lunedì 25 febbraio 2019

«Toh, un giapponese!»

Qualcosa del concetto di razza, che gli studi sul genoma umano hanno ampiamente dimostrato privo di ogni fondamento, resta in quello di etnia, chiamato a sostituirlo. Se la razza, infatti, è il «raggruppamento di individui che presentano un insieme di caratteri fisici ereditari comuni» (Treccani), letnia lo è «sulla base di criteri razziali, linguistici e culturali» (ibidem), col persistere, dunque, di ciò che rimanda alla razza, che d’altronde, com’è il primo dei «criteri» sui quali baserebbe l’etnia, è anche il primo dei termini che il Rocci suggerisce per έθνος (seguono moltitudine, torma, gente, popolo, nazione, tribù e stirpe).
Vero è che, proprio per poter sostituire quello di razza, il concetto di etnia ha subìto negli ultimi decenni una significativa ridefinizione, diventando il quid che aggrega individui per la condivisione di un territorio, di una storia, di una cultura, di una lingua, di una religione, e tuttavia è significativo che non si sia riusciti a trovare un termine che includa questi fattori di aggregazione escludendo quello di razza, che in etnia, come si è visto, persiste.
Parrebbe, insomma, che il pregiudizio razziale, sul quale poi il razzismo costruisce i suoi deliri, sia destinato a sopravvivere. Così, mentre la scienza gli nega ogni ragion dessere, la morale lo stigmatizza come odioso, la legge gli vieta ogni forma di espressione, in etnia continua ad aver modo di insinuare che il colore della pelle, il taglio degli occhi o la foggia del naso siano i più attendibili referenti della cultura, della lingua, della religione cui sono abitualmente compresenti.
Abitualmente, sì, ma sempre meno, perché sempre più spesso accade che ci si possa imbattere in chi abbia un taglio degli occhi come a Tokyo è di comune osservazione e dover constatare che il tizio è nato a New York, è americano da tre generazioni, non conosce una sola parola del lemmario giapponese, e non è shintoista, non è buddhista, e a un sashimi preferisce un McChicken.
Di etnia nipponica, il tizio? Solo a voler considerare preminente, sul piano etnico, quel suo tratto somatico, cioè a voler dar voce al pregiudizio razziale, che in nuce ha sempre un atteggiamento e un comportamento razzista, e che in parte – abbiamo visto quanto rilevante – residua nelluso di un termine come etnia. Altra cosa, ovviamente, vedere lo stesso tizio passeggiare in Fifth Avenue con un kimono addosso e una katana infilata nellobi che gli cinge i fianchi: potrò essere del tutto immune dal pregiudizio razziale, ma, se mi scapperà «toh, un giapponese!», il tizio avrà ragione di crucciarsi perché il taglio dei suoi occhi mi impedisce di vedere in lui lamericano che orgogliosamente è, e perché questo impedimento è di natura razzista? Gli sia dato il diritto di crucciarsi, ma, di grazia, cosa intendono comunicare quel kimono e quella katana?
Esempio tirato un po per i capelli? Convengo, sarà meglio considerarne uno preso dal vero.


Chi intervista Mahmood è un tizio dal nome italianissimo, Antonio Distefano, e, come è evidente dal video qui allegato, fa uso di un ottimo italiano, comunque di gran lunga migliore di quello usato da molti razzisti italiani; come fa intendere, è nato in Italia, dunque, in quanto scrittore, direi sia scrittore italiano più di quanto lo fosse Italo Calvino, nato a Cuba; si lamenta della fatica che costa il far capire che è italiano a fronte del pregiudizio razziale che nellalta concentrazione di melanina nel suo derma non riesce a vedere in lui altro che un africano; e ha ragione, cazzarola, ma, di grazia, cosa intende comunicare quella silhouette di Africa che gli pende al collo?

14 commenti:

  1. L'ultima domanda vuole essere retorica? Perché non mi pare che la risposta sia scontata.

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    1. Lasci perdere l'intenzione, risponda alla domanda, può darsi che riesca a darmi una risposta che non richiami alcunché di etnico.

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    2. Intende richiamare un'identità, ma si tratta di un'identità etnica, quindi politica, o di un'identità personale? Io non conosco movimenti politici che abbiano quel simbolo, quindi ritengo che si tratti di una sua scelta personale (ma può anche darsi che sia il simbolo del nuovo movimento della Kyenge, che non conosco, o di gruppi simili: in quel caso la risposta sarebbe opposta). L'argomento mi ha toccato perché ho avuto recentemente un'intensa esperienza di identificazione in un mio da poco riscoperto sedicesimo alloctono (che mi ha giustamente attirato commenti sarcastici o preoccupati fra i miei stessi famigliari) nonostante gli altri quindici sedicesimi autoctoni, ma non so se il piacere irrazionale che mi ha provocato questa mia identificazione, del tutto personale, potrebbe sfociare in una militanza politica.

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  2. Io vedo in entrambi un rinnegamento delle proprie origini al limite dell'ossessivo e non riesco a capire il perchè. Vorrei che qualcuno me lo spiegasse. E come se un figlio di siciliani nato a Milano, con i genitori che intercalano mizzica ogni tre parole, debba per forza affermare la sua milanesità doc celando la sua provenienza. Ma perchè il figlio di immigrati che porta nell'epidermide chiari segno delle sue origini li deve rinnegare e non valorizzare, ad esempio, come quid culturale in più? Anche questo mi sembra un forma di razzismo. Verso sé stesso....

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    1. E quindi questa forse è la risposta alla domanda. Antonio Distefano è italiano, ma rivendica anche le sue origini africane.

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    2. E' nato in Italia, cosa intende dire dunque con "origini"? Non vorrà mica dirmi che ne fa una questione di "sangue"? Anche i razzisti, sa?

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    3. AF, è proprio questo il punto nessuno di loro risalta le loro origini, anzi tendono a sminuirle fino a cancellarle. Insomma possono essere nati in Italia ma i loro genitori sono africani. D'altra parte il Distefano porta un simbolo di contraddizione rispetto al suo pensiero.

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    4. Proprio questa contraddizione pesa sul cruccio del Distefano che lamenta: "Ma cosa dobbiamo fare per far capire che siamo italiani?". La mia risposta è: evitare di indurre in fraintendimento chi non aspetta altro. Ho lasciato la risposta nell'implicito, anche in prima stesura contavo di mirare in modo esplicito al bersaglio grosso, e cioè al razzismo di ritorno del Distefano. Il post cominciava così:
      "Ho una faccia che non dice niente dell’etnia cui appartengo, che neanche saprei dire quale sia. Sono bianco, ma di carnagione scura, e scuri gli occhi, capelli che un tempo erano d’un nero corvino, insomma, per farla breve, potrei essere greco, maltese, spagnolo, portoghese, ma questo significherebbe ben poco, perché, al pari di chi è nato in Grecia o in Portogallo, io, che sono nato in Italia, ho senza dubbio nel mio genoma pezzi di dna che vengono da ogni dove, da Cnosso e da Cartagine, da Vatluna e da Hattusa, forse pure da Gwent e da Iruñea. Sarà per questo che al collo non porto appesa una silhouette dell'Italia".

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  3. Significa che è più cool essere neri con la sagoma dellˋAfrica al collo che essere neri e fare il parlamentare leghista. Boh, anche io ci vedo una gigantesca contraddizione: vorrei usare il termine paraculismo alla Veltroni (sono italiano ma anche africano...), ma mi sembra volgare.
    Saluti
    Massimo

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  4. " cosa intende comunicare quella silhouette di Africa che gli pende al collo?
    "

    è una raffinata citazione (né ci si potrebbe aspettare di meno, da uno scrittore paragonato nientepopo che a calvino) di peppino prisco, il quale a chi gli rinfacciava essere l'inter una costola del milan rispondeva "noi non abbiamo mai rinnegato le nostre umili origini".

    (ma distefano di etnia giuseppe o di etnia alfredo?)

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    1. ovviamente etnia "saetta bionda".

      riguardo all'argomento principale, essendo anche io un "metà e metà" sono abbastanza sicuro che Di Stefano sia considerato Italiano quando è in Africa (se mai ci va a trovare i parenti) e Africano quando è in Italia.
      Immagino anche che lui abbia scelto di essere italiano (a un dato momento ci si stufa di essere sempre stranieri) e che il ciondolo sia un omaggio alle origini "ripudiate".

      Antonio

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    2. Affascinante spaccato psicologico. Certo, se poi uno è distratto e, facendo 2 + 2 (colore della pelle + medaglione al collo), dice "toh, un africano", senza peraltro metterci nemmeno un velo di xenofobia e/o razzismo, ecco il Distefano a crucciarsi: "Porca troia, cosa devo fare per far capire a questo minus habens che sono italiano?". Cruccio sacrosanto, ovviamente, perché, a metterlo in dubbio, se xenofobo e/p razzista non lo eri, per il Distefano lo diventi.

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    3. Credo che la reazione "singolare" di Distefano sia dovuta in parte alla narrazione che va per la maggiore in questo periodo, che dipinge lo straniero come "inferiore" rispetto all'indigeno ed in parte alla sua giovane età.
      Sono moderatamente convinto che, tra 10 anni non la penserà più così.

      Antonio

      p.s.
      il mio è uno spunto per cercare di far capire come la penso io e di conseguenza di Distefano, non per difendere la reazione oggettivamente sbagliata che ha nei confronti di chi lo scambia per un africano.

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    4. ho visto solo adesso questo articolo che spiega abbastanza bene la questione

      https://thevision.com/attualita/spiegare-essere-italiani/

      a meno che, in realtà, il minus habens non sia proprio il Distefano la cosa che lo fa innervosire non è il "toh, un africano", ma è il “Okay, ma da dove vieni davvero?" quando alla prima domanda si è già risposto che si è italiani.


      Antonio

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