pudore ad
ammetterlo: «Se non mi
vendico, e limito la vendetta alla sua sconcia e cinematicamente efficace attitudine
al relativismo etico, per lui non piango. Faccio come lui. Non piango, ma non
insinuo. Non ne ho bisogno. In fondo, basta che funzioni». Non ha bisogno di
insinuare che storiacce del genere possano verificarsi solo in un ambiente
moralmente degradato e culturalmente tarato: comunque stiano realmente i fatti,
un presunto pedofilo che ha un modello di famiglia alternativo a quello «normale»
(qui è preso ad esempio quello illustrato da Woody Allen in Whatever works) non
merita le garanzie che, fosse soltanto in termini di solidarietà, sono dovute a
un presunto pedofilo che su questo piano sia un sano conformista.
Superfluo
sottolineare che siamo all’ennesimo sproposito di argomentazione cui Il Foglio
ci ha abituato fino alla noia, ma forse non è del tutto inutile rammentare che al
«relativismo etico» dei nostri tempi bui Giuliano Ferrara riusciva ad imputare
pure gli abusi sessuali commessi su minori da membri del clero cattolico.
Pedofilo o no, insomma, chi è per una famiglia diversa da quella «normale»
sarebbe in parte responsabile, ancorché involontario, di ogni atto di
pedofilia, compresi quelli commessi da chi, almeno a chiacchiere, professa
fede incrollabile nel modello di famiglia «normale». Quanto sia assurda questa
posizione, che pure ha l’estremo pudore di andarsi a rintanare in un volvolo
logico sfacciatamente specioso, è inutile dire: basti il rilievo storico che la
pedofilia è sempre esistita, e si trasmette da abusato ad abusante come il
cognome paterno nelle famiglie perbene. Quanto, poi, all’ossessione per la «famiglia
normale», non c’è bisogno di scavare troppo nella biografia di Giuliano
Ferrara, basta chiedersi donde vengano i suoi disturbi alimentari. In quanto
alla famiglia che si è costruito, infine, non si capisce dove sia la «norma» che
dichiara necessaria, se non nel fatto che la signora Selma è indubitabilmente femminuccia, come lui è indubitabilmente maschietto.
domenica 2 febbraio 2014
[...]
«Non c’è più differenza reale fra tempo libero e tempo del lavoro: fusi nella travolgente rapidità della vita odierna, annullati dall’ansia del vuoto che spinge a riempire ogni spazio della giornata, i due momenti si confondono in un assillante attivismo, condizionato dall’invadenza delle nuove tecnologie. La
smaterializzazione del lavoro e l’assunzione in prima persona di una serie di
microattività che prima erano svolte da altri, nell’illusione di risparmiare e godere
di maggior autonomia, hanno cancellato i confini di ciò che si fa per gli altri
e ciò che si fa per sé. La grande innovazione (o la grande impostura, a seconda
dei punti di vista) della società postindustriale è proprio quella di essere
riuscita a unire otium e negotium, senza distinzioni sociali. Gli apocalittici
potrebbero obiettare che una società in cui non c’è differenza fra tempo libero
e tempo del lavoro è oppressiva e falsamente democratica, esercita il controllo
totale sugli individui con l’alibi di una libertà senza limiti. Che l’homo
ludens sia tornato e non abbia bisogno di imposizioni per lavorare è un’illusione
rafforzata dalla tecnologia. Invece, senza saperlo, lavora anche quando si
diverte, nella convinzione, già propria di Schiller, che “l’uomo è interamente
uomo solo quando gioca”».
Carlo
Bordoni (la Lettura-Corriere della Sera, 2.2.2014)
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