L’articolo
a firma di Giuseppe Remuzzi col
quale s’apre
l’ultimo
numero de la Lettura
ci offre un elenco delle più comuni balordaggini in favore di Un
patto tra scienza e fede,
dandoci modo di passarle in rassegna, a patto di non irritarci troppo
per il fatto che anche in tale occasione avanzino pretesa di
argomento.
«Fede
e libertà a rigor di logica dovrebbero andare insieme».
Scempiaggine che solo sull’ambiguità di un termine come «libertà»
può azzardarsi a invocare il «rigor di logica» per
millantare buonsenso. Si è liberi di aver fede, questo sì. Una
volta avuta questa libertà, tuttavia, è nella natura di ogni fede
l’insopprimibile esigenza di comprimere, in nome della propria,
l’altrui libertà. Abbiamo frainteso cosa intendeva dire Remuzzi?
Vediamo se dal modo in cui prosegue possiamo ricrederci. Scrive:
«Oggi, come per molti versi in passato, il rapporto tra fede e
libertà sembra venir meno. C’è chi viene ucciso a causa della sua
fede e tanti che in nome di Dio giustificano barbarie e atti
terroristici; come se dopo millenni di civilizzazione fossero ancora
gli istinti più primordiali a prevalere sulla ragione». Non è
sempre stato così? Quando la fede si è presa tutta la libertà che
voleva, non ha regolarmente cercato di imporre quanto più poteva
l’obbedienza ai suoi dettami? Quando trovava resistenza in un’altra
fede, la regola non è stata quella di combatterla, quasi sempre
senza disdegnare l’uso della violenza? La civilizzazione che ha
messo un freno a questo andazzo non è riuscita a farlo solo
fiaccando le pretese della fede fino a ridurne la rilevanza in ambito
sociale con la secolarizzazione? E la violenza della fede non è
tornata regolarmente a farsi viva proprio quando questo processo
subiva una battuta d’arresto?
«Come
uscirne?», chiede Remuzzi. Probabilmente sottraendo rilevanza
sociale alla fede, consentendole di aver spazio solo nella vita
privata degli individui. Per far questo, ovviamente, occorre che ogni
tentativo di dare alla fede una dimensione comunitaria sia
opportunamente sterilizzato con un progressivo indebolimento delle
prerogative tradizionalmente concesse alle organizzazioni
confessionali come soggetti di intermediazione tra fedeli e società.
Né semplice da farsi, né consigliabile che lo si faccia in modo
troppo rapido. L’occidente ha imboccato la via giusta con la
rinuncia al «cuius regio eius religio» e il ripudio
dell’istituto della «religione di Stato»,
che hanno accelerato il processo che ha condotto, almeno sul piano
dei principi, all’equivalenza
di ogni credo dinanzi alla legge. Negando alla fede il diritto di
interpretare il vero come promanazione di una rivelazione non
soggetta all’onere
della dimostrazione, si è inceppato il meccanismo che produceva
giurisprudenza in ossequio alla visione creaturale che la fede
assegnava all’uomo,
e questo era inevitabile accadesse con quanto la filosofia del
diritto andava necessariamente recependo dal progredire della ricerca
scientifica. In altri termini, è accaduto che la scienza ha
fatto implodere la costruzione dell’umano da sempre funzionale alla
riaffermazione della fede come irrinunciabile sostegno alla
conoscenza e all’azione.
Per
Remuzzi, invece? Cosa può assicurare all’umanità quel futuro che,
a suo dire, sarebbe degno di essere vissuto solo conciliando fede e
libertà? Con cosa si può salvare il cavolo di cui la capra ha
sempre dimostrato di essere particolarmente vorace? «Con la
scienza forse». Con la scienza? Sì – concede Remuzzi – «i
rapporti fra scienza e fede sono stati sempre difficili e oggi per
certi versi lo sono anche di più», ma perché disperare che la
scienza non possa andare a braccetto coi dogmi di cui ogni fede non
può fare a meno? Si potrebbe riprendere il tentativo di «conciliare
scienza e fede» portato avanti dall’Aquinate: «Se
filosofia naturale, che è poi scienza, e teologia sono in
disaccordo, scriveva, ci sono tre spiegazioni possibili: forse la
scienza non ha ancora tutte le evidenze che si potrebbero avere,
oppure la religione non ha saputo interpretare in modo abbastanza
accurato i testi sacri, ma potrebbe essere che né scienza né
religione abbiano saputo arrivare abbastanza vicino alla verità. Non
fa una piega e a pensarci bene è strano che partendo da presupposti
così solidi (che venivano poi dalla filosofia greca, quella di
Aristotele soprattutto, fatta di logica, matematica e fisica) scienza
e fede non abbiano trovato il modo di superare la “doppia verità”
e arrivare a una visione comune del mondo e del destino dell’uomo».
Chissà, può darsi che tutto si sia arenato dinanzi allo scoglio di
dimostrare scientificamente la resurrezione di Cristo, il suo essere
presente in carne e sangue in una cialda di frumento e, prim’ancora,
nella possibilità che fosse concepito senza che la madre avesse un
rapporto sessuale. Sarà che «forse la scienza non ha ancora
tutte le evidenze che si potrebbero avere» al
riguardo, certo. Probabilmente sarebbe opportuno che la scienza
sospendesse il giudizio, tanto più perché sarebbe scostumato
pretendere dalla fede di non aver «saputo interpretare in
modo abbastanza accurato i testi sacri».
«Potrebbe essere che né scienza né religione abbiano
saputo arrivare abbastanza vicino alla verità»?
Chissà, può darsi che un domani si scopra che per partenogenesi una
donna possa mettere alla luce anche un maschio o che la resurrezione
della carne sia di fatto possibile grazie a qualche magica polverina.
A una scienza ancella della fede non dovrebbe costare troppa fatica,
via.
Tutto
qui? Magari, d’altronde abbiamo detto che in questo articolo
Remuzzi è particolarmente prodigo di corbellerie. E allora
proseguiamo, perché, se fin qui ha bacchettato la scienza, ora viene
la tiratina d’orecchio alla fede. Tutto poteva filar liscio con la
scienza ancella della fede, poi la fede ha commesso uno sgarbo
imperdonabile «con la condanna di Galileo».
(Anche Remuzzi preferisce citarlo col nome di battesimo invece che
col cognome, che è Galilei. Chissà perché, poi, scrive della
condanna che la Chiesa comminò alle opere di Darwin rinunciando a
citarlo semplicemente come Charles. Minuzie, passiamo al sodo.) «Le
teorie e gli scritti di Galileo – scrive Remuzzi – non
contraddicono del tutto l’idea di una teologia naturale (e non era
nemmeno nelle sue intenzioni farlo), i fenomeni fisici si sarebbero
comunque potuti spiegare come “cammino della creazione, secondo il
disegno della infinita bontà, sapienza e potenza di Dio”. Insomma,
si apriva un nuovo spiraglio, scienza e fede avrebbero potuto trovare
un punto d’incontro più challenging come dicono gli
anglosassoni, ma non meno stimolante». Di fatto la Chiesa non
gradì lo stimolo. Possiamo rimproverarglielo? Sì, ma solo fino a un
certo punto, perché la scienza, si sa, è serva che non sa essere
arrendevole come sembra che auspichi Remuzzi, e cosa mi combina? Mi
scodella un Darwin che «con la sua teoria dell’evoluzione
rovina tutto». Un guaio, e sì che s’era detto che la Chiesa
avrebbe potuto ammettere di non aver «saputo interpretare in modo
abbastanza accurato i testi sacri».
Niente, tutto va a puttane: «Un creatore adesso non serve
più, da Darwin in poi si dovrà riconoscere che siamo frutto di un
processo evolutivo governato sostanzialmente dal caso» e, quel
che è peggio, «le evidenze a favore dell’evoluzione con il
passare del tempo diventarono schiaccianti, specie da quando siamo
stati capaci di decifrare il codice della vita». Un vero
peccato, via, anche perché «in fondo basterebbe trovare
un’interpretazione teologica della teoria dell’evoluzione; se
fosse convincente e si basasse su argomenti logici e inoppugnabili
potrebbe mettere d’accordo tutti». Già, chissà perché non
la si trova.
Un
guaio, un vero guaio: «Sarebbe un peccato se le discussioni mai
sopite attorno a Galileo e a Darwin facessero perdere di vista tutto
quello che in tutti questi anni la scienza ha avuto dalla Chiesa».
E qui, prima di proseguire, occorre stropicciarci gli occhi per
verificare se abbiamo letto bene. Sì, abbiamo letto bene, la scienza
deve molto alla Chiesa: «Il supporto economico tanto per
cominciare, che è servito alla scienza per crescere e affermarsi.
Chi pagava nel Medioevo, un periodo fertile di scoperte scientifiche,
perché preti e monaci potessero accedere a una formazione
universitaria?». C’è da ritenere che qui Remuzzi, per
alleggerire il pezzo, abbia voluto inserire una spiritosaggine.
Onestamente, tuttavia, si tratta di roba che non fa ridere affatto.
La Chiesa ha detenuto strettamente il monopolio dello studio e
dell’educazione come strumento di egemonia culturale per secoli e
secoli, al punto che chiunque volesse accostarsi al sapere era
obbligato a incardinarsi nel corpo clericale: davvero vogliamo
infinocchiare i gonzi spacciando loro l’immagine di una Chiesa che
favorisce gli studi scientifici da un lato, come le arti dall’altro,
per mero spirito liberale? Remuzzi sa che meno di un secolo e mezzo
fa un papa scriveva a un re implorandolo di non favorire l’istruzione
di massa, avvertita come una grave minaccia alla fede? No, c’è da
supporre non lo sappia. «La genetica moderna, guarda caso,
nasce nel giardino di un convento», scrive. E dove poteva
nascere, visto che a consentire al clero di essere sollevato dalle
incombenze del restante genere umano erano i poveracci costretti a
sudare notte e giorno per poter pagare la decima? «Chi se non i
gesuiti diffuse la scienza in tutta Europa?». Certo, furono
loro: giacché «todo modo es bueno para hallar y buscar la
voluntad divina», c’era chi doveva presidiare un campo nel
quale cominciavano a metter mano pure i laici.
La
tentazione di abbandonare la Lettura diventa a questo punto
irresistibile, ma un poco di curiosità ancora ci trattiene. Di
cos’altro potrà essere capace ancora, Remuzzi? Qui occorre aver
pazienza e lasciargli scorrere di molto la penna: «Gli scienziati
sono convinti che gli embrioni, quelli che se no si butterebbero via,
possano, anzi debbano essere utilizzati per la ricerca con
l’obiettivo che questo un giorno possa servire a curare tante
malattie dell’uomo. Gli uomini di Chiesa sono decisamente contro;
il loro argomento e che un embrione, per quanto fatto di poche
cellule, sia già una creatura di Dio e l’uomo non ha nessun
diritto di sopprimere una vita. Ma quando comincia davvero la vita?
Su questo non c’è accordo nemmeno fra chi crede. Buddhisti,
induisti e cattolici ritengono che la vita abbia inizio al momento
del concepimento. Per i protestanti la questione è piu complessa e
non c’è un’interpretazione univoca (forse al momento del
concepimento o dell’impianto del prodotto del concepimento
nell’utero e anche dopo). Per gli ebrei l’inizio della vita e un
processo continuo, inizia 40 giorni dopo il concepimento e si
completa nelle settimane successive. Per l’islam lo spirito entra
nel feto dal quarto mese di gravidanza: e in quel momento che
comincia la vita. “Dispute teologiche”? Mica tanto, queste teorie
hanno una ricaduta sulla pianificazione delle nascite, un tema
cruciale per il futuro del nostro pianeta, e sulla pratica della
medicina. Al di la di utilizzare o meno le cellule embrionali c’è
la questione della contraccezione. I buddhisti si oppongono a metodi
contraccettivi che ostacolino l’impianto del prodotto del
concepimento. I cattolici sono per i metodi naturali che prevedono
l’astensione dai rapporti nei periodi fertili. I protestanti
accettano farmaci contraccettivi e preservativi ma non la spirale e
la contraccezione d’emergenza. La religione ebraica accetta sia
contraccettivi orali che spirale ma proibisce il preservativo. I
musulmani sono divisi su questo come su molti altri punti. Come si
vede e tutto relativo e questi sono solo due esempi». Appunto,
ma questo non lascia intuire che l’invocato patto tra scienza e fede
sia destinato ad essere impossibile?
Macché,
a fronte di ogni evidenza, che peraltro non fa fatica ad ammettere,
Remuzzi non demorde: «L’intervento medico che ha contribuito
più di ogni altro a proteggere la vita dell’uomo sono i vaccini.
Ma cristiani ed ebrei hanno eretto barriere contro le vaccinazioni:
“Chiunque procede alla vaccinazione cessa di essere figlio di Dio:
il vaiolo e un castigo voluto da Dio, la vaccinazione e una sfida
contro il Cielo”, diceva papa Leone XII alla fine del Settecento.
La forza dell’evidenza scientifica poi ha prevalso e oggi non c’è
più nessuno che metta in dubbio il valore delle vaccinazioni,
nemmeno tra gli uomini di fede». Bene, ma è evidente, allora,
che la questione si è appianata non in virtù di un patto, ma di uno
scontro, e di uno scontro dal quale la Chiesa è uscita sconfitta. Su
quali basi si sarebbe potuto stringere un patto tra chi era a favore
dei vaccini e chi era contro? Così col trapianto e la donazione
d’organi. Remuzzi riconosce che «sul trapianto, un altro dei
miracoli della medicina, c’erano grandi perplessità all’inizio
fra gli uomini di Chiesa e quello che ha suscitato maggiore emotività
è stato il trapianto di cuore. “Noi riteniamo opportuno richiamare
l’attenzione dei cattolici più riflessivi di non applaudire
all’esperimento del chirurgo sudafricano perché ardito e nuovo,
prima di aver valutato anche i fondamentali problemi umani e morali
che esso implica”, scriveva Vittorio Marcozzi su Civilta Cattolica
qualche settimana dopo il primo trapianto di cuore. E la Chiesa
rimane fortemente critica nei confronti della donazione degli organi
anche molto recentemente. “Quelli che la malattia o un incidente
faranno cadere in coma ‘irreversibile’,
saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianto
d’organo”. Sono parole del cardinale Joseph Ratzinger del 1991
riprese da L’Osservatore Romano. Poi le cose cambiano. Giovanni
Paolo II definisce la donazione degli organi per il trapianto come
“un autentico atto d’amore”; intanto però di trapianti ne
erano già stati fatti più di un milione». Appunto, era
impossibile continuare a osteggiarli, dunque era indispensabile
cedere sul punto. Non si fosse proseguito nella pratica dei
trapianti, il che di fatto escludeva ogni patto tra scienza e fede,
quale risultato si sarebbe ottenuto? Ma come tira le somme, Remuzzi?
Scrivendo che, «per questo e per tanto d’altro, noi medici non
possiamo disinteressarci della fede». E certo che non possono
disinteressarsene, ma per combatterne l’azione che immancabilmente
si traduce in un freno ad ogni innovazione. Freno che quasi sempre è
posto dall’osservanza a principi che hanno come fine primario
quello di trattenere l’uomo in quella dimensione creaturale nella
quale gli indispensabile la guida di un’autorità religiosa che di
quella dimensione si dichiara interprete e custode, a fronte delle
minacce che osano metterla in discussione. Prima fra tutte? La
scienza, appunto.
Niente,
Remuzzi si dice convinto sia «venuto il momento che scienziati,
leader delle organizzazioni religiose e chi governa la sanità escano
dai rispettivi ambiti e lavorino insieme per migliorare l’accesso
alle cure di milioni di persone e poi per ridurre la povertà, che
porta a malattie e morte». Al «rigor di logica»
invocato nell’incipit, questo potrebbe aver luogo solo se scienza e
politica accettassero i veti posti dalla fede alle pratiche che essa
dichiara moralmente inammissibili. Su quali basi è possibile,
allora, un patto che inevitabilmente impone limiti a ricerche e
interventi che, solo dopo essere stati condotti contro la volontà
degli uomini di fede, riescono a strappare il loro consenso, non di
rado a fatica e con perduranti resistenze e riserve? Remuzzi non lo
dice, ma insiste nel tentativo di far quadrare il cerchio: «Al di
la delle discussioni di fine vita, sulle quali possiamo anche non
essere d’accordo, sono ancora oggi donne e uomini di Chiesa che
forniscono cure intensive e assistenza spirituale a chi sta per
morire». Certo, ma proprio nel tentativo di continuare a
negargli il diritto di autodeterminazione che dovrebbe legittimamente
potersi sostanziare nella scelta eutanasica. Come per il resto, il
soccorso portato all’uomo sofferente soddisfa i suoi bisogni solo
se riconosciuti tali alla luce di ciò che detta la fede, e questo a
voler trascurare quanto frutta il no-profit in termini di sovvenzioni
pubbliche e di rientro sul piano proselitario. E allora da dove trae
le sue speranze, Remuzzi? «Con l’Enciclica Laudato si’
pubblicata da papa Francesco l’anno scorso – scrive – il
clima è cambiato e molti cominciano a pensare che ci siano le
condizioni per un dialogo più favorevole fra scienza (medicina
specialmente) e fede. Papa Francesco scrive: “La Chiesa non
pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi
alla politica, ma invita a un dibattito onesto e trasparente, perché
le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune”,
indicando che una discussione aperta su questioni scientifiche è ora
possibile». Certo, ma ancora una volta si cerca di insinuare che
il «bene comune» non sia il bene di ciascuno, così come
liberamente e responsabilmente affermabile da ciascuno, ma il bene
unico, quello valido per tutti, contro il quale il bene di ciascuno
può costituire offesa.
Cerchi il dialogo, se vuole, il buon Remuzzi,
può darsi gliene venga pure qualche utile – la Chiesa sa essere
generosa con chi si presta ai suoi giochi – ma, col pretendere con
ciò di aver sottoscritto a nome della scienza (tutta intera?) una
tregua con la Chiesa, ci consenta una grassa risata. Sarà pure un buon nefrologo, come si dice, ma della Chiesa non ha capito un cazzo.
Tutto molto ben detto, la scienza va a cercare le contraddizioni mentre la fede le rimuove per imporre la sua verità. Salvo che la scienza di per sé pare assumere a sua volta un ruolo immanentistico. E questo è il motivo per cui la religione può tirare la scienza per la giacca. Il punto non è la “verità” in astratto, ma la verità come prassi sociale. Lo scoglio tra scienza e fede non è semplicemente nella “verità”, nella dimostrazione scientifica, poiché questa non è un attributo che si applichi in tutte le circostanze e in tutti i tempi a un determinato stato di cose sociale. Aristotele non era meno razionale di noi, e però noi viviamo in un contesto storico e sociale che ci consente di salire in groppa a quel gigante e di vedere il rapporto tra scienza e fede in modo diverso, così come in modo diverso da Aristotele vediamo la schiavitù, ossia il rapporto sociale che la sottende.
RispondiEliminaPiù dappresso si tratta della difficoltà, dell’impossibilità, di tradurre in realtà un’idea assoluta (dove il suo prodotto è la divinità), e dove la realtà ha assunto nella nostra coscienza una dimensione diversa, inconciliabile (grazie alla scienza, certo, ma non come qualcosa di separato dal resto). È anzitutto sul terreno sociale che avviene il conflitto, e la scienza offre le armi appropriate per la lotta, stabilendo anzitutto che la natura esiste indipendentemente da ogni credenza religiosa e da ogni filosofia: siamo il prodotto della natura e oltre ad essa non esiste nulla, e gli esseri più elevati che abbiamo creato sono il riflesso fantastico del nostro proprio essere. Però, ed è bene sottolinearlo altrimenti si cade in una nuova forma di idealismo, si tratta del nostro proprio essere sociale.
Come altro si potrebbe spiegare l’esistenza di un Remuzzi come teorico del rapporto tra fede e religione se non nell’ambito di determinati rapporti storico-sociali, ossia nel conflitto sociale che oppone le forze della conservazione su quelle dello sviluppo e del progresso? Come già in passato con Galilei, e però in una dimensione sociale totalmente nuova, dove Bellarmino si muta in Remuzzi e non può più adombrare le sue minacce ma deve contentarsi d’irretire il proprio lettore nell’ennesimo e sempre più vano tentativo di compromesso.
Mentre è chiaro che alla fede farebbe comodo un patto con la scienza, per tentare pateticamente di ritrovare un qualche ruolo nel dibattito culturale, da cui è di fatto esclusa da almeno 100 anni (Cantor alla fine dell'ottocento ancora si chiedeva se le sue teorie matematiche potessero recare offesa alla Chiesa, oggi se qualcuno menzionasse Dio in una pubblicazione scientifica nella megliore delle ipotesi verrebbe trattato con condiscendenza), non è per nulla chiaro quale vantaggio otterrebbe la scienza da un patto con la fede.
RispondiEliminaRemuzzi cita il caso, a sproposito, dato che non è l'unico elemento guida dell'evoluzione, con una punta di disprezzo. Forse farebbe bene a studiare un po' meglio la scienza, per scoprire che i migliori metodi disponibili per trovare soluzioni a problemi complessi fanno tutti ricorso al caso. Il caso, quindi, è un elemento emergente in sistemi auto-organizzanti che viene sfruttato per ottimizzare le possibilità di successo delle soluzioni trovate. Non ci scatarrerei sopra, non tanto quanto scatarrerei sull'idea di Dio.
Le storielle sul fatto che la Chiesa sia stata promotrice della scienza è da un po' che circolano e rientrano nella stessa strategia di cercare di inglobare quello che non si è riusciti a sconfiggere. Una volta visitai una mostra su Galilei tenuta a Palazzo Blu a Pisa, alla fine della mostra veniva esposto un poster intitolato "Galileo uomo di Chiesa", che mi lasciò abbastanza perplesso, almeno fino quando scoprì che tra i sostenitori della mostra c'era anche la curia pisana.
un caso recente su cosa succede a citare dio in una pubblicazione scientifica: https://www.theguardian.com/science/2016/mar/07/hand-of-god-scientific-plos-one-anatomy-paper-citing-a-creator-retracted-after-furore
EliminaPer me il problema del confronto fede ragione si è posto in maniera strutturale, La mia grande fede nella razionalità è stata messa in discussione nel 2007 quando mi accorgo che la causa di tante sofferenze psicologiche che vivevo era dovuta ad un'infestazione malefica. Da allora mi confronto con questo problema soprattutto con la preghiera. Il confronto in questione ha inoltre portato allo sviluppo di una serie di ragionamenti che in gran parte ho sintetizzato in un paper pubblicato su
RispondiEliminahttps://www.academia.edu/20428344/Il_disegno_della_civilt%C3%A0
per chi fosse interessato
Saltarelli Cristiano Anthony
Affido il suo commento alla cura dei lettori.
RispondiEliminaA me pare che la questione sia posta in modo per lo meno ambiguo, fin dal titolo: a essere in questione non è tanto il rapporto tra scienza e fede, quanto quello tra scienza e religione.
RispondiEliminaLo dico perché la religione è formazione sociale, sistema di riti, apparato simbolico e struttura gerarchica, la cui esistenza è testimoniata fin nelle più antiche epoche in cui si sia spinta la ricerca paleoantropologica: un dispositivo di organizzazione della divisione del lavoro, di consolidamento dei rapporti, di legittimazione del potere e dei suoi dettami, di cui evidentemente le società umane hanno avuto bisogno per lungo tempo. Per fare un esempio classico, la gestione di tutto il complesso di lavori necessari al funzionamento della rete dei canali che addomesticavano le piene del Nilo aveva bisogno, per essere realizzata in modo efficace, di un apparato simbolico e religioso capace di strutturare gli ordini e i comandi da dare agli operai, e che magari garantisse le opportune rendite di posizione a chi deteneva il sapere tecnico necessario.
Tutto il contributo dato dalla religione alla scienza si sostanzia in pratiche di questo tipo, di un apparato di potere rigidamente elitario che raffinava progressivamente i suoi strumenti di azione e di dominio. Mi pare, del resto, che Luigi abbia già messo in chiaro le cose su questo punto.
Quello che invece si intende con il termine fede è tutt'altra cosa: si tratta di faccenda interna alla coscienza del credente, vale a dire di un'invenzione moderna, che prende le mosse dalla fides latina (che in fondo significava semplicemente fiducia e che definiva l'atteggiamento delle parti in un contratto) per arrivare da tutt'altra parte. La fede si afferma, in fondo, a partire dalla sconfitta della religione, vale a dire del superamento di una comprensione del mondo e di un'articolazione sociale basate su un apparato simbolico e rituale in favore dell'affermazione di un modello scientifico e razionale, basato sul calcolo e la verificabilità oggettiva. Alla fede apparterrebbe allora l'ambito di ciò che non è calcolabile e verificabile, di ciò che, in altre parole, non è scientifico: Dio non è un termine scientifico (per definizione) e quindi, se proprio ci se ne vuole occupare, lo si faccia un po' come capita, secondo bisogni e forme che non hanno nulla del discorso scientifico.
Il punto è che la fede non può, se non surrettiziamente, farsi religione, perché allora entra necessariamente in contrasto con la scienza e, se non riesce a truccare la partita, ne esce invariabilmente bastonata.
Scusi Malvino ma dall'alto dei miei 5 mesi da Erasmus in Spagna penso che la frase di Loyola sia:
RispondiElimina"todo modo es bueno PARA hallar y buscar la voluntad divina"
MatteoZ
Di porpora accese le gote, mi precipito a correggere la bestialità.
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