mercoledì 12 febbraio 2020

Germania, terra di barbari


Fatta eccezione per l’omicidio volontario e la strage, che non sono mai prescritti, in Germania i reati vanno in prescrizione dopo trent’anni, quando la pena massima prevista è l’ergastolo, e dopo vent’anni, quando questa è superiore ai dieci anni, mentre per ogni altro reato la prescrizione arriva dopo che è passato il tempo corrispondente alla massima sanzione che il codice penale prevede come pena, ma a partire non già dal momento in cui il reato è stato commesso, ma da quello in cui arriva l’avviso di garanzia.
Ora, mettiamo caso ch’io sia tedesco e che in data 15 febbraio 2013 abbia commesso un reato che preveda una massima pena di sette anni, ma che fino ad oggi non mi sia stato contestato – ein großer Hurensohn, ja, aber als unschuldig erachtet, oder? È chiaro che dopodomani andrebbe in prescrizione, ma domani mi arriva un avviso di garanzia – Schweinegott, Ich hatte es fast geschafft! – e allora va in prescrizione il 14 febbraio 2027. Mi arrivasse una condanna il 13 febbraio 2027, insomma, pagherei per un reato commesso quattordici anni prima, ’ndo cazzo la vedete più, ’sta Resozialisierunsfunktion della pena?
Scheiße Gerechtigkeit, suppongo conveniate, peraltro qui, nella patria del mugnaio Arnold, quello di «c’è un giudice a Berlino». Ma quale giudice, quale giustizia, questa è la patria del più feroce giustizialismo! E gli avvocati – chiederete – non stanno in sciopero permanente da quando è in vigore questo schifo? E i partiti – chiederete – non ne avete di partiti garantisti? E la stampa – chiederete – non avete un Das Blatt, un Der Zweifel, un Der Reformer, che facciano sentire la loro voce in favore della richtige Gerechtigkeit? Niente, non ce li abbiamo. Ma è che l’Italia è risaputamente culla di civiltà e la Germania è risaputamente di terra di barbari.


Nota Il post ha subìto profonda revisione degli incisi in lingua barbara grazie alla provvida segnalazione di un lettore, che ringrazio di cuore.

domenica 9 febbraio 2020

Bisogna andarci cauti, col denigrare l’odio


Mercoledì 29 gennaio, a Palazzo Chigi, Paola Pisano, Ministro per l’Innovazione Tecnologica, Alfonso Bonafede, Ministro della Giustizia, e Andrea Martella, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, hanno dato vita, con apposito decreto, a qualcosa tra una think tank e una task force che indagherà sull’odio in rete e studierà soluzioni per contrastarlo: lo apprendo da La Verità di venerdì 31 gennaio, cui mi rimanda un post col quale Massimo Mantellini, uno dei chiamati a farne parte, lamenta che «all’annuncio di una simile commissione è seguito l’usuale tiro al bersaglio della stampa di destra (oltre che quello più sotterraneo degli esclusi dall’ambito circoletto) sui nomi degli esperti scelti, quelli che Francesco Borgonovo su La Verità ha definito, non senza una certa fantasia, “psicopoliziotti”, dedicando ad ognuno di noi un agile commento, per altro utilissimo ad identificarci come possibili bersagli».
Ora c’è che l’odio in rete è da qualche tempo oggetto di un dibattito che a me pare impostato nel peggiore dei modi, destinato a consumarsi in un vuoto parlar tra sordi, se tenuto al tavolo dove le opposte opinioni si limitano al confronto, ma pronto a trasformarsi in rissa, laddove una delle due abbia pretesa di tagliar corto, forte della possibilità di imporsi, non importa se con un decreto governativo o con un nodoso randello, soprattutto se in nome di quel bene comune che è sempre proiezione del bene di qualcuno. Anche sullodio in rete, infatti, si dibatte senza quel preliminare accordo su cosa esattamente sia loggetto del dibattere che entrambe le parti danno per superfluo, perché saldamente convinte che non possa essere altro da ciò che ritengono. Cosaltro mai può essere, lodio, se non quello che io chiamo odio? E come può essere altra cosa da ciò che anche gli altri chiamano odio, visto che non sanno dargli un altro nome? Evidente il vizio logico che segna questa certezza, che segna al contempo l’articolo di Borgonovo e il post di Mantellini. So bene che mi beccherò l’accusa di indifferentismo etico e politico per aver messo sullo stesso piano le ragioni delluno e dellaltro, ma, prima di passare a prendere in considerazione le une e le altre, vorrei far presente che la mia opinione sullodio in rete non sta nel mezzo, ma semplicemente alla larga da entrambe.

E dunque. Inizierei con l’esprimere a Mantellini i sensi della mia piena solidarietà, cui mi muovono la tanta stima e il pizzico di affetto che nutro per lui da tempo, a dispetto del raro condividerne gusti e opinioni, ma che qui sarebbe comunque dovuta, e che dunque esprimo anche agli altri quindici «espertoni», come li chiama Borgonovo col manifesto intento di esporli alla canea dei suoi lettori: non ne conosco neppure uno, ma anche a loro l’articolo de La Verità non risparmia un livoroso malanimo, mosso da evidente tendenziosità, che c’è da supporre avrebbe avuto a oggetto chiunque altro fosse entrato a far parte del gruppo di studio voluto dal Governo.
Qui, però, occorre essere onesti: «il gruppo di vigilantes del Governo è composto quasi interamente – come afferma Borgonovo – da uomini e donne di sinistra, alcuni dei quali dichiaratamente ostili alla Destra o almeno alla Lega»? Se sì, mi pare sia evidente che, come è legittimo che un Governo scelga per consulente chi ritiene possa tornargli più utile a un certo scopo, è altrettanto legittimo che chi fa opposizione a quel Governo contesti in quella scelta lo scopo. Giacché lo scopo dichiarato, qui, è quello di combattere «il linguaggio d’odio e la tendenza alla sua esibizione e amplificazione nell’ecosistema digitale» (Andrea Martella), si può concedere alle opposizioni il dubbio che i «vigilantes» possano essere più sensibili a un #boldrinitroia che a un #salvinimerda?
Su Mantellini io non ho dubbi: riterrebbe inaccettabili entrambi gli hashtag, li segnalerebbe entrambi come inquinanti dell’ecosistema digitale. Ma gli è così difficile capire che, per il solo fatto di essere stato scelto da una fazione in campo, l’altra lo avverta come avversario e, alla ricerca di qualcosa che gliene dia conferma, possa esser certo di averla trovata in un «Salvini fa schifo» che ha twittato meno di un mese fa? Non era l’odio a farglielo twittare, mi giocherei un testicolo, ma perché fa tanta fatica a comprendere che, in mancanza di un preliminare accordo su cosa esattamente l’odio sia, Borgonovo è autorizzato a credere che fra i membri della commissione chiamata a bonificare l’ecosistema digitale dall’hate speech sieda pure chi ne fa uso e che dunque lo sia scelto per quel compito, più che per le sue preclare competenze su tutto ciò che è web, per l’essere politicamente fedele a una delle due fazioni in campo?
Ma è probabile che anche altro abbia concorso a dare questa certezza a Borgonovo, lo colgo nel suo tenere a sottolinear il fatto che gli «espertoni» presteranno le loro competenze a gratis. Superfluo dire che questo è molto bello, soprattutto tenuto conto che oggi nessuno fa niente per niente. E tuttavia l’incidentale «e ci mancherebbe altro», che nell’articolo de La Verità vi cade a commento, solleva un problema: se i sedici consulenti non sono organici all’area culturale e politica che trova espressione nelle linee programmatiche del Governo, perché non farsi pagare per quella che in fondo è una prestazione professionale che è sacrosanto abbia un compenso al pari di ogni lavoro? Probabilmente si trattava di una clausola che il decreto governativo poneva a condizione dell’entrare a far parte della commissione: bene, perché accettarla? Non ne sono certo, ma il suddetto «e ci mancherebbe altro» e il cenno che Mantellini fa alle invidie di cui hanno dato segno gli «esclusi dall’ambito circoletto» mi fanno pensare che queste consulenze, ancorché gratuite, o forse proprio perché gratuite, facciano punteggio nel far maturare credito di fedeltà a chi di consulenze vive o di poterne vivere spera: per il ruolo che i partiti continuano ad avere in Italia, anche se solo residuale rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli anni della Prima Repubblica, probabilmente l’apprendistato non retribuito serve ancora a guadagnare il posto fisso alla corte del principe. Nessun rilievo di carattere morale su questo stato di cose, Il lavoro intellettuale come professione di Max Weber ci ha convinto che non può essere diversamente, e noi, che intellettuali di professione non siamo, non abbiamo alcun diritto di metterci il becco: anche nel caso muovessimo una critica a questo stato di cose dalla fiorente rosticceria che ci fa guadagnare il quadruplo di quanto guadagna un intellettuale di primo livello con contratto a tempo indeterminato sotto lala di un mecenate governativo, ci ricaveremmo comunque il sospetto di essere parvenu che ambiscono a intrufolarsi nel circoletto, mercanti che aspirano al titolo nobiliare, e non sia mai. Ma perché stupirsi – perché Mantellini ci tiene a mostrarsi stupito – se qualcuno degli intellettuali schierati in campo avverso osa mettere in discussione la sua imparzialità, insinuando che non sia in missione per conto di Dio, ma per servire un interesse di parte? Ciò che non è lecito a noi, a Borgonovo sì. E allora rissa sia, a noi non resta altro che stare a guardare e, a tempo perso, vergare qualche qualche ozioso pensierino su cosa sia lodio, in generale, e quello in rete, in particolare, sulla carta che abitualmente usiamo per incartare panzarotti e arancini.

Bisogna andarci cauti, col denigrare l’odio, che innanzitutto è cosa umana, e con umana intendo dire cosa di tutti: tutti odiamo e chi lo nega mente, anche se gli si può concedere di farlo in buona fede: odia, ma non avverte che sia odio, mentre invece è sensibilissimo nel coglierlo negli altri, anzi, potremmo dire che solitamente, quanto meno è capace di coglierlo in sé, tanto più è capace di coglierlo negli altri. L’odio, infatti, è espressione di quella aggressività comune a tutto il mondo animale, ma che nell’uomo assume forma di sentimento, ambiguo e multiforme come tutti i sentimenti, sicché è davvero complicato ritagliare un perimetro in cui collocarlo, per tenercelo rinchiuso, evitando torni ad essere rintracciabile anche dove non ci aspetteremmo mai di trovarlo, e cioè dovunque l’aggressività è in gioco nel quotidiano compito di sopravvivere e di procurarci piacere.
Scrive Joan Riviere: «Tutti noi sappiamo, o dovremmo sapere, che in noi stessi e negli altri esistono istinti aggressivi; nondimeno, quest’idea, tutto sommato, non ci piace molto, e così inconsciamente minimizziamo e sottovalutiamo la loro importanza. Non li osserviamo direttamente, ma li teniamo al margine del nostro campo visivo, e non permettiamo che entrino a far parte della nostra concezione globale della vita; mantenendoli un po’ confusi, essi non appaiono più così vividi, così reali, e vitali, e quindi così allarmanti come sarebbero se li vedessimo chiaramente. Naturalmente questo è un metodo molto primitivo di affrontare la nostra paura; difatti in questo modo possiamo solo rassicurare noi stessi, e non ottenere un reale progresso».
E poco oltre: «Vi è una spiegazione evidente, almeno in molti casi, per le emozioni di ostilità: esse si sviluppano in persone scontente, insoddisfatte del proprio destino e delle proprie condizioni. Se cè qualcosa che non riescono ad ottenere, sia esso un bene di prima necessità o semplicemente qualcosa di piacevole, provano un senso di perdita. È evidente che qualsiasi persona (come quasi tutti gli animali) che si veda attaccata, minacciata di un furto o di un danno, sì da subire una perdita, svilupperà una certa dose di aggressività».
Dal piano individuale a quello sociale: «È noto che una mancanza di mezzi di sussistenza nelle persone e nelle classi risveglia aggressività, a meno che non siano in una condizione di irimediabile apatia, di disperazione o di inerzia. In queste circostanze laggressività è un segno di vita; non dico che sia una reazione utile o efficace, ma come manifestazione psicologica è un po più vicina alla soddisfazione del bisogno di quanto non lo sia una vuota disperazione».
Orbene, come si può pensare che una condanna morale dellodio e una censura delle sue manifestazioni possano risolvere i problemi che lo hanno messo in gioco? È domanda che su queste pagine ho posto anche un anno fa, quando, in relazione a qualcosa assai affine allodio, Mantellini lamentava che «l’Italia è oggi una Repubblica fondata sul risentimento». Dopo aver tentato un preliminare accordo su cosa debba intendersi per risentimento, proponendo di dargli la definizione del Sabatini Coletti («sentimento dato da un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustazione subìta, sia essa reale o immaginaria»), chiedevo: «Siamo davanti a un desiderio di rivalsa che ha una qualche legittimità o a quanto fa sintomo di un’estesa patologia di massa, eventualmente ad un connaturato vizio morale che segna il grosso della nazione? Nel primo caso, siamo costretti a fare i conti con l’ingiustizia che ha dato moventi al risentimento, considerare se abbia natura contingente o di sistema, individuarne i responsabili, ipotizzare soluzioni alternative alla violenza per rimuoverla». Che peraltro a me parrebbe pure – tanto per dirla alla carlona – roba di sinistra. Cioè, per meglio dire, roba della sinistra di un tempo. Perché quella che oggi di sinistra continua a conservare il nome, ma sembra essere sempre meno sensibile alla ragioni di chi è risentito per lattacco, il furto, il danno, la perdita, schiera i suoi intellettuali a difesa dello status quo armati della loro potente condanna morale: il risentimento è invidia sociale, poi ci si stupisce che gli operai votino Lega e che l’impoverito ceto medio che fino a venti o trent’anni fa era ancora «società signorile di massa», come ha scritto Luca Ricolfi, oggi sogni l’uomo forte. Così con lodio: poco importa da cosa muova, lodio è brutto, è cattivo, puzza di piscio e vomito: va rimosso. Presto, si chiamino i clercs! Forti del loro potere spirituale, il loro compito inquisitoriale sembrerà santo, il loro engagement non sembrerà trahison.

Fuor dogni sospetto da malpensante, non si capisce che senso abbia la commissione anti-odio voluta dal Governo, né quali innovative soluzioni essa possa partorire per arricchire la già fornita utensileria del nostro codice penale dedicata ai reati che sono concretizzazione dellodio in forma di insulto, minaccia, calunnia, e perfino di malaugurio. Anche laddove essa fosse immaginata come embrione di unauthority che stabilmente vigili sul web, si fa fatica a immaginare possa bypassare la magistratura con funzione di censura. Staremo a vedere, ma limpressione è che nasca come deterrente, e in quanto tale sarà assai poco efficace. Resta che il peggio non sta nellaverla istituita, ma nellaverla ritenuta necessaria, senza riuscire a prevedere che quasi certamente, più che utile, si rivelerà controproducente.

lunedì 3 febbraio 2020

Cinquantaquattromilionicentotremilaottocentodue





Nella critica che Leo Strauss muove alla dottrina dei valori di Max Weber cè un eccesso di animosità che gli cagiona un infortunio: afferma che la reductio ad Hitlerum – sua è la paternità della locuzione, qui le dà vita – è da intendersi come variante della reductio ad absurdum. Non è così, perché la reductio ad absurdum sta nel «dimostrare la validità di una certa affermazione mostrando che, qualora essa venisse negata, si arriverebbe a una contraddizione» (Treccani); niente a che vedere, dunque, con quell«attaccare la persona che propone una certa tesi, anziché la tesi stessa» (ibidem) che invece è argumentum ad hominem, e che nella fattispecie in oggetto rivela la sua natura di fallacia nel considerare che «a view is not refuted by the fact that it happens to have been shared by Hitler» (Natural Right and History, cap. II, pagg. 42-43). È evidente che qui Leo Strauss sia incorso in un errore: che Hitler andasse avanti a carote e zucchine non fa argomento valido contro la dieta vegetariana, pretendere che linferenza abbia senso è assurdo, sì, ma farlo non è reductio ad absurdum.
È fuor di dubbio che la locuzione nascesse con un dichiarato intento ironico posto in quel buffo accusativo della seconda declinazione, fatto sta che la riuscita delleffetto le procurò un immediato successo, che tuttora perdura, al punto che reductio ad Hitlerum ormai sta saldamente in luogo di argumentum ad hominem, giacché Hitlerum sta a perfetta antonomasia dellhominem che getta lombra della sua pessima reputazione su tutto ciò che fa o che dice.
La più sfacciata, ma anche la più persuasiva delle fallacie. Perché factum e dictum vanno ad iudicium sempre accompagnati da qualcuno. La cui buona o cattiva fama tenderà inevitabilmente a influenzare il foro. E il foro, più che fesso, è pigro. Se, infatti, la buona fama che fa argumentum ab auctoritate e quella cattiva che fa argumentum ad hominem possono contare su questa influenza, è perché si offrono al foro come espediente per risparmiare tempo, e fatica: perché sprecarne tanto, e tanta, nel formulare ogni volta un iudicium strettamente motivato su ciò che ha detto Caio o ha fatto Sempronio, quando per entrambi è pronto quello emesso sui loro dicta e facta già passati in giudicato? Sarà un preiudicium, certo, ma quanto potrà essere errato? Dallottimo Caio non ci può attendere altro che del buono. Dal pessimo Sempronio, che-te-lo-dico-a-fare?

Da un mostro come Mengele, per esempio? Solo mostruosità, è ovvio. Contando su questo preiudicium, dunque, posso tranquillamente contare che il foro emetta in automatico, senza star lì a sprecare troppo cervello, una condanna senza possibilità di appello su tutto ciò che sarò in grado di reducere ad Mengelem. E però il foro è pigro, dicevamo, e, sì, talvolta è pure fesso, ma mai al punto dal poterlo persuadere che – faccio per dire – la lepre in salmì faccia schifo solo perché piaceva tanto a Mengele: la reductio ad Mengelem mi tornerà utile per ottenere una condanna senza possibilità di appello solo su ciò che riuscirò a dimostrare avere un nesso di assai più stretta peculiarità alla figura di Mengele di quanto lo sia la predilesione per la lepre in salmì. Il fatto che fosse medico e ricercatore, per esempio, o il fatto che facesse esperimenti.
Un medico e un ricercatore cui oggi nessun medico e nessun ricercatore direbbe collega, certo, ed esperimenti che oggi nessuno si azzarderebbe a considerare legittimi. Ma questo non ha importanza, anzi, occorre che il foro non abbia modo di dargliene alcuna, perché Mengele mi serve per proiettare la mostruosità della sua attività nel campo eugenetico (peraltro in ricerche come quelle sui canali della «trasmissione razziale» e sulla possibilità di cambiare il colore dell’iride) su tutto ciò che intendo insinuare le sia affine, fa niente non lo sia: leutanasia come libertà di poter decidere come e quando morire, la fecondazione assistita come superamento delle difficoltà che impediscono di avere un figlio, la ricerca scientifica su blastocisti altrimenti destinate a rimanere congelate in eterno, ecc. Perciò mi occorre che il mostro che è in Mengele resti ben evidente sotto la buona reputazione che mi sforzerò di dimostrare aveva ai suoi tempi, di modo che avrò gioco facile nellaffermare che unanaloga mostruosità sta nella libera scelta eutanasica, nella libertà di ricorso alla fecondazione assistita, nella libertà di ricerca scientifica, ecc., a dispetto del maggioritario consenso di cui esse oggi godono.
In sostanza: quanto più sarò in grado di dimostrare che Mengele godeva di grande prestigio nel mondo scientifico dei suoi tempi, tanto più potrò aspettarmi che il foro discrediti quello odierno, che alle suddette libertà dà razionale fondamento. Per farlo, tuttavia, potrà scapparmi un eccesso di animosità che potrà cagionarmi qualche infortunio.

È quello che, col numero in edicola sabato 1° febbraio, è accaduto a Il Foglio, che della reductio ad Mengelem ha peraltro sempre fatto largo uso nelle sue passate battaglie culturali. Limitando la ricerca alle sole 14 annate tra il 1996 e il 2009 che qualche tempo fa il giornale raccolse in un dvd-rom al prezzo di € 9,90, si contano 94 occorrenze in 68 numeri. Robe di fattura grossolana, tipo Mengele che porge una pompa da bicicletta alla Bonino, Mengele che porta alla Consulta un pacco di firme per i referendum sulla fecondazione assistita, Mengele che stacca la spina a Welby, Mengele che tortura embrioni in Francia, in Belgio e in Corea del Sud.
Stavolta si è tentato un uso più sofisticato della reductio ad Mengelem, quello che illustravo poc’anzi, e qui è accaduto l’incidente, perché, nel pasticciare con la recensione di una biografia che intenderebbe dar risalto allo «scienziato» rispetto al «mostro» (il condizionale è d’obbligo, perché Il Foglio non si è mai fatto scrupolo di traduzioni assai addomesticate e di disonestissimi ritagli), alle mani del recensore sono rimaste appiccicate schifezze come «brillante ricercatore» e «non solo un assassino» che hanno urtato qualche sensibilità, facendo protestare qualche intelligenza per il titolo di «professore» assegnato a un Mengele mai salito in cattedra.
Qui vi risparmio gli improperi che su Twitter sono piovuti addosso al Meotti – era lui a firmare il pezzo – limitandomi a riportare il modo in cui si è difeso: è vero, Mengele non era «professore», ma «era pronto alla docenza»; e comunque «studiò con due Nobel»; andò a lezione dal «più grande genetista del tempo»; tutto questo, poi, non l’ho scritto io, ma Marwell, «ex direttore del Museo del patrimonio ebraico di Washington che ha dato la caccia a Mengele», io mi sono limitato a riportarlo.
Direi che come difesa sia efficace, via. Certo, resta quel «non solo un assassino» che puzza assai, ma chissà che pure quello non sia farina del sacco di Marwell, e a lui allora andrebbe posta la domanda che viene spontanea: scusi, Marwell, ma quale assassino è solo un assassino? E cosa aggiunge o cosa leva al suo essere un assassino il fatto che collezioni francobolli o tappi di bottiglia, tifi Spal o Sassuolo, soffra di emorroidi o di sinusite?

Un gran bel ginepraio, vero? Probabilmente anche voi sentirete il bisogno di mettere un po’ di ordine tra Mengele, Marwell e Meotti. Ho quello che fa per voi, è quanto ha scritto Andrea Mariuzzo, ricercatore presso il dipartimento Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia:
«Il pezzo di Meotti non è affatto apologetico, ma il testo e il modo in cui è presentato sparano davanti al pubblico in modo ostentatamente provocatorio un tema delicato in cui bisogna stare attenti alle sfumature».
Non coglie il fine della provocazione, ma fa niente, proseguiamo:
«Ha un senso inserire la figura in un contesto complesso: quello di un dibattito scientifico in cui il tema delleugenetica aveva ammissibilità scientifica in tutto il mondo, legato a questioni come politica demografica, salute e igiene pubblica, assistenza sociale, ecc., in cui la comunità accademica tedesca era ancora allavanguardia del mondo, avendo rappresentato, fino a non molto tempo prima, il modello per una moderna politica della conoscenza. Occorre tener conto di ciò nella traiettoria biografica di Mengele, come del fatto che mondo scientifico tedesco aveva subito dallavvento del III Reich una torsione verso la piena sottomissione alla politica di guerra e di sterminio del regime che lo controllava e lo finanziava. Mondo scientifico che era pesantemente epurato di tutti i possibili corpi estranei, come tutta lEuropa delle dittature, originando una migrazione di cui, tra laltro, approfittarono gli Usa attrezzandosi col personale che li avrebbe condotti alla guida del progresso scientifico. In questo quadro Mengele non era né un luminare né un ricercatore particolarmente brillante, come i fiocchetti messi dal titolista lasciano intuire. Non è solo perché il dibattito di settore nel dopoguerra ha preso strade diverse se i suoi lavori non hanno lasciato alcun segno, ma soprattutto perché è proprio vero che quanto ha compiuto erano crimini e non esperimenti».
Meglio di così credo sia difficile dar conto di quanto sia pericoloso trattare un tema come quello della sperimentazione nei campi di concentramento nazisti lasciando che a guidare la mano sia solo limprontitudine di maldestro uso polemico. Ma anche su questo Andrea Mariuzzo ha parole di estrema chiarezza:
«La lettura del volume recensito chiarirà quali sono le acquisizioni originali, ma da quanto scritto sul Foglio non è chiaro che cosa una ricerca impostata in questo modo ci restituisca della vita di Mengele e della scienza interbellica che già non sappiamo. Di sicuro non si vedono ragioni che giustificano il sensazionalismo di una paginata di giornale. Il giudizio sullo stile di lavoro di Meotti, non nuovo a pezzi che si rivelano centoni mal tagliati di articoli in inglese tradotti in fretta, non muta con questo intervento».
Più che una chiusa, una lapide.

P.S.: Dimenticavo di dar conto del titolo: 54.103.802 sono gli euro di finanziamento pubblico che Il Foglio s’è pappato dalla sua fondazione a tutt’oggi. 


domenica 2 febbraio 2020

La partita del 26 gennaio


L’attesa ha caricato di notevole tensione l’appuntamento del 26 gennaio, per settimane e settimane praticamente non si è parlato d’altro. Comprensibile, dunque, che l’esito della contesa abbia assunto importanza via via crescente, forse anche più di quanto in realtà ne avesse, e che sul risultato, che ha dato qualche grattacapo anche ai bookmakers, fossero puntati gli occhi di tutto il Paese. Partita quanto mai sentita, sulla quale, ora, a una settimana di distanza, si può fare il punto con più serenità, e soprattutto con più lucidità, di quanto è stato all’indomani, quando ogni analisi ancora risentiva del febbricitante clima della vigilia, che ha surriscaldato più del dovuto campo e spalti.
Questa è l’intenzione che mi pongo, senza sottovalutare il rischio di aspre critiche, e da entrambe le tifoserie, per quella che metto in conto vorrà esser letta come mancanza di sensibilità calcistica, perché suppongo abbiate capito che qui m’intratterò sulla partita Napoli-Juventus, giocata giusto sette giorni fa. Suppongo sappiate pure come è andata: 2-1.
Il Napoli aveva il vantaggio di giocare in casa, forte di un tifo che da sempre in città è vissuto come fede, ultimamente tuttavia alquanto scossa da una lunga serie di sconfitte.
I tempi di Maradona sembravano lontani un secolo, e le speranze accese a inizio di ogni campionato, spesso illusoriamente nutrite da un buon esordio, anche stavolta si erano spente. Anche stavolta lo scudetto era diventato un miraggio e, partita dopo partita, ormai si scendeva in campo con l’apparente unico scopo di evitare figuracce. E non si riusciva ad evitarle. Sicché lo spogliatoio ormai era un inferno. E gli sponsor storcevano il muso. Mai così basso il numero di abbonamenti. Mai così pochi i tifosi al seguito nelle partite in trasferta, ridotti a uno zoccolo duro sempre più eroso da sconforto e rabbia.
Colpa dell’allenatore? Cambiarlo non aveva dato risultati. In ogni caso, i giocatori apparivano demotivati. Per tacer del presidente, un taccagno senza onore e senza sentimento.
Ma queste son cose che probabilmente sapevate già, mi scuso col lettore che avrò tediato con l’averle rammentate, e ancor più con quello che, da tifoso del Napoli, potrà rimproverarmi di averle illustrate in modo troppo grossolano, senza un grammo di empatia, trascurando il peso che sulle deludenti prestazioni della squadra hanno di volta in volta avuto le scorrettezze degli avversari e le ingiuste decisioni arbitrali.
È che il calcio, per dirla con un eufemismo, non è tra i miei interessi principali. Né mai lo è stato. Le poche volte che ci ho messo mano su queste pagine è per l’abuso allegorico che ne faceva la politica, da me peraltro sempre severamente biasimato.
Concedendo che il mio disinteresse per il calcio possa aver dato un quadro non precisissimo delle condizioni in cui versava il Napoli, questa era la squadra che il 26 gennaio ospitava al San Paolo la Juve, e cioè la squadra in cima alla classifica, la squadra che nel Paese conta il maggior numero di tifosi, fieri di dirsi «gobbi», la Juve cinica, cattiva e opportunista, che da un bel po’ vince e stravince, godendo d’essere odiata da chi sconfigge, apparentemente motivata più dallo «juvemerda» di chi la odia che dal «forzajuve» di chi la ama.
Una macchina da guerra contro undici depressi: quello del San Paolo era un risultato che in tanti davano per scontato. Sbagliando. Perché le cose sono andate come sapete: il Napoli ha vinto.
Ora, quando la propria squadra vince, il giubilo è sacrosanto. Poi, giacché ciascuno ha l’indole che si ritrova, è sacrosanto pure che il giubilo si esprima come a ciascuno pare più appropriato. Il tifo, tuttavia, eccita l’indole anche di chi solitamente è persona mite e ragionevole. Così, in tutta la pur ampia gamma di espressioni di giubilo cui abitualmente si abbandonano i tifosi di una squadra che ha vinto, costante è un che di esagerato, se non di irrazionale. Chi, come me, non ha mai fatto il tifo per una squadra può essere tentato alla condanna di quella che spesso ha tutti i tratti della pazzia, ma non è giusto e, seppure lo fosse, non è consigliabile. Non è giusto, perché il tifo è questione di testa solo per il poco che alla testa basta per dargli dignità di passione. Non è consigliabile, perché la passione non tollera critiche, tanto meno paternali. 
Non ci si azzardi, dunque, a far presente ai tifosi del Napoli che il loro giubilo è folle. Che il campionato non dà loro alcuna speranza. Che la Juve resta la Juve.