Se la
qualità che vuole esprimere è pars pro
toto di un individuo realmente esistito, e in effetti è questa la sua
pretesa, quasi mai l’antonomasia regge all’onesto giudizio in sede storica, perciò è figura retorica che andrebbe evitata,
tanto più perché didascalizza la qualità che intende far viva con l’esemplarità
del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e morale, e quella
delle sfumature che la rendono umana: in pratica, la qualità acquista la
fissità di una maschera dietro la quale il personaggio storico è costretto a
interpretare una parte che raramente è quella sua.
Se tradisce il portato, d’altronde,
l’antonomasia tradisce anche il portante: quel che si addebita a La Palisse, ad
esempio, si deve solo all’errata lettura della sua lapide tombale, e Vespasiano
si limitò solo a tassare l’uso degli orinatoi pubblici che esistevano già da
lungo tempo, e Pigmalione non era affatto uno scultore, ecc.
La sorte più emblematica,
però, è quella toccata a Fabrizio Maramaldo, diventato antonomasia
del vile che infierisce sull’inerme che ha subìto una dura sconfitta o comunque
versa in gravi difficoltà. La fama – l’infamia, per meglio dire – gli viene
dalla storiella messa in giro da Paolo Giovio, un pretastro sulla
cui affidabilità di storico oggi si storce il muso, e che per tutta la sua vita
fu a servizio di potenti contro i quali Maramaldo si era trovato in campo
avverso: è nella sua Historia sui temporis che la si legge per la prima volta,
senza alcuna indicazione della fonte.
Di fatto, pare che la storiella non trovi
alcuna conferma: Francesco Ferrucci non sarebbe stato affatto
ucciso da Maramaldo, ma da Alessandro Vettori, per giunta non dopo
essere stato catturato e disarmato, ma in battaglia, mentre è accertato che invece
fu il Ferrucci a macchiarsi di un’azione abominevole, uccidendo un messo
inviatogli da Maramaldo con l’invito alla resa, un inerme tamburino.
A ciò deve
aggiungersi che sono innumerevoli gli attestati di stima che Maramaldo raccolse
dai suoi contemporanei e, sebbene fosse un mercenario, negli scritti coevi lo troviamo ripetutamente
onorato come soldato di valore e tra i migliori gentiluomini
dei suoi tempi. Tra quello dei posteri, invece, va segnalato il giudizio di
Antonio Gramsci: «Storicamente può e deve essere sostenuto […] che Maramaldo
possa essere stato un rappresentante del progresso storico e Ferrucci storicamente
un retrivo» (Quaderno VI).
E
tuttavia, sappiamo bene, ciò che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a distanza. Se sul piano storico, dunque, la
questione rimane aperta solo sull’intenzionalità o meno della diffamazione
messa in giro da Giovio, su quello relativo al narrato dal quale attinge la
retorica, rimane «maramaldo»
– comprensibile rimanga –
chi infierisce su un inerme, e l’Historia sui
temporis fa testo nel dare forma e sostanza al termine. Qui leggiamo che Maramaldo, prima
di sgozzare Ferrucci, gli chiede: «Pensasti mai dovermi venir nelle mani quando
crudelmente e contra l’usanza della guerra tu impiccasti il mio tamburino a
Volterra?».
Nel caso, dunque, saremmo dinanzi a un «maramaldeggiare» che è
punizione di chi ha commesso una turpitudine. Turpe anch’essa, senza dubbio, ma meno odiosa di quanto ci era fin qui sembrata.
Quindi possiamo affermare che ieri, in Senato, non si è affatto maramaldeggiato...
RispondiEliminaG. Ferrara fa uso compiacente del verbo perché gli ricorda la marmellata di fichi con le dita dentro, piuttosto laide.
RispondiEliminaImmagine di sublime lirismo, complimenti.
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