«... et vidi caelum novum et terram novam,
primum enim caelum et prima terra abiit...»
Ap 21, 1
Le stime variano sensibilmente – c’è chi dice che accadrà tra 7,5 miliardi di anni e chi dice che accadrà molto prima, tra 5 miliardi di anni – ma la cosa pare fuori discussione: da nana gialla il Sole si trasformerà in gigante rossa, espandendosi fino a inglobare la Terra, polverizzandola. In ogni caso, quando ciò accadrà, la Terra avrà già smesso di essere abitabile da qualsivoglia forma di vita animale o vegetale da almeno 2 o 3 miliardi di anni, e, in quanto all’uomo, pare che le condizioni diverranno proibitive assai prima. Si stima, infatti, che di qui a 600 milioni d’anni la vita umana sarà materialmente impossibile sulla Terra, ma c’è chi sostiene che già tra 130.000 anni all’uomo verrà meno ciò che fin qui gli è stato indispensabile per abitarla, e questo al netto di inquinamento, pandemie, guerre nucleari o impatto di meteoriti: ben prima di essere inghiottita dal Sole, alla Terra verrà meno la biosfera, e con essa ogni materiale possibilità di vita umana, se non di vita in senso lato, giacché alcuni batteri potrebbero resistere.
È assodato, dunque, che una fine del mondo ci sarà, sia che con questa locuzione si voglia intendere la scomparsa del pianeta, sia che l’irriducibile antropocentrismo che ci portiamo dentro da sempre ci porti a considerarlo finito con la scomparsa del genere umano. E tuttavia, dacché mondo è mondo, il genere umano ne ha sempre immaginato la fine assai in anticipo rispetto a queste tutto sommato lontanissime scadenze, e questo è accaduto anche quando era ben lungi da venire un’idea di responsabilità umana in ordine alle condizioni di abitabilità del pianeta o a quelle relative ad una sostenibile convivenza: ben prima che l’uomo acquisisse coscienza del fatto che la fine del mondo potesse dipendere anche da lui, la catastrofe finale, definitiva, irreversibile e irreparabile, è sempre stata all’orizzonte come evento relativamente prossimo, e dunque incombente. Non sarà il caso, qui, di entrare in una dettagliata disamina delle date di volta in volta poste a scadenza del mondo, sta di fatto che, rispetto al momento in cui era previsto, l’evento catastrofico finale non è mai stato posto più in là dei 2-3.000 anni. C’è poi da considerare che più in là era prevista la fine del mondo e meno la previsione era formulata in modo inequivoco, fino al punto da non poter neppure essere certi che di una previsione si trattasse, e proprio di una previsione di fine del mondo. Al contrario, più la scadenza era vicina e più l’evento catastrofico finale aveva tratti definiti, talvolta addirittura assai precisi, comunque avvolti nel mistero, certo, ma in ogni caso tali da rendere configurabile, di massima, lo scenario. Qui non mi intratterrò sulle variabili che di volta in volta hanno caratterizzato lo scenario catastrofico finale previsto, limitandomi a considerare una delle sue costanti: la fine del mondo ci è di regola rappresentata come una rivelazione, e cioè come una αποκάλυψις, che letteralmente è discoprimento, con ciò dando alla rivelazione il senso di un’azione, che ovviamente ha un attore.
La previsione della catastrofe finale da parte di questo attore della rivelazione è letteralmente una pre-visione: egli vede la catastrofe finale prima che essa accada, e ne dà annuncio predittivo, anche qui nel senso letterale del termine: la sua pre-dizione non è effetto di una congettura, di un’ipotesi, ma della stessa pre-visione dell’evento. La sua azione, dunque, è letteralmente una profezia, una προ-φητεία, un parlare che precorre il tempo. In tal senso, la figura è perfettamente antitetica a quella di chi annuncia l’avvento del Millennio, del Paradiso in terra, di quell’altra fine della storia che non coincide con la fine del mondo, ma con l’eternamento del suo compiuto fine dialettico (luogo in cui la fine e il fine trovano la lisi di ogni conflitto), sicché anche la profezia della catastrofe finale è un’utopia: utopia negativa, certo, ma con aderente analogia di modello, giacché in entrambi i casi la cosa è da venire, e c’è chi l’annuncia, la pre-vede, la pre-dice; in entrambi i casi, essa è fatale, nel senso che è insieme inevitabile e ultimamente risolutiva; in entrambi i casi, essa ha effetti su tutti, senza eccezioni, e sono effetti radicali, definitivi, irreversibili; in entrambi i casi, essa è sola risposta possibile alla crisi che non vede via d’uscita soddisfacente in quelle che offre la storia. Come quella positiva dell’età dell’oro, anche l’utopia negativa della fine del mondo è la negazione della storia come luogo in cui i problemi trovano soluzione: non riuscendo a trovarla, la si cerca fuori, nel non-luogo per eccellenza.
[segue]
ma su draghi niente?
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=-8avea0xqjQ
EliminaLa storia come "luogo in cui i problemi trovano soluzione"? Puoi chiarire?
RispondiEliminaIl problema dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo ha mai trovato storicamente una soluzione?
Certo, anche se può non essere una soluzione accettabile.
EliminaMaestro, una soluzione non accettabile non é una soluzione.
EliminaCerto, è il caso in cui la soluzione pone un problema.
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