Nel
gennaio del ’47, quand’è a capo di un governo in cui i comunisti
hanno quattro ministeri, e i socialisti tre, Alcide De Gasperi vola
in America, ufficialmente per partecipare ad un convegno. Nessuno
gliene ha dato mandato, ma lì firma un memorandum d’intesa: un bel
paccotto di milioni di dollari in cambio dell’estromissione dei
comunisti e dei socialisti dal governo. Torna in Italia ed esegue.
Inizia
a questo modo quella che per settant’anni sarà celebrata di qua e
di là dall’Atlantico come «la grande amicizia tra Roma e
Washington». Qualche superficialone parlerà di vassallaggio, ma è
perché non ha senso delle proporzioni. Non è normale che, tra due
amici, quello più grosso abbia un naturale istinto di protezione
verso quello più piccino? È in questo modo che va letta
l’amichevole minaccia di morte con la quale Kissinger cerca di
dissuadere Moro dal far entrare il Pci al governo: naturale istinto
di protezione.
Beh,
ora quest’amicizia corre il serio rischio di incrinarsi. Per colpa
nostra, ovviamente. È che abbiamo firmato un memorandum d’intesa
con Pechino, e si sa che Pechino, a differenza di Washington, non dà
mai niente per niente, sicché è possibile (ma che dico? è assai
probabile, quasi certo, sicuro) che nel paccotto di milioni di yuan
che Xi Jinping porta a Roma sia celata un’insidia (no, più che
un’insidia: un pericolo, e non da poco): tra due o tre anni
potremmo diventare una colonia cinese.
Il
Nando Mericoni che ci portiamo dentro sarebbe costretto a una
faticosissima riconversione, mi auguro comprenderete il dramma. In
più, potremmo ritrovarci il dizionario zeppo di lemmi asiatici. Più
di tutto, perderemmo la sovranità nazionale che fino a ieri abbiamo
potuto vantare con orgoglio, liberi da ogni condizionamento, a riparo
da ogni ingerenza.
Sì,
è vero, potrà sembrare che in questi ultimi settant’anni la Cia
abbia messo il naso dove non avrebbero dovuto metterlo, che la Chiesa
abbia cercato di dettar leggi al nostro Parlamento, che l’Unione
europea ci abbia scritto le finanziarie, ma in fondo non facevano
altro, ciascuna a suo modo, che offrirci quello che noi non sapevano
di volere, al punto che spesso le abbiamo costrette pure a dover
insistere, per il nostro bene. E qualcuno, ingrato, pure a
recriminare.
Cose da ricordare. Meno male che ci sei.
RispondiEliminaSuvvia Castaldi, siamo il popolo di o Franza o Spagna purché se magna per poi stare sempre a discutere se sia meglio la Franza o la Spagna.
RispondiElimina6iorgio