La
differenza tra un grande artista ed uno dei garzoni della sua bottega
che mai riuscirà a toccare i vertici espressivi del maestro,
rimanendo in eterno un «anonimo
della scuola di», non sta tanto
in un difetto della tecnica, che anzi può essere facilmente appresa,
laddove vi sia un minimo di applicazione, ma nella incapacità di
darle efficacia infondendo alla materia una qualità che la
trascenda, conferendole il potere di dare vita propria a ciò che
rappresenta.
Per semplificare potremmo dire che questa differenza fa
la distanza tra creazione e ricreazione, tra scoperta e invenzione,
tra respiro e insufflo, il che spiega come un apprendista possa
essere arrivato pure a riempire tre quarti di una tela, e con resa
ineccepibile, ma perché il quadro sia un capolavoro occorre che al
resto abbia pensato chi possedeva la superiore virtù di riuscire ad
animarlo.
Questo, tuttavia, neanche basta a poter dire che il garzone
sia mera proiezione dell’artista,
com’è dato constatare dalla
possibilità di riconoscere, almeno ad un’analisi
supportata da strumenti congrui allo scopo, due mani differenti in
quel quadro pur nella perfetta omogeneità del tutto.
È questo, in
definitiva, che consente, ovviamente a chi abbia tutta l’esperienza
necessaria per non cadere nell’infortunio
dell’errata attribuzione, di
poter riconoscere in un’opera di
un grande artista il contributo di un oscuro e pur valente
collaboratore.
Se
la premessa non vi ha sfiancato, passiamo a considerare Claudio Cerasa alla direzione de Il Foglio. Non
malaccio negli sfondi, nei panneggi e nelle anatomie,
ma quando mette mano alla filosofia politica – chiamiamola così –
il quadro diventa irrimediabilmente crosta.
Giuliano Ferrara si prostrava
in estasi davanti al Potere, non ha importanza in quale forma gli
apparisse, né da quale istinto procedesse, riuscendo a prodursi in
salmi di feroce cinismo che offriva a questo o quel fetente come
pergamene attestanti l’incontestabilità
di un titolo, ed erano pezzulli degni del più zelante dei sacerdoti
a guardia del Tempio, editoriali
di una brutalità che ardeva come arde il fuoco sacro che vorace
esige il tributo di una vittima, e tutto era in
ossequio alla
magnificenza dell’arbitrio solennemente legittimato in privilegio,
e con brillanti concessioni ad un immaginifico che pescava nei
registri alti e in quelli bassissimi... Insomma, leccava il culo al
potente di turno, ma ci metteva l’arte.
Cerasa, no. Quand’anche
sta sull’uscio di bottega in posa da titolare, Cerasa è destinato
ad essere garzone a vita. Lecca pure lui, ma non ci mette l’estasi:
si vede che per lui il Potere è solo forza meccanica, non energia
dinamica. Maramaldeggia pure lui i deboli, quello è naturale, fa parte dell’insegnamento e del lascito, ma
invece della lectio sulla necessità che il pesce grande mangi il
pesce piccolo, cui il vocione di Ferrara dava un bel cupo rotto solo
dalla folgore di un «così va il mondo, bellezza», Cerasa si limita
a spiegar loro che non
è tanto Renzi ad essere squalo quanto loro ad essere merluzzi: «La
democrazia viene sospesa quando le opposizioni non funzionano e non
rappresentano un’opzione» (Il
Foglio,
29.4.2015). Anche di pregio, insomma, ma solo artigianato.
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