martedì 4 febbraio 2014

L’ossessione della «famiglia normale»


La famiglia è l’ossessione di chi ha vissuto la propria infanzia in una famiglia problematica, e non c’è affatto bisogno che essa avesse notevoli particolarità per causare problemi al piccolo, perché anche una famiglia cosiddetta normale è in grado di causarne. È che «normale» vien da «norma», che vuol dire «legge», e in questo caso rimanda a «natura», che però è pure sinonimo di quella che in statistica è detta «moda», cioè «il valore che compare il massimo numero di volte in una successione finita». Non è il caso di tirarla troppo per le lunghe, però anche «valore» ha il suo ambiguo, perché rimanda – insieme – a un punto posto su una scala e ad una logica che pretende di informare il senso di un bene, e non fa differenza che sia materiale o immateriale. Un gran bel guaio quando si è costretti a ricorrere a termini cotanto ambigui, e il guaio più grosso si rivela nel fare i conti con la cosiddetta «famiglia normale», che da un lato potrebbe definirsi come realizzazione di un disegno trascendente anche quando la si concepisce come espressione di una «legge» di «natura», perché mai come in questo caso la «natura» è intesa tanto «dentro» all’uomo da stargli in realtà «sopra» e «prima», e dall’altro coincide col modello di famiglia conforme alla «moda» in un dato tempo e in un dato spazio, che di solito costituisce il posticino più rassicurante sotto una campana di Gauss. È questo che dà un tono tragico al tizio con l’ossessione della «famiglia normale»: a dover rendere conto di quale «norma» sia informato il modello di famiglia che per lui è ideale, non può far altro che indicare una «legge» di «moda», rivelando che il suo «valore» è dato esclusivamente dalla misura del suo esservi conforme. Si presenta come il difensore di un disegno trascendente, ma a grattarne via il superficiale strato retorico che lo ricopre emerge il conformista.
Un esemplare campione di questo genere di ossessione è Giuliano Ferrara e ad illustrarne il tragico è il suo editoriale in prima pagina su Il Foglio di martedì 4 febbraio, che prende a spunto la vicenda di cronaca che ha per protagonista Woody Allen, che una sua figlia adottiva, oggi ventisettenne, ha accusato di atti di pedofilia che si sarebbero consumati oltre venti anni fa. Dice di non essersi fatto un’opinione precisa su ciò che Dylan Farrow ha raccontato al New York Times, anzi, dice di credere sulla parola a Woody Allen, che ha dichiarato trattarsi di falsità, e aggiunge di non volere approfittare di un’accusa che «sulla scala spettrale del desiderio rimosso» potrebbe nascere solo dal «rapporto anaffettivo tra una figlia e un padre» per vendicarsi di quel «nichilismo relativista», che a lui sta terribilmente sul cazzo, di cui i film di Woody Allen sarebbero il manifesto. In pratica, lo fa. E non ha alcun pudore ad ammetterlo: «Se non mi vendico, e limito la vendetta alla sua sconcia e cinematicamente efficace attitudine al relativismo etico, per lui non piango. Faccio come lui. Non piango, ma non insinuo. Non ne ho bisogno. In fondo, basta che funzioni». Non ha bisogno di insinuare che storiacce del genere possano verificarsi solo in un ambiente moralmente degradato e culturalmente tarato: comunque stiano realmente i fatti, un presunto pedofilo che ha un modello di famiglia alternativo a quello «normale» (qui è preso ad esempio quello illustrato da Woody Allen in Whatever works) non merita le garanzie che, fosse soltanto in termini di solidarietà, sono dovute a un presunto pedofilo che su questo piano sia un sano conformista.
Superfluo sottolineare che siamo all’ennesimo sproposito di argomentazione cui Il Foglio ci ha abituato fino alla noia, ma forse non è del tutto inutile rammentare che al «relativismo etico» dei nostri tempi bui Giuliano Ferrara riusciva ad imputare pure gli abusi sessuali commessi su minori da membri del clero cattolico. Pedofilo o no, insomma, chi è per una famiglia diversa da quella «normale» sarebbe in parte responsabile, ancorché involontario, di ogni atto di pedofilia, compresi quelli commessi da chi, almeno a chiacchiere, professa fede incrollabile nel modello di famiglia «normale». Quanto sia assurda questa posizione, che pure ha l’estremo pudore di andarsi a rintanare in un volvolo logico sfacciatamente specioso, è inutile dire: basti il rilievo storico che la pedofilia è sempre esistita, e si trasmette da abusato ad abusante come il cognome paterno nelle famiglie perbene. Quanto, poi, all’ossessione per la «famiglia normale», non c’è bisogno di scavare troppo nella biografia di Giuliano Ferrara, basta chiedersi donde vengano i suoi disturbi alimentari. In quanto alla famiglia che si è costruito, infine, non si capisce dove sia la «norma» che dichiara necessaria, se non nel fatto che la signora Selma è indubitabilmente femminuccia, come lui è indubitabilmente maschietto.  

4 commenti:

  1. ah, il Malvino che preferisco!!!

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  2. Mi riesce difficile da capire perché uno debba avercela con Woody Allen. Per "avercela" intendo quel modus operandi per cui si cerca pretestuosamente di denigrare un nemico, quando gli stessi fatti si perdonano a un amico. E' un modus operandi, ma anche e soprattutto un modo di essere. Nella fattispecie, capisco avercela con Benigni, che l'ipocrisia la porta sullo schermo. Ma W.A., ammesso che sia ipocrita, l'ipocrisia la lascia fuori del set. E allora? Non sarebbe il caso che di lui si occupasse, eventuamente, il district attorney, e non i moralisti italiani?

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  3. Dotto', quand'è stata l'ultima volta che ha promesso che basta, che di Ferrara non avrebbe più parlato mai e poi mai, qualunque e qualsivoglia cosa dicesse o facesse?
    E perché ci ricasca sempre?

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  4. Potrei cavarci tre post al giorno da tutte le cazzate che scrive, mi limito a segnalare quelle che, di là dalla persona, sono esemplari di una tipologia di mistificatore.

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