Il Motu proprio per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario del 30 dicembre è stato accolto per lo più con grande favore: si è parlato di “serietà e impegno” (La Stampa), di “trasparenza” (Corriere della Sera), di “Mani pulite in Vaticano” (il Giornale), e c’è chi ha scritto che ora “il Vaticano non è più un paradiso fiscale” (Il Sole-24 Ore), che “il Papa ha chiuso i cancelli del paradiso fiscale” (Libero) e che da oggi in poi “basta misteri” (Il Secolo XIX), “il Papa impone norme antiriciclaggio” (Il Tempo). È davvero così? Basta leggere il documento per capire che in pratica non cambia niente e che è davvero esagerato parlare di “una rivoluzione” (Ansa). Tutto sta nel cogliere la differenza troppo spesso trascurata tra Santa Sede e Stato della Città del Vaticano. In pratica, col Motu proprio, la Santa Sede si riserva il controllo delle operazioni finanziarie e monetarie dello Stato della Città del Vaticano, e si impegna a far propri i principi e gli strumenti giuridici dei quali la comunità internazionale si è già dotata da tempo. Sì, molto bene, ma in ultima analisi quale autorità sorveglierà sui sorveglianti? Quis custodiet ipsos custodes? Il Papa. E non potrebbe essere diversamente, perché è il Papa che assume nella sua persona il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. La legge CXXVII dello Stato della Città del Vaticano che il Papa firma il 30 dicembre, e alla quale fa richiamo nel Motu proprio, è una sua emanazione, come l’Autorità di Informazione Finanziaria contestualmente costituita lo è sul piano esecutivo, come gli organi deputati a esercitare una eventuale azione penale lo sono su quello giudiziario: il Papa si dà delle regole, si fornisce dello strumento per rispettarle e si riserva di darsi sanzione nel caso vengano violate. E gli uomini di buona volontà dovrebbero crederci, anche se è una evidente presa per il culo.
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