Quest’anno parleremo molto dell’Unità d’Italia, sicché da subito conviene dire due o tre cose che a mio parere non possono e non devono restare sottintese, come vorrebbe chi ha interesse a che siano deliberatamente eluse, per essere meglio rimosse o, peggio, mistificate. Vorrei legarle tutte in una – e vedrete che non è solo per comodità espositiva – nel pensiero di uno di quei tizi che fu fra i primi ai quali scappò detto un “noi italiani”. Più d’uno, in verità, perché parlo di Niccolò Machiavelli e dei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519), dove l’Italia non è più solo mito, come in Dante o in Petrarca, ma storia e – più di tutto – questione politica. Qui, infatti, l’Italia è detta “provincia divisa”, e nella divisione è inteso un limite, posto a tutti e a ciascuno come impedimento a farsi nazione. È in questo limite che la nazione resta irrealizzata ed è oltre questo limite che invece supera – eccede – l’insieme di quanto è dato come etnico, geografico, linguistico, ecc. Possiamo dire che l’Italia si comincia a intravvedere quando infine – e finalmente – si postula il primato della politica sulla morale, e quello della volontà sul carattere. In Machiavelli la nazione non è destino, tantomeno è incarnazione di un narrato mitologico, forse non è nemmeno nostalgia dell’antica Roma come è parso a molti: l’italiano che non c’è – quello del quale Machiavelli lamenta la mancanza – non è l’erede dell’impero che fu smembrato dai barbari, ma è la prefigurazione del cittadino nel suo primordiale stadio di suddito. La polis è superata, la foederatio l’assorbe e la proietta in Stato.
So bene che per certi versi questa lettura di Machiavelli sembrerà “troppo moderna”, ben oltre la modernità che il suo pensiero ha contribuito a fondare. Tuttavia penso che su Machiavelli pesi un pregiudizio: si dice che nel suo pensiero non vi fosse posto per la morale, ma il fatto è che per “morale” si intende “morale cristiana”, mentre si trascura il fatto che una morale regge la sua costruzione, ed è quella precristiana (se si vuole, pagana). “La nostra religione [il cristianesimo] ha glorificato più uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nell’umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra [se si vuole, il paganesimo] lo poneva nella grandezza d’animo e nella fortezza del corpo e in tutte le cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra [quella cristiana, da intendersi come “religione che ci ha reso tali qual siamo”] richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vedere, adunque, pare che abbia renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati, i quali sicuramente lo possono maneggiare vedendo come l’universalità degli uomini per andare in paradiso pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle”. Qualche dubbio su chi siano gli “uomini scelerati”? Un aiutino? Il termine si trova anche nei Ricordi di Guicciardini, col quale Machiavelli ebbe molto a conversare, e qui compare quando si parla della “caterva di scelerati preti”. Il cristianesimo e i suoi propagandisti – gli “scelerati preti” – come veri nemici della nascita di un’Italia unita.
Il mai dimostrato assunto che la grandezza degli italiani sia in relazione alla particolare coincidenza di Stato e Chiesa sulle vestigia dell’antica Roma è interamente ribaltato: “Poiché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime ragioni le quali secondo me non hanno ripugnanza [cioè non possono essere contestate]. La prima è che per gli esempi rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione […] Abbiamo adunque colla Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obbligo di essere diventati senza religione e cattivi”. La religione della Chiesa romana come corruttrice dell’antica morale e come impedimento ad ogni nascere di religione civile. “Ma di obbligo ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa […] Non essendo adunque stata la Chiesa potente da occupare la Italia né avendo permeso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo ma è stata sotto più principi e signori dai quali è nata tanta disunione e debolezza che la si è condotta a essere preda, non solamente dei barbari possenti ma di qualunque l’assalta. Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri”. E qui, volendo, si possono saltare a pie’ pari tre secoli e mezzo, dal 1519 arrivare al 1861 o al 1870, e trattare dell’“obbligo” che infine si risolse con quel “metro cubo di letame” (come affettuosamente lo chiamava Garibaldi) che dai tempi di Machiavelli, e da molto tempo prima, sedeva sul Soglio Pontificio a tenere la “provincia divisa”.
sottoscrivo... meraviglioso
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