La
vicenda personale di Silvio Berlusconi scuote violentemente il partito che si
identifica nella sua persona, mettendone a rischio l’integrità, tra il rischio
di scissione e quello di dissoluzione. Siamo dinanzi al paradigma del movimento
politico che lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader,
poco importa se fin dalla fondazione, com’è in questo caso, o per sopravvenuta mutazione.
I motivi perché questo accade e i modi in cui questo si realizza possono essere
analizzati col metro psicologico, con quello sociologico o con quello che integra
entrambi nel metodo scientifico che è proprio della psicologia sociale. Quale
che sia lo strumento di analisi, tuttavia, ciò che porta un movimento politico a
ritenere vantaggioso investire tutto se stesso in un solo uomo rimane un bel rompicapo, sicché ciascuna
delle espressioni fin qui usate per significare questa scelta («si identifica
nella sua persona», «lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del
proprio leader», «investe tutto se stesso in un solo uomo») ne danno conto solo
in un aspetto, che non la risolve interamente.
In realtà, siamo dinanzi ad una scelta che è
– insieme – di totale investimento, piena identificazione e indissolubile
legame, ma anche di un di più, che è quanto questa scelta produce in
ordine alla struttura del movimento politico, alle relazioni tra i suoi membri,
tra i suoi membri e il leader, e alla percezione che essi sono indotti ad avere
di ciò che è «dentro» e di ciò che è «fuori» il perimetro della «pars» fatta «partito».
Anche così caratterizzata nella sua natura, tuttavia, la scelta non svela ancora
le sue ragioni, rimandandole però ad una condizione di necessità che
sembrerebbe renderle cogenti. In pratica, ciò che porta un movimento politico a
fare del proprio leader la ragion sufficiente della propria esistenza non sarebbe
neppure una «scelta», ma una decisione necessitata dalla inadeguatezza delle
opzioni alternative.
Qui ritorna la questione che prima abbiamo in qualche modo
accantonato dichiarando legittima l’analisi del fenomeno sia sul piano psicologico,
sia su quello sociologico, sia su quello di intersecazione dei due piani: la
condizione di necessità è posta da fattori esterni, da fattori interni o dalla
combinazione di fattori esterni e interni? Per meglio dire: nel fare del
proprio leader l’intestatario unico ed esclusivo di un dominio che coincide con
la «pars» nella quale si decide l’inclusione, si risponde a una necessità che è
nell’individuo, eventualmente in ciò che fa dell’individuo un polo relazionale,
o a una forza maggiore posta da una determinata struttura della relazione?
Ancora meglio, cioè prendendo a esempio proprio il caso di specie: cos’è che
porta a ritenere naturale, se non giusto, che il destino di un movimento
politico sia indissolubilmente vincolato a quello del suo leader? Dipende dalla
«pulsione gregaria» che costituisce la caratteristica indispensabile per poter
essere reclutati in movimenti politici di questo genere o si tratta piuttosto
di un effetto collaterale della cosiddetta «personalizzazione della politica» dopo
la crisi dei partiti a forte impronta ideologica?
Quello di Silvio Berlusconi sembrerebbe
offrirsi come caso di scuola a dimostrare la validità della seconda ipotesi,
come d’altronde è per gli altri movimenti politici che hanno mosso i passi dopo
la «morte dell’ideologia»: quale miglior esempio di Forza Italia per la
dimostrazione dell’assunto che, al venir meno di un saldo sistema ideologico di
riferimento, un movimento politico sia in qualche modo costretto a investire tutto
su un nome, una faccia, una storia personale? Non bastasse questo esempio, si
pensi alla crisi in cui l’Italia dei Valori è precipitata dopo l’infortunio televisivo
che ha del tutto rovinato la già malferma reputazione di Antonio Di Pietro, o a
quella, seppur meno drammatica, cui irreversibilmente pare andare incontro la
Lega Nord che fu di Umberto Bossi. Sennò si pensi a un movimento che pure pare
in buona salute, com’è il M5S, ma che nessuno riesce a immaginare integro ad un’eventuale
uscita di scena di Beppe Grillo.
Trattandosi di movimenti politici che sono
nati tutti dopo la crisi del partito che trovava la propria ragion d’essere (o
almeno la sua intestazione nominale) in un’ideologia (o almeno in una
tradizione ideologica) di riferimento (nel caso della Lega Nord, possiamo dire
che sia nata in questa crisi), parrebbe di poter ragionevolmente concludere che
il fenomeno sia possibile solo alle condizioni poste da un contesto che
favorisca (come in realtà ha favorito) la trasformazione della fidelizzazione
ideologica in un eterogenea e spuria serie di fattori che concorrono al
reclutamento di fan sotto un’insegna di cui è titolare un leader carismatico.
In parte è vero, ma solo in parte, perché il «partito» che nel culto della
personalità del proprio leader vede un momento indispensabile del farsi «pars»
non è un oggetto nuovo, anzi, è la forma più ancestrale di appartenenza a un
gruppo della specie umana.
In tal senso, nell’appartenenza ad un movimento
politico che fa del proprio leader – insieme – capo indiscutibile ed entità
totemica possiamo riconoscere un momento di regressione della vita di gruppo alle
forme claniche e tribali. Da ciò, tuttavia, non è lecito inferire che il
partito a forte impronta ideologica sia esente da tali forme di regressione,
basti pensare alle esperienze totalitaristiche del secolo scorso.
In buona
sostanza, sembrerebbe che il fattore esterno (la «personalizzazione della
politica») sia solo in grado di potenziare quello interno (la «pulsione
gregaria»), semplicemente latente anche quando sembri assente. Ce n’è di che
mettere da parte tanta inutile discussione politica per una più proficua
riflessione sulla psicopatologia dei gruppi. Il fatto è che abbondiamo di notisti, opinionisti e retroscenisti, e difettiamo di esperti delle patologie relazionali.
Josif Stalin = piccolo padre
RispondiEliminaFrançois Duvalier = papa doc
Kim Jong-Il = padre del popolo
Silvio Berlusconi = papy
A me sembra che la tua analisi sia eccessiva e adatta a (situazioni, personaggi, contesti) migliori. La spiegazione migliore di questa tendenza ad identificarsi oltre ogni ragione l'ha data un comico (credo Neri Marcorè) che burlandosi di Gasparri, mentre recitava la parte di un qualche dirigente del PDL, ha detto "Uno come Gasparri, se non lo facevamo ministro, lo dovevamo mettere al Grande Fratello".
RispondiEliminaAlla fine credo che la cosa che accomuni tutti i partiti che hai citato, e direi quindi non a caso, è il modo in cui la classe dirigente viene selezionata, ovvero sostanzialmente per cooptazione.
Tra gli eletti nazionali del M5S non ce ne è quasi nessuno che venga dal mondo delle professioni liberali, dell'impresa, dell'accademia, insomma quasi nessuno che abbia mai comandato altri che sé stesso (e in certi casi, manco quello, essendoci persone che non hanno avuto significative esperienze nel mondo del lavoro in quanto tale). E direi che, sempre secondo questa linea di analisi, la crisi della Lega Nord è un po' meno crisi perché lì un po' di selezione veniva fatta, lascia perdere i leader nazionali ma quelli locali in genere sono persone che la gente in sezione ce la fanno venire. Viceversa l'Idv ha selezionato, tramite Di Pietro, gente come De Gregorio, Razzi e Scilipoti e direi che evitiamo di aggiungere altro.
Sintetizzo a costo di ripetermi: è un problema di qualità della selezione, e di etica della classe dirigente, la psicologia e l'istinto gregario c'entra poco.
Presumo che i notisti, gli opinionisti e i retro[o]scenisti (anche quelli più giovani) non possano permettersi di utilizzare gli strumenti di analisi psico-sociale che tu proponi, perché segherebbero il ramo (secco) dell'albero dove sono seduti.
RispondiEliminaSe un tempo le ideologie si servivano dei leader per perpetuarsi, ora - morte quelle - questi si servono dei loro cadaveri per tenersi a galla. È sciacallaggio, quindi una regressione palese.
RispondiElimina@anonimo del 1° commento
RispondiEliminahai scordato il santo padre
E' vero!
EliminaErrore imperdonabile.
Ma a chi attribuire il titolo?
Alessandro VI, Leone X, Giulio II, Bonifacio VIII, Giovanni XII, Gregorio VII, Urbano II, Innocenzo III, Giovanni XXII, tanto per citarne alcuni?
Troppi pretendenti.
Il feudalesimo (berlusconiano e leghista) come anche l'assolutismo (grilliano) hanno dalla loro una sgradevole efficacia (anche ridotti alla stampella del populismo), tanto più sgradevole quanto più ricca di esternalità negative, che sono la loro ragion d'essere, d'altronde, in quanto fonte delle internalità positive.
RispondiEliminaÈ lo stesso motivo per cui la storia l'han fatta i razziatori invece che i contadini.
Soluzioni? Anche a trovarne di teoricamente efficaci, non solidamente impiantate nella cultura sarebbero inutili. Temo che solo la farraginosa evoluzione memetica di tabù e interdetti possa portarne.
Ho sempre avuto l'impressione che il declino della Lega sia conseguente ai suoi fallimenti politici e alla caduta di credibilità più che alla marginalizzazione di Bossi.
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