C’è
un punto in
SamPa,
la docuserie di Netflix di cui tanto si parla in questi giorni, in cui Vincenzo Muccioli
dice che quel che fa, coercizioni e punizioni comprese, non torna a
vantaggio solo del tossicodipendente, ma anche della società:
lasciare che un eroinomane continui a bucarsi vuol dire mettere in
conto che compierà reati per pagarsi il buco, quindi usare le
maniere forti con un drogato, se è il caso, non significa soltanto
salvare lui dal degrado umano, ed eventualmente da una letale
overdose, ma anche salvare la vecchietta che da lui potrebbe essere
scippata della pensione, procurandole eventualmente un trauma cranico
e la morte.
Niente è uguale a nient’altro,
è ovvio, però a me pare che la cosa valga anche per l’obbligo
vaccinale: costringere qualcuno a vaccinarsi contro la sua volontà
non salva solo lui dalla patologia infettiva che potrebbe ammazzarlo,
ma protegge anche la società da un potenziale untore. Insomma, chi è
a favore dell’obbligo
vaccinale potrebbe a buon diritto far propria la filosofia di San
Patrignano, che dà risposta affermativa alla domanda che chiude
l’intro
prima dei titoli di testa del primo episodio della docuserie: «Per
fare del bene puoi usare qualunque metodo?».
Anche volendo fottertene del drogato, che comunque ingrassa la
delinquenza organizzata e ruba un posto in terapia intensiva a chi ha
un infarto o un ictus, pensa alla povera vecchietta: come fai a dire
no? D’altronde
è il tossicodipendente che ha liberamente scelto di entrare a farte
della comunità di San Patrignano, con ciò impegnandosi a
condividere il concetto di bene che vige lì dentro: non è lo stesso
impegno cui è tenuto un no-vax per la semplice ragione di voler
vivere in una società che a stragrande maggioranza ritiene che
vaccinarsi sia un bene?
Per il suo bene, per il bene della società,
deve essere costretto a vaccinarsi contro la sua volontà. Ovviamente
non lo incateneremo nella porcilaia, come Muccioli faceva con chi
voleva sottrarsi alla regole di San Patrignano, ma qualche
punizioncella, qualche coercizioncella, via, che male gli può fare?
«Per
fare del bene puoi usare qualunque metodo»,
basta non esibire con troppa sfacciataggine il Muccioli che hai
dentro. A chi solleva qualche obiezione facendo appello all’art.
32 della Costituzione («Nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario...»),
rammenta che la frase è monca (subito dopo c’è
scritto: «...
se non per disposizione di legge») e che lo stesso articolo contempla la salute come «interesse
della collettività»,
però tieniti pronto a dichiararti contrario alle misure punitive e
coercitive che a Wuhan hanno fatto sparire il virus: confuciano
dentro sì, ma il guardaroba sia da progressista, con ampia libertà per gli accessori (meglio quelli liberali, ma vanno bene pure quelli cattocomunisti).
Nota
Nel
post qui sotto ho citato l’Olivier
Babeau che nei social vede «macchine
per produrre pensiero estremo, emarginare sfumature»,
rendendo impossibile ogni
«discorso contrario alla doxa» degli
opposti schieramenti: «Dubitare
è opporsi. Mettere in discussione è criticare».
Il dibattito pubblico in questi ultimi mesi ne ha dato ampia prova,
laddove ce ne fosse bisogno: se ti permettevi di dire che indossare
la mascherina anche se eri in auto, e da solo, più che un commovente
esempio di senso civico, eri un po’
fesso, passavi per no-vax; e per no-vax passavi pure se contestavi la
perniciosa infodemia dei servizi televisivi in cui la barella
scorreva au
ralenti e
in sottofondo andava lo straziante Adagio
di Samuel Barber; in compenso, però, se ti dicevi pronto al vaccino anti-Sars-CoV-2, passavi
per uno sul libro-paga di Big Pharma; per tornare ad essere
considerato un no-vax se ti azzardavi a esprimere un dubbio
sull’effettivo
controllo della catena del freddo nella distribuzione del vaccino
della Pfeizer, pur premettendo di aver effettuato più di una dozzina
di vaccini nel corso della tua vita. In questo quadro, non mi attendo
che in questo post si sappia correttamente leggere la pur evidente ironia; ma nemmeno
mi attendo che, anche sapendola leggere, le obiezioni siano
correttamente argomentate. Tanto valga a preventiva spiegazione del
perché i commenti impertinenti saranno cestinati.
Stavo
qui a leggere questo splendido volumetto della Quodlibet – La
situazione della scienza giuridica europea
di Carl Schmitt – e a prendere appunti per scriverne qualcosa su
queste pagine, quando mia moglie è entrata col vassoio – spremuta
d’arancia,
caffè, Losartan per la pressione, Cholecomb per il colesterolo – e
parodiando il Buck Malligan dell’Ulisse
di
Joyce – ogni domenica mattina è così, va avanti da almeno due o
tre anni – ha detto: «Introibo
ad altare Dei»,
al quale mi tocca prontamente rispondere, e guai a me se non lo
faccio: «Stately,
sì, my darling, ma niente affatto plump!».
Ricevuto il consueto bacio per il così estorto complimento alla sua
invidiabile linea, di solito va via, per farsi viva solo due o tre
ore dopo, di solito per mandarmi in giro a fare commissioni. Non
oggi. Oggi, posato il vassoio, si è accesa una sigaretta, s’è
sdraiata sul divano e m’ha
detto: «Oggi
fanno giusto vent’anni,
ricordi?».
Qui sono andato in panico, perché scordarsi di un anniversario, qui
da noi, è colpa che impone durissima punizione. Un ventennale, poi.
Tremando un po’,
ma pronto a espiare quello che c’era
da espiare, ho chiesto: «Cos’è
accaduto il 3 gennaio del 2001?».
«Non
hai un grammo di sensibilità»,
mi fa, che detto da una Capricorno a un Cancro, capirete, potrebbe
pure far sollevare qualche obiezione, ma qui ero in difetto, e ho
taciuto. «Il
3 gennaio 2001
– fa – abbiamo
preso Evaristo».
Giusto, cazzarola, come ho potuto scordare Evaristo? Forse ha ragione
lei, sono proprio una bestia. Evaristo è stato un momento cruciale
della nostra vita, al punto da poter parlare di un «prima
di Evaristo» e
di un «dopo
di Evaristo»
– «a.E.»
e «d.E»
– e io che faccio, dimentico quando è entrato in questa casa?
Il
mio lettore – comprendo – si starà chiedendo chi sia Evaristo: è
giusto dargli una risposta, ma è necessaria una premessa. Mia moglie
è solita dare un nome agli oggetti che acquistiamo, probabilmente è
un modo per sentirli veramente suoi, non ho mai voluto approfondire
la questione, perché la convivenza è fatta innanzitutto di rispetto
e di delicatezza per le manie, i tic, le fissazioni di chi ti sta
accanto giorno e notte, sennò alla lunga non funziona. Così, puoi
tranquillamente mandare a cagare un Mantellini che degli oggetti
scrive che «ci
rimangono accanto per anni... improvvisamente scompaiono dalla nostra
vista... non sappiamo se ci hanno abbandonato per sempre, se
torneranno, se là dove sono ora mantengono qualcosa di noi...»,
ma con una moglie come fai? Non puoi, via, d’altronde
mia moglie non pretende che questo suo modo di sentire gli oggetti le
conferisca qualità particolari, tanto meno una qualche superiorità
intellettuale e men che meno morale: quando dice «non
hai un grammo di sensibilità»,
si capisce che si schermisce. Mantellini no, Mantellini è convinto
che l’universo
delle sue manie, dei suoi tic, delle sue fissazioni stia in cima alla
piramide dei sentimenti, della morale, della cultura, e in quel
fortino sta asserragliato, scagliando dai bastioni i suoi lamenti e
le sue invettive sui barbari che ritiene lo stiano assediando.
Ricordate la Maria Elena Boschi che piangeva all’indomani
delle elezioni politiche del 2018, «non
per la maldestra perdita di uno scudetto, e neppure perché finisce
il sogno politico di questo Pd e della sinistra dei quarantenni, ma
perché finisce un mondo che è fatto di letture e buone maniere, di
educazione e di civiltà» (la
Repubblica,
6.3.2018)? Stessa cosa, ma il Mantellini si ritiene più sexy.
Ma
dove eravamo rimasti? Ah, sì, a Evaristo. Bene, Evaristo è il primo
pc entrato in questa casa, e rammentarmi che oggi ricorre il
ventennale di quell’evento
per mia moglie ha significato particolare, perché fa link con tutte
le mie irrevocabili decisioni puntualmente revocate, in primis con
quella che presi entrando nella casa dove ho traslocato dopo la
separazione dalla mia ex moglie: «Qui
nessuna donna dormirà per due notti di seguito».
Decisione revocata dopo meno di un anno: «Perché
non vieni a vivere qui?»,
chiesi a Brunella. E lei disse di sì. Il retropensiero era: «Io
ne ho un po’
meno di 43, lei ne ha un po’
più di 20: quanto può durare?».
Più di quanto prevedibile, è evidente. Così con Evaristo: «Sia
chiaro: in questa casa non entrerà mai un computer!»;
e quattro mesi dopo gliene regalavo uno a Natale, le era
indispensabile per studiare; per lanciargli uno sguardo torvo ogni
volta che gli passavo davanti, anche quando era spento; per poi, un
giorno, sedermi alla tastiera e cominciare, come si diceva allora, a
«navigare».
Sono
arrivato relativamente tardi al web, dunque, quest’altro
ventennale dovrebbe chiudersi a giorni, il che fa capire quale sia la
durata media delle mie irrevocabili decisioni. La cifra tonda
dovrebbe spingermi a raccontare, così si usa, ma onestamente la
voglia manca, perché per mettere mano a tutto il materiale che s’è
venuto ad accumulare mi ci vorrebbero altri vent’anni.
Potrei tagliar corto con un resoconto generico, ma, come è già
accaduto, finirei per impastare le mie personali impressioni a tutto
ciò che ho letto sul web da vent’anni
a questa parte, dalle entusiastiche aspettative che ha sollecitato
nei più ingenui alle brucianti delusioni che ha riservato anche a
chi non ci sperava troppo che fosse la straordinaria occasione per
emancipare le masse e fin da subito metteva in guardia riguardo ai
limiti, ai rischi, ai pericoli. Per quanto mi riguarda, non mi sono
mai fatto illusioni: il web è una realtà parallela, che in gran
parte riproduce la vita di relazione che abbiamo fuori dallo schermo
del pc, ma gonfiando a dismisura certi aspetti e sgonfiandone altri,
con ciò apparentandosi alla pornografia rispetto al sesso, il che è
evidente soprattutto nell’eccessiva
importanza che ci diamo quando scendiamo in questa agorà virtuale.
Qualche
giorno leggevo su Il
Foglio
quel che Olivier Babeau diceva riguardo alla rivoluzione digitale che
ha così prepotentemente segnato il nostro ingresso nel terzo
millennio. Diceva – mi scuso per la lunghezza dei virgolettati, ma
credo ne valga la pena – che «Internet
ha tradito
la sua vocazione e il suo manifesto originari. Avrebbe dovuto portare
a un mondo unificato e parificato. Avrebbe dovuto cancellare le
differenze. Aprendo le porte all’innovazione, alla mobilità
sociale e alla comprensione, avrebbe dovuto dare a ogni azienda,
individuo e paese i mezzi per la propria emancipazione e sviluppo.
Che disillusione! Tutto è a portata di clic. Ma la conoscenza, ad
esempio, non è facilmente accessibile. La tecnologia digitale ha
abolito gli intermediari, ma ha eretto enormi barriere che tagliano
in due il mondo. Abbiamo una divisione dove ci aspettavamo
l’unificazione».
In
quanto alla discussione pubblica: «La
moderazione tanto celebrata nell’antichità, la tendenza al centro
e a emarginare gli estremi stanno svanendo di fronte a uno
spettacolare trionfo dell’arroganza in tutti i campi. Non è più
l’eccesso dionisiaco, controbilanciato da Apollo, tanto adorato
dagli antichi greci, ma l’oblio dei limiti. […] I social,
concepiti come luoghi di emancipazione, diventano macchine per
produrre pensiero estremo, emarginare sfumature. Le minoranze si
organizzano in branchi per mettere a tacere le opposizioni.
L’iper-democrazia prodotta dalla tecnologia digitale non può che
portare all’altro estremo: la dittatura. I due poli si uniranno
nello stesso schiacciamento del diritto di proprietà e della volontà
individuale. La dittatura del Bene divorerà tutto ciò che sarà
alla sua portata. [...] Non è più concepibile pronunciare un
discorso contrario alla doxa. Qualsiasi dibattito viene
immediatamente squalificato. Dubitare è opporsi. Mettere in
discussione è criticare. I discorsi progressisti sono gradualmente
diventati un arsenale che pretende di proibire ogni discorso
alternativo. La polizia del pensiero pretende di governare tutto,
riscrivere la storia, mettere a tacere i fatti imbarazzanti. La
realtà è chiamata a piegarsi all’egemonia della morale del
momento. Alla scienza viene chiesto di collaborare, confermare o
tacere. Anche l’ortografia deve subire i peggiori oltraggi per
diventare “inclusiva”, anche se significa sconvolgere la parola.
[…] Il
progressismo e il suo seguito di “guerrieri della giustizia
sociale” stanno preparando inconsapevolmente terribili regressioni.
[…] Indignazione a geometria variabile, censura in nome della
libertà, esclusione in nome dell’inclusione, discriminazione in
nome della lotta alla discriminazione. [...] Questa radicalizzazione
non è il risultato naturale della dinamica egualitaria, ma il suo
decadimento. L’ossessione progressista è il segnale paradossale di
un esaurimento della dinamica dei diritti umani guidato
dall’Illuminismo. Culminando in un’intolleranza di vedute
esattamente come quella da cui secoli fa si voleva liberare
l’umanità, il progressismo fanatico segna la decomposizione
dell’Illuminismo anziché il suo perfezionamento».
Un
po’
esageratuccio, il Babeau, d’altronde
da sempre la policy
de Il
Foglio
recita: «Se
non sono
irritati e/o irritanti,
non li vogliamo».
Però, via, fatta eccezione per i toni, l’analisi
non è tutta da buttar via. Per meglio dire: i miei vent’anni
di navigazione in rete mi portano a sottoscriverla, seppure con
qualche riserva. Mai nutrito illusioni, però, che non dovesse andare
a finire proprio così. Cioè, a essere onesto, qualche illusioncella
me l’ero
fatta, e anche qui, a rammentarmi quello che con l’età
fa più fatica a restare, ecco di nuovo Brunella: «Hai
dimenticato quando dicevi che la blogosfera ti sembrava qualcosa tipo
“La scuola di Atene” di Raffaello».
«Ma
chi, io?»,
ho provato a obiettare. «Ma
sì, qualcosa del genere. Aspetta, ecco, dicevi che la blogosfera era
descritta a perfezione da “Estetica” di Panella-Battisti. E non
ti azzardare a smentirlo».
«Dio
mio, che discussioni futili, Brune’,
lasciami leggere, va’!
Anzi, guarda pure tu come ’sto
Schmitt inizia moscio moscio, per poi arriva a spararti sulle
gengive: “l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per
creare diritto”... Senti l’incipit:
“Parlare di una scienza giuridica europea appare oggi, forse
proprio a un giurista, inammissibile e non-scientifico. E questo non
solo a motivo della lacerazione politica dell’Europa, dilaniatasi
in due guerre mondiali, ma anche per una ragione formale e
all’apparenza persino di natura specificamente giuridica...”».
Non mi ha lasciato continuare, s’è
alzata dal divano e uscendo ha detto: «Hai
cambiato argomento. E questo non è bello. Ti lascio a Schmitt, io
vado a preparare da mangiare con Casimiro».
Che poi sarebbe il Worker Bimby.
2. Lorenzo
Castellani ha ragione quando scrive che «la
sofocrazia platonica implica un ruolo del sapiente, che però non è
il “competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico».
Pertinente, a tal riguardo, è la citazione di Domenico Fisichella:
«L’idea
di competenza si iscrive essenzialmente nella cornice e nella visione
della razionalità strumentale, intesa come congruenza consapevole
tra mezzi e fini, costi e benefici»
(L’altro
potere. Tecnocrazia e gruppi di pressione
– Laterza, 1997). Tutto giusto, ma perché? Sulla base di quali
elementi la competenza che Platone si intesta può essere da lui
vantata come superiore a quella del tecnico? Ne L’ingranaggio
del potere
non ce ne è data ragione, ma è ancora una volta la filologia a
darcene spiegazione. Per meglio dire: la filogenesi del significato.
Se,
infatti, analizziamo il significato dato a τέχνη
lungo
il procedere dell’uso
che se ne fa, scopriamo che quella che in seguito diverrà tecnica,
intesa come arte,
mestiere,
professione,
e più tardi competenza
in questo genere di attività, ab
initio
è mera capacità di τίκτειν,
e cioè di un creare,
di un generare,
che non è molto diverso da un γέννειν
o
da un φύειν,
per diventare quasi subito, però, un fare
che implica il possesso di particolari cognizioni e di specifica
esperienza: il suo prodotto non è più una naturale γένεσις,
ma una artificiale ποίησις
(dove
artificio,
che in greco infatti è τέχνασμα,
sta perfatto
ad arte);
non lo si trova in natura, ma è un manufatto
(che in greco infatti è τεχνούργημα).
Quando
accade ciò? C’è
un modo assai semplice per datare con buona approssimazione questa
variazione d’uso
del termine, che in buona sostanza coincide col prevalere di
un’accezione
sull’altra,
e quindi di uno scarto nella filogenesi del significato di τέχνη:
basta prendere nota degli anni in cui sono vissuti gli autori che il
Rocci cita a esempio dei vari significati dati al lemma, e
constatiamo che la τέχνη
diventa
tecnica,
smettendo con ciò d’essere
generica capacità di τίκτειν,
che fin lì è anche della gallina che fa l’uovo
o del ramo da cui spunta il bocciuolo, quando la nasce la πόλις.
Ben al di là d’ogni
suggestione, insomma, vediamo che la tecnica
– per meglio dire, il concetto di tecnica
come a tutt’oggi
inteso – nasce per dar conto di una ποίησις
che
è funzionale alle esigenze della città-stato: il tecnico,
che in quel momento è fabbro, falegname, vasaio, ma anche scultore,
ingegnere, architetto, medico, nasce come figura a cui la πόλις
assegna
un ruolo che è in funzione delle sue particolari cognizioni e della
sua specifica esperienza.
Nel
già citato Ione
di Platone abbiamo visto come questo ruolo implichi una distinzione
formale – ripetiamo: «quando
una
τέχνηè
conoscenza di determinati oggetti e un’altra
è conoscenza di altri oggetti, io do ad una un nome e all’altra
un nome diverso» (537
D) –
che però implica una distinzione sostanziale: «ciò
che conosciamo con una data τέχνη
non lo conosciamo con un’altra»
(537 E). Per Platone, tuttavia, è proprio il fatto che ogni τέχνη
abbia
un campo d’azione
necessariamente limitato a rendere il tecnico inadatto a guidare la
πόλις,
basta d’altronde
leggere il X libro della Repubblica
per capire che la superiorità del tecnico è relativa solo al poeta:
su tutto ciò che Omero dice riguardo al modo di guidare un carro,
solo un auriga può legittimamente dirsi d’accordo
o dissentire; su ciò che dice riguardo al modo di curare una ferita,
solo un medico; e così via. Parrebbe che il tecnico venga in aiuto
di Platone nel momento in cui questi sta portando a termine l’opera
iniziata da Socrate: spodestare l’intuizione
poetica in favore del ragionamento filosofico, mettere l’idea
al posto della visione. Non è un mistero, infatti, che per Platone
la poesia, e in genere ogni forma di espressione artistica, debba
essere tenuta lontana dalla πόλις,
perché è mimetica,
e cioè manipolatrice dell’idea.
La sua dottrina delle idee spiega tutto, e non è tempo perso vedere
quale ruolo assegni alla τέχνη,
e soprattutto perché; ancor più, cosa ne consegua.
In
Repubblica,
X, 597 B, ci troviamo davanti a «tre
letti»:
uno è l’idea
di letto «che
è in natura e che potremmo dire, credo, che l’abbia prodotto Dio»;
il secondo, invece, «è
quello che ha prodotto il falegname»;
mentre il terzo è «quello
che dipinge il pittore»;
«dunque,
il pittore, il fabbricante di letti e Dio sono quei tre che
sovrintendono alle tre specie di letti»;
ma, mentre Dio ne è φυτουργός,
e il falegname ne è δημιουργός,
il pittore ne è solo μιμητής;
saltando a 601 A, «così,
secondo me, potremmo dire che anche il poeta si limita a ravvivare i
colori di ciascuna arte, servendosi di nomi e di frasi, non però con
conoscenza di causa, ma per via di imitazione».
Nella storia dell’umanità è forse il solo caso in cui l’artigiano
è stimato più dell’artista: come mai?
La
risposta sta nella Preface
to Plato
(1963) di Eric A. Havelock, e vi ho già fatto cenno prima, seppure
in modo ellittico: a Platone interessa spodestare
l’intuizione
poetica in favore del ragionamento filosofico, mettere l’idea
al posto della visione, perché
la posta in gioco è la conquista della πόλις,
le cui regole, fino ad allora, sono state tramandate dalla poesia. Si
può dettare legge alla πόλις
solo dimostrando fallaci o addirittura empi quelli che fin lì la
poesia è riuscita a imporre come modelli ideali, con ciò assumendo
un ruolo politico. Di qui la necessità di dimostrare che la sua
ειδωλοποιητική
μίμησις è
lontana dall’idea
molto più di quanto non lo sia l’αυτοποιητική
μίμησις
della τέχνη.
La
quale, dunque, implica una competenza
che il sapiente non ha: la vera competenza,
anzi, è proprio la sua, perché è solo lui ad avere l’επιστήμη
del
letto di cui il poeta può darci solo una ειδωλοποιητική
μίμησις e
il
tecnico solo
una αυτοποιητική
μίμησις.
Tornando a ciò che abbiamo detto della competenza
come
capacità
di competere,
la
competizione è evidente.