Per
chi è credente, i diritti umani sono espressione delle prerogative
che Dio ha conferito alla creatura che ha voluto a sua immagine e
somiglianza. Tutto sommato non cambia molto per chi ritiene che i
diritti umani nascano con l’uomo,
espressione di ciò che la Natura gli conferisce in quanto uomo. In
entrambi i casi è chiaro perché si tenga tanto alla distinzione tra
diritti umani e diritti civili: Deus
sive Natura,
Natura sive Deus,
i primi sarebbero connaturati all’uomo,
mentre i secondi sarebbero acquisiti.
Viene così ad essere
implicitamente ammesso, quando non lo è in modo esplicito, che sia
possibile una dimensione umana antecedente a storia, società e
cultura, che di un homo fanno
un civis.
Intuibile, dunque, perché, per chi rigetta la tesi che l’uomo
sia possibile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale,
non ci sia alcuna differenza tra diritti umani e diritti civili:
tutti i diritti sono acquisiti, tutti i diritti sono possibili solo
come prodotti storici, come conquiste sociali e come costruzioni
culturali, e, se per quelli umani si ha qualche ragione nel
dichiararli inalienabili, è solo perché essi hanno trovato un più
solido radicamento, in forza della insostituibile funzione che sono
venuti ad assolvere come soluzioni a problemi non altrimenti
risolvibili nel contesto che li sollevava.
Si pensi, per esempio, al
più umano dei cosiddetti diritti umani, e cioè il diritto alla
vita: potrà risultare insopportabile l’idea
che, con ciò, perda il sacro che gli verrebbe dall’essere
un dono di Dio o l’ineffabile
che gli verrebbe dall’essere
scritto nel Dna della specie, ma anche il diritto alla vita è
impensabile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale entro
cui nasce, e si consolida, fino a diventare irrinunciabile, perché
corrispettivo del divieto di uccidere, indispensabile a qualsiasi
forma di convivenza. Tanto indispensabile, tanto irrinunciabile, da
diventare indiscutibile. Tanto indiscutibile da meritare una
mitopoietica che lo rendesse trascendente a storia, società e
cultura, che si sarebbero limitate a riconoscerlo, piuttosto che a costruirlo.
Non diversamente è accaduto con
gli altri diritti che definiamo umani, e il cui numero è venuto a
crescere col ritenere di poter riconoscere in molti di quelli civili
una natura trascendente del principio che li informa, in realtà
conferendogliela. Si pensi, per esempio, al diritto di migrare, di
cui non si ha traccia nel Bill of
rights del
1789, né nella Déclaration
des droits de l’homme et du citoyen
del 1793, e che
trova una sua prima formulazione solo con la Dichiarazione
universale dei diritti umani
del 1948 («Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio,
e di ritornare nel proprio paese»,
art. 13): evidente prodotto di un contesto storico, sociale e
culturale, entro il quale la libertà di movimento prende ad assumere
un valore pari ad altre libertà, come quella di espressione, di
credo religioso, ecc., ma, una volta dichiarato diritto umano, chi
potrà mai mettere in dubbio che sia stato Dio a rendere l’uomo
libero di muoversi in lungo e in largo per il mondo o che questa
libertà nasca con lui come espressione di un’esigenza
insopprimibile, insita alla sua natura, che è poi la fattispecie
umana della Natura? Eppure si è sempre migrato. Del fenomeno si ha
ampia documentazione fin dalla preistoria, che poi altro non è che
storia cui manca una documentazione scritta, dunque più povera di
informazioni, comunque sufficienti a poter dar per certa, fin da
allora, l’esistenza
di pur embrionali forme di società e cultura.
Se il fenomeno ci
accompagna da sempre, perché c’è
voluto tanto a capire che si trattasse di un diritto umano? Perché
per un problema come quello del pericolo di morte per mano di un
proprio simile si è fatto tanto in fretta a trovare accordo su un
divieto di uccidere che quasi subito si è dato forza in diritto alla
vita, mentre per un problema come quello delle migrazioni si è
impiegato tutto questo tempo per concepire come diritto la libertà
di «lasciare
qualsiasi paese, incluso il proprio»?
La
risposta a questa domanda impone un sacrificio in tutto simile a
quello di rinunciare a immaginare un Deus
sive Natura
o una Natura
sive Deus
come scaturigini di diritti umani: la mera «libertà
di»
(ma per molti versi questo accade anche per «libertà
da»)
non diventa un «diritto»
fino a quando non riesce ad essere percepita come propria libertà da parte di chi ha il potere di decidere per tutti, investito dell’autorità
che gli è conferita dal consenso di chi lo elegge a garante dei
propri interessi. È in questo modo che si spiega perché quello di
migrare divenga un diritto solo nel 1948: dopo l’immane
massacro, il mondo ha bisogno di sterilizzare il concetto di nazione
e di desacralizzare il limes.
C’è
stato chi ha colto il problema che si pone col conferire la
«trascendenza»
dell’«umano»
all’«immanenza»
del «civile»
(per
quanto fin qui detto mi auguro che le virgolette diano il dovuto
senso ai termini), ma neanche vale la pena di dire chi sia, perché
non è andato più in là dell’indorare
il paradosso con l’espediente
retorico di un immaginifico «diritto
naturale storicamente acquisito»,
temerariamente proposto come nuova categoria giurisdizionale. Il
patetico tentativo, tuttavia, è degno di nota, perché emblematico
del fallimento cui si va incontro quando si chiama la morale che
informa ogni giusnaturalismo in soccorso di un principio che non
abbia la necessaria forza politica per imporsi o per conservare le
posizioni precedentemente conquistate, il che sul piano pratico
traduce quel che sul piano logico è la debolezza delle tautologie
che pretendono il crisma dell’autoevidenza
che non necessita di argomenti per persuadere, e che di regola,
quando la pretesa non è soddisfatta, evocano l’antitesi
tra legge e giustizia.
Sono questi fallimenti che lasciano il campo
libero agli pseudoargomenti che invece riescono a persuadere in forza
dell’appello
a suggestioni e a pregiudizi. Ed è questo che in buona sostanza è
accaduto con l’appello
alle ragioni umanitarie per cercare di persuadere l’opinione
pubblica a quell’«accogliamoli
tutti»
che al momento pare aver la peggio con l’opposto «porti
chiusi»,
se è vero, come è vero, che una vicenda come quella della SeaWatch,
pure chiusasi con un clamoroso scacco inflitto a Salvini, ha segnato
un sensibile incremento dei consensi in favore della Lega, che i
sondaggi danno ormai al 38%. In ultima analisi, infatti, è accaduto
che, almeno nella sua declinazione del dovere di soccorso a migranti
in pericolo di vita, il diritto di migrare ha vinto in virtù di
presidi giurisdizionali nazionali e sovranazionali, correttamente
recepiti dai dispositivi giudiziari che hanno infine consentito il
buon esito della vicenda; e tuttavia, seppur di poco, si è
ulteriormente indebolita l’autoevidenza di quel «restiamo
umani»
che chiama Dio e Natura a proclamare inviolabile il «diritto
naturale storicamente acquisito»
di poter lasciare il proprio paese, a maggior ragione, poi, se in
forza del bisogno di sfuggire a guerra o fame; Salvini ha perso,
insomma, e ha perso contro la legge e contro la giustizia, ma
continua a vincere, nel senso che continua ad accrescere il consenso
alla sua scellerata azione di governo, che in sostanza pretende di
sospendere gli effetti che il diritto naturale ha fin qui sortito su
quello positivo.
Giustamente gli si rinfaccia di tradire il Vangelo
che sbandiera, ma si fa il torto di non capire che anche nel punto
dove la morale cristiana non fa sconti e recita che «le
nazioni più ricche sono tenute ad accogliere lo straniero...»,
non può fare a meno di concedere che a quest’obbligo
esse sono tenute
«...
nella misura del possibile»
(Catechismo,
2241),
un «possibile»
di cui solo chi è chiamato al governo della cosa pubblica può
rispondere. Traslando dalla dottrina morale alla pastorale, «si
tratterà di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri
umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni
indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti
originari e per quelli sopraggiunti»
(Giovanni Paolo II, Messaggio
per la 97ª Giornata del Migrante e del Rifugiato):
«valutazione»
che giocoforza non potrà che essere politica, con quanto ne consegue
sul modello d’impiego
delle risorse pubbliche che ottiene il maggior consenso da parte
dell’elettorato.
Un elettorato che, da un lato, sembra sempre più incline a considerare assai
ridotta la «misura
del possibile» e, dall’altro, non pare cogliere alcuna contraddizione tra l’evangelico
«ama
il prossimo tuo» e il salviniano «prima
gli italiani», anche qui grazie a ciò la dottrina morale concede come scappatoia: è significativo infatti che Dio detti
l’obbligo
di onorare i propri genitori subito «dopo
di lui»
(Catechismo,
2197), imperativo che pretende estensione ai «doveri
dei cittadini verso la loro patria»
(Catechismo,
2199), riproducendo un gradiente di carità che nel proximus
distingue un propior. Né le cose sembrano andar molto meglio presso l’elettorato che si dichiara «di sinistra», qualunque cosa possa ormai dire: un sondaggio che alcuni giorni fa faceva capolino tra le chiacchiere di un talk show su La7 li dava per un 15% in favore della condotta tenuta da Salvini sul caso SeaWatch.
Ma questa, ovviamente, è solo la premessa a un discorso che voglia azzardarsi a far chiarezza su cosa esattamente voglia dire «restiamo umani», e a cosa possa ragionevolmente aspirare sul piano politico, il che mi pare sia possibile solo dopo aver fatto chiarezza sull’uomo. In tal senso non ritengo sia superfluo rammentare che chi ha coniato il motto che sembra essere la soluzione di ogni cosiddetta crisi umanitaria sia morto
per mano di chi, a stretto rigor di logica, gli doveva gratitudine. I suoi assassini appartenevano a una cellula terroristica «impazzita», così si
affrettarono a definirla gli assennati terroristi di Hamas, ma erano palestinesi non meno di tutti gli altri palestinesi
alla cui causa si era votato fin da una decina d’anni
prima. Cosa tradì la grande nobiltà d’animo
e il generoso entusiasmo che portarono Vittorio Arrigoni a spendersi
senza riserve in favore del popolo palestinese? Probabilmente il fatto
che ogni crisi umanitaria è sempre più complessa di quanto
appare a chi ritiene che il proprio impegno possa contribuire ad
attenuarne la gravità, sennò, di là dall’effettivo contributo
portato, almeno a dar risposta a quell’urgenza morale che impone un
qualsivoglia mettersi in gioco. Ogni crisi umanitaria, infatti,
non sta solo nei problemi che solleva, ma anche in quelli che l’hanno
generata, e risolvere gli uni senza risolvere gli altri serve
certamente a far fronte a un’emergenza – se non del tutto, almeno
in parte, che comunque non è poco – ma anche a perpetuarla, come
in fondo accade con l’elemosina, che è cosa bella, buona e giusta,
ma non risolve affatto il problema della povertà, anzi, per certi
versi lo rende insuperabile.
È assai opportuna l’ultimissima osservazione, perché è esemplificativa del cambiamento intervenuto nella sinistra italiana. Sto comparando quella attuale e quella, diciamo, togliattiana. Il cambiamento è in peggio. La posizione dei comunisti di allora sull’argomento era chiara e netta: l’elemosina non si fa, perché è funzionale alla perpetuazione della povertà. Era evidente la contrapposizione con la visione cattolica del problema, e i comunisti di allora non mancavano di additare al ludibrio delle classi popolari le dame di S.Vincenzo, simboli già allora ridicoli della soluzione ipocrita proposta dal capitalismo al problema degli emarginati.
RispondiEliminaL’avvenuta trasformazione del piddino medio in dama di S.Vincenzo è quindi altamente simbolica. Abitando in una delle poche enclaves cittadine rimaste al partito che fu di Togliatti, posso testimoniare che le uniche persone che fanno l’elemosina agli africani all’angolo della strada sono dame e damazze, di due categorie: la prima è composta di reduci del ‘68 con pettinatura a noce di cocco, gonne sotto il ginocchio e giubba color topo, invariabilmente munite di borsa a tracolla trasversale; la seconda è invece composta di signore botulinizzate con abbigliamento mediamente costoso e acconciature non autarchiche (nel senso che vanno dal parrucchiere).
Sarà prevenzione anticlericale, ma l’appiattimento sulle posizioni vaticane, mutuandone l’ipocrisia, mi sembra impudico, e mi fa rimpiangere la sinistra della prima repubblica.
Da chi ben conosce come persona avara di carinerie permetta una lode alla vividezza delle sue descrizioni pittoriche.
EliminaPermesso accordato.
EliminaMolto ben scritto. Ma in realtà non c'è alcuna contraddizione tra "ama il prossimo tuo" e "prima gli italiani". Perché "il prossimo nostro" SONO gli italiani. Il vangelo dice "ama il prossimo tuo", non "ama il lontano, a scapito di chi ti è prossimo"...
RispondiEliminaMassimo90
Mi consenta di attirare la sua attenzione a quel "gradiente di carità che nel proximus distingue un propior": cerca di dare un po' di garbo proprio al suo argomento, che poi è proprio quello di chi ritiene che il Vangelo non sfiguri affatto in mano a Salvini. Chissà, però, se questo modo di trattare il IV comandamento, che ho illustrato nel penultimo capoverso, è degno di essere rubricato come argomento in linea con la dottrina morale. Bisognerebbe chiedere a un cattolico di sinistra, chessò a un Tombolini, ma temo che la risposta non sarebbe positiva, se per essermi permesso, peraltro con ironia, di twittare qualche invito ad ascoltare "le ragioni del 'nemico'", mi sono beccato un inquisitoriale sospetto di "fascismo".
EliminaStrano che Malvino non stigmatizzi la crassa ignoranza che denuncia il supponente commento del signor Massimo90, degno in effetti e al massimo di un vangelo secondo Salvini. Viene quasi il dubbio che perfino il dotto Malvino sia del tutto ignaro di ciò di cui si parla. "OK Gesù, abbiamo capito, ama il prossimo tuo. Ma si può sapere chi cazzo sarebbe 'sto prossimo?" Per spiegarlo Gesù si produce nella ben nota parabola del buon Samaritano, arrivando alla domanda retorica finale: "E insomma, chi è il prossimo da amare, secondo te, il sacerdote e il levita che indifferenti sono passati oltre o il Samaritano che si è fermato e ha soccorso chi era solo e sofferente?" Soluzione: il "prossimo" da amare è il Samaritano, è colui che si fa prossimo per fare una mano e aiutare chi si trova in difficoltà. Usare l'evangelico "ama il prossimo tuo" per sostenere la volgarità del "prima quelli di casa e poi, se ne avanza, vediamo semmai i lontani" è non solo aberrante, ma da doppio errore rosso e blu. E come vede, caro Malvino, non è affatto un "argomento", ma una volgare mistificazione, in cui anche lei a quanto pare, per amor di "correttezza", è caduto mani e piedi. (Il riferimento testuale al vangelo di cui qui ho azzardato una personale riduzione è ovviamente Lc 10:25-37).
Elimina[Ci davamo del tu, ma prontamente mi adeguo alle mutate condizioni.]
EliminaGentile Tombolini, lei sa bene che i Vangeli (per limitarci ai sinottici, perché per Gv e agnostici è pure peggio) sono ambigui e contraddittori in sommo grado, per non parlare di come le cose sono state ulteriormente ingarbugliate dall’aramaico (o dall’ebraico) al greco, e dal greco al latino. Ci aggiunga cosa ha fatto il resto, cioè da questo materiale una dottrina morale. Un esempio per tutti: come mettere d’accordo l’ordine di Gesù “chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una” con “amate i vostri nemici, pregate per quelli che vi perseguitano” e “chi non è con me è contro di me”. Sarei dunque più cauto nel dare per scontate e definitive le esegesi confetturate dalla sua Madre Chiesa. Deluso, di poi, son io: lei non ha colto affatto l’ironia che era del testo del post e nella risposta al lettore, in buona sostanza mirante a far presente che, sulle ambiguità e le contraddizioni dei Vangeli, Salvini ha buon gioco a dirsi cristiano e raccogliere consensi tra i cattolici italiani, come in realtà accade, in un Italia che per metà considera Bergoglio un eretico. Pensavo che tale ironia fosse evidente con l’estenderla al modo in cui può esser letto il IV comandamento per come c’è lo illustra il Catechismo. Lei, preso dal fuoco sacro, mi attribuisce quello che io attribuisco a un cattolico che non ha alcuna difficoltà a votare Salvini. Se lei fosse un più costante lettore di queste pagine avrebbe potuto constatare che su “ama il prossimo tuo” mi sono già intrattenuto, e con analoga ironia. Quella di cui fa mostra, mi consenta, è l’indignazione che non risolve nulla, perché mostrifica le ragioni del “nemico” senza con ciò togliere ad esse neppure un grammo del consenso che raccolgono, anzi, prefigurando la rissa come unica soluzione all’approccio delle questioni poste dal fenomeno dei migranti in arrivò sulle nostre coste. Possiamo accoglierli tutti solo perché è un dovere morale accoglierli? C’è chi lo ritiene impossibile, non sto qui discutere se a torto o a ragione, e non venga a farmi il distinguo tra soccorrerli ed accoglierli (tanto meno con l’integrarli): come ho già detto, Salvini ha avuto il merito di sollevare la questione di una Eu sorda, cieca e muta su una sostenibile politica comunitaria rispetto al tema. L’ha sollevata in modo barbaro e criminale? Non c’è dubbio, ma è un fatto che l’abbia sollevata. E qui cade a fagiolo il suo Samaritano, che può scorrerne uno, due, dieci, cento, ma poi gli finiscono le bende, e allora ha bisogno dell’aiuto dello stato, che dandoglielo lo investe del ruolo di soccorritore professionale, con quanto ne consegue per ogni professione, sempre a metà tra missione e affare. Da cristiano lei ha pieno diritto di pensare a Salvini come incarnazione del Maligno, a considerare dannati i suoi seguaci, e me, che non condivido questi tesi, un complice in solido del demoniaco disegno. Ma, tranne che a darle convinzione di incarnare il Bene, questo non risolve nulla. Chiudersi alle ragioni altrui non risolve nulla.
Il simpatico e dotto Tombolini, lui per nulla supponente al contrario di me, definisce volgare il "prima quelli di casa, e poi, se ne avanza, vediamo semmai i lontani". Al netto dell'italiano creativo del suo post (dove, a leggere Tombolini, il samaritano sarebbe "il prossimo da amare", mentre è ovvio che il samaritano è "colui che ama il prossimo"), io, più che volgare, definirei "saggio" questo paradigma del "prima quelli di casa".
EliminaPer diversi motivi. Uno, banalmente evoluzionistico. Siamo fatti per preferire l'in-group all'out-group. E' una elementare regola di sopravvivenza. Preferire l'out-group all'in-group è (parola che dovrebbe spaventare i supercattolici) "contronatura".
Il secondo motivo è la sfida eterna tra ipocrisia e sincerità.
Se non ami i tuoi, che avresti tutte le ragioni per amare, sarai sincero quando dici di amare gli altri, ovvero persone lontane di cui non sai assolutamente nulla? Se non sai nulla di loro, in base a che cosa, precisamente, sostieni di amarli? E' ovvio che non amerai loro come persone, visto che non le conosci affatto, ma ami soltanto il loro "concetto". Quindi è un amore fasullo. Un amore ipocrita. Se poi, come le varie associazioni che tutti conosciamo, uno su questo amore ipocrita ci lucra pure, allora tale amore per l'esotico a discapito (a discapito nel vero senso della parola, perché è tutto finanziato con i contributi degli italiani che oggi almeno al 40% non desiderano più immigrati), allora si vede che questo amore super-umanitario oltre che ipocrita diventa anche farisaico.
(O almeno, lo diventa per gli ignoranti e i supponenti come me. Gli illuminati e umili sicuramente possono vedere verità che a me sfuggono).
Massimo90
le sue argomentazioni hanno una certa forza ma non sono, a mio parere, risolutive, perché si potrebbero applicare allo stesso modo alla solidarietà tra concittadini. Perché lo stato deve aiutare anche con i miei soldi degli italiani che non conosco e verso dei quali non posso quindi provare dei sentimenti di tipo personale ? In realtà io penso che esista una sorta di solidarietà astratta o impersonale che dovrebbe essere alla base (Non solo teoricamente) delle società democratiche moderne. Ma proprio qui sta, sempre secondo me, il punto debole di molti fautori dell'accoglienza senza condizioni. Infatti in un'ottica di solidarietà astratta bisognerebbe contemporaneamente e con la stessa forza venire incontro alle esigenze degli italiani più bisognosi e adoperarsi affinché quella gente non sia costretta a lasciare il proprio paese per finire sulla strada o alle dipendenze di qualche caporale.
Eliminain che senso Salvini avrebbe ricevuto uno scacco ?
RispondiEliminaI migranti della SeaWatch sono sbarcati, la Rackete è libera, la nave presto risolcherà i mari: cosa doveva accadere di più per dire che ha perso questa partita. E tuttavia non gli si può negare un merito: ha svegliato l’Europa sul problema della prima accoglienza e su quello della ripartizione, ma con un prezzo altissimo, quello del mostrificarsi, che di solito si paga caro, anche se molto in ritardo. In ogni caso è da ridere l’imputazione di fascismo: un fascista è prima di tutto un teppista, e non fa tutte quelle chiacchiere, le navi delle ong le affonda. La prima dopo aver trasbordato i migranti su un mezzo della Marina Militare per riportarli in Libia, costasse pure una milionaria di euro, la seconda e le altre con i migranti a bordo, simulando incidenti. Poi, petto in fuori, ad affrontare il terremoto che ne consegue. Un fascista è innanzitutto un criminale, un bandito: Salvini si limita a crudeli dispettuci da adolescente che se lo sente piccolo.
Eliminacapisco. È curioso come si possano avere percezioni opposte della stessa vicenda. A me è sempre apparso evidente che la vera posta in palio fosse quella della ripartizione dei migranti e su questo punto Salvini mi sembra aver riportato una chiara vittoria pratica ma soprattutto simbolica, tanto da essere riuscito a creare un precedente che difficilmente potrà essere ignorato (anche da governi altri) e che ha tutti le caratteristiche per trasformarsi in prassi. I migranti cioe'si accolgono solo previa dichiarazione di compartecipazione di diversi paesi. Non è poco, direi che è tutto quello che l'elettore medio (che non vuole certo vedere affondare navi) può chiedere a Salvini su questo punto.
Eliminascusi, tengo a dire che io non ho nessuna speciale simpatia politica per Salvini, di cui per esempio detesto l'insistenza sulla flat tax, però devo dargli atto di aver impostato e risolto correttamente (cioè secondo ragione) la questione dei migranti. Uso volutamente il termine "ragione" perché la ragione per dispiegarsi pubblicamente ha bisogno di determinatezza e di limiti. Ciò che rende detestabile la posizione piddina non è tanto, a mio avviso, l'appello ai buoni sentimenti quanto l'indeterminatezza in cui viene lasciata la questione.
EliminaProclamare inviolabile il «diritto naturale storicamente acquisito» di poter lasciare il proprio paese, non significa ipso facto imporre il diritto di essere accolti dove più ci pare e piace. Anche perché qui non si tratta semplicemente di riconoscere il diritto del singolo, ma di valutare,
RispondiEliminaquindi giusto il richiamo a quella "valutazione" di GP II, gli effetti di una migrazione di massa verso paesi già densamente popolati e con non pochi problemi di sostenibilità (senza dire poi della chimerica “integrazione” dei nuovi venuti). Quanto poi all'urgenza morale, si potrebbe discutere a lungo e ad ogni modo concordo con Erasmo. La differenza tra la Lega e il Pd consiste nel fatto che la Lega una propria linea politica su questo tema ce l’ha (discutibile quanto si vuole), mentre il Pd è il solito cortile delle comari. Che la questione vada affrontata globalmente e nella sua complessità è fuori discussione, ma non credo che sarà affrontata a livello europeo nei modi e l'urgenza che essa richiede.
Complimenti per il post magistrale.
RispondiEliminaMi permetto due precisazioni sulla parte papale. La prima è una pedanteria: il Messaggio per la 97ª Giornata del Migrante e del Rifugiato è del settembre 2010, quindi lo firmò Benedetto XVI, non GPII. Il virgolettato però è effettivamente del Papa polacco, citato da Benedetto, e proviene dal Messaggio per la XXXIV Giornata della Pace, di fine 2000. In quell Messaggio Wojtyla espresse il suo punto di vista sull'importanza delle culture nazionali, un tratto peculiare della sua predicazione.
Però papa Wojtyla scrisse anche (Messaggio per la Giornata mondiale del migrante 1992): "Anche se i Paesi sviluppati non sono sempre in grado di assorbire l’intero numero di coloro che si avviano all’emigrazione, tuttavia va rilevato che il criterio per determinare la soglia della sopportabilità non può essere solo quello della semplice difesa del proprio benessere, senza tener conto delle necessità di chi è drammaticamente costretto a chiedere ospitalità." Cioè: va bene quello che dice il Catechismo, ma mantenere il tenore di vita non è una scusa buona. Probabilmente GPII ragionava da polacco, proveniente da un Paese più povero, e non si capacitava che l'opulenza occidentale accampasse questa motivazione rispetto all'aiuto al prossimo. E' una cosa che - dopo la caduta del Muro - traspare anche in altri interventi.
Benedetto XVI, leggendo i suoi interventi su migranti e rifugiati, era ben più tiepido, e più preoccupato per gli effetti "culturali" delle migrazioni su quella civiltà "greco-tomistico-cristiana" europea che permeava la sua visione. E' coerente con questa preoccupazione che scelga di citare proprio quel passo di GPII.
Suggerisco l’esegesi estetizzante di “ omo de panza, omo de sostanza “ , “ ama il prossimo tuo “ mi pare un po’ troppo complessa di questi tempi.
RispondiElimina"...così si affrettarono a definirla gli assennati terroristi di Hamas..."
RispondiElimina:-D
Geniale.
Grazie, passar di qui è sempre prezioso.
Stia bene.
Ghino La Ganga
Vorrei fare un commento che, più che rifarsi direttamente al post, si riferisce ad alcuni commenti qui. Ho l'impressione che serpeggi un assunto indimostrato: siamo in fase di immigrazione critica ed è (suppongo per questo) in qualche modo meritorio porre la questione in Europa. Primo - e mi astengo dal confondere causa ed effetto: chiedo un esempio di nazione economicamente avanzata che sia mai andata (passato e presente) in crisi a causa della forte immigrazione, o almeno quale sia il bilancio medio di chi più l'ha sperimentata.
RispondiEliminaIl paese europeo con il più alto tasso di immigrazione degli ultimi decenni è quello economicamente più florido e stabile, la Germania (ripeto, mi astengo dal dedurre causa ed effetto). Storicamente in testa figurano gli Stati Uniti, sia come percentuale di immigrati sia come potenza economica. Lo dico, tra l'altro, ben conscio del cinismo dell'economia, perché parliamo perlopiù di manovalanza di gente disposta a tutto pur di campare, che arricchisce l'economia del paese che li ospita, cioè degli autoctoni, a discapito di un bieco sfruttamento di chi spera di salvare i figli da analoga sorte.
Detto ciò, non discuto sul fatto che se mangio troppo oltre ciò che il mio stomaco ha la capacità di contenere finirò con il rigettare tutto, e quindi i paesi hanno certamente un meccanismo di apertura e chiusura che tuteli la sopravvivenza del sistema. Ma un conto è l'oggettiva capacità dello stomaco, un altro, come nel caso italiano di oggi, un precetto puramente politico e ideologico, di propaganda, non basato su indicatori marcoeconomici oggettivi, che è appunto quell'assunto indimostrato che ci vuole alle soglie della saturazione (quando siamo ancora all’antipasto). A vedere alcuni indicatori economici nostrani, in realtà, è l'esatto contrario: il fenomeno immigratorio aiuta a tenerci a galla.
Sapete lo scopo della propaganda anti immigrati quale potrebbe essere, o almeno l’effetto? Quello di far passare per accettabile alla massa uno sfruttamento ancora più cinico degli immigrati che già ci sono, in quanto persone a malapena degne di fruire di diritti fondamentali. Non a caso la battaglia parte dal (non) riconoscimento di cittadinanza: strumento per mantenere in piedi la distinzione tra persone di seria A e di serie B.
Passando sul tema dei diritti, chiaramente mi sorge un dubbio spontaneo: che si tratti di un diritto cui si sia dato spazio per calcolo? Ben venga lo stesso, comunque se reciprocamente utile.
Occupandomi di cose scientifiche ho infine ben presente il caso americano: è probabile che gli Stati Uniti non sarebbero diventati la potenza tecnologica che sono diventati senza le élite intellettuali scappate dal nazismo e dai fascismi. Circa un nome super illustre su due, o su tre, giunse negli Stati Uniti durante la guerra, o al più uno e due anni prima.
Noi, italiani, saremmo Tafazi anche in questo. Le élite però ci limitiamo a tenerle a distanza solo col nostro sistema di impiego.
Sottoscrivo tutto, e aggiungerei "ovviamente", perché è tutto ben argomentato, in primo luogo rinunciando persino a far cenno al movente "umanitario", sul quale mi sembra di aver detto abbastanza, nel tentativo di delegittimarne pretesa di bastare a se stesso per poter dire "accogliamoli tutti". Peraltro già in passato ho chiarito la mia posizione sul problema, e non ho cambiato idea. Come ho già detto qualche post fa, tuttavia, a me sembra necessario "entrare" nelle "ragioni del 'nemico'" per capire donde venga il (dis-)percepito, sul quale però ho già qualche indizio: a far percepire i migranti come minaccia è stato soprattutto il volerne predicare l'accoglienza in forza delle sole ragioni "umanitarie". Si fosse rinunciato a quelle, peraltro messe in bocca a samaritani professionali dagli assai poco trasparenti interessi, e si fosse dato risalto alle ragioni di cui, qui, caro De Gregorio, lei fa bella sintesi, la discussione non si sarebbe incarognita fino al punto cui è giunta.
Eliminamah veramente quelli del pd hanno provato abbondantemente in una prima fase a buttarla sull'economia: "l'immigrato è sempre una risorsa etc", poi, quando hanno visto che non funzionava tanto, è entrato in gioco Saviano. Consiglierei di fare un banale distinguo tra l'economia intesa come crescita del pil e le condizioni economiche della maggioranza della popolazione.
EliminaNon abbiamo a che fare con un’immigrazione di massa in paesi semidisabitati, né con un’immigrazione in una fase alta del ciclo economico (che non ci sarà più), ma con un’immigrazione di massa che diventerà sempre più sostenuta in paesi già densamente popolati e che dovranno affrontare nei prossimi anni il problema della disoccupazione di massa (quella vera!). L’esempio della Germania, o qualsiasi altro esempio, in prospettiva (sottolineo: in prospettiva), è fuori luogo. Si tratta di milioni di persone, di uno spostamento di popoli che cambierà completamente, sotto molti profili, i connotati dell’Europa.
EliminaChi si oppone all’immigrazione tout court e vota Lega non lo fa, in prevalenza, a riguardo degli effetti macroeconomici. Faccio un paio di esempi. Ho un’amica che aveva un ottimo appartamento in zona residenziale all’Arcella di Padova, acquistato negli anni Ottanta, ebbene l’ha dovuto vendere a prezzo stacciato e trasferirsi perché in quel quartiere è diventato impossibile vivere una vita normale (non esagero). Dei miei parenti, hanno dovuto fare lo stesso a Mestre (via Oslavia, laterale di via Piave). Bisogna viverle di persona queste situazioni.
m'è scivolata una virgola tra soggetto e predicato
EliminaVabbè, ormai la cosa è stata sdoganata, tra poco l'Accademia della Crusca dirà che si può fare.
Eliminama tu tieni duro, sulle virgole
EliminaSi serve la Patria anche facendo la guardia a un bidone di benzina.
Eliminacerto, vecchio mio, col colpo sempre in canna
EliminaGrazie dell'apprezzamento, Malvino. Vero è che io riconosco anche il problema "umanitario", pur convenendo che accogliere tutti sia materialmente impossibile. Semplicemente ritengo che l'essere nati in un paese "agiato" sia un puro frutto del caso e niente altro, e perciò assegnare valore di sostanza all'essere "italiani" sia un argomento tanto infantile quanto ridicolo. Se si vuole difendere il territorio lo si dica meramente facendo riferimento a vecchie quanto primitive, non necessariamente insostenibili ragioni di clan. Non abbiamo nulla da spartire, in quanto italiani, se non un territorio, perché ormai cosa ci sia ad accomunirci dal punto di vista culturale è diventato difficile scorgerlo.
EliminaOlympe, conosco vagamente il problema dell'Arcella, che sinceramente ritengo sia prima di tutto un problema di ordine pubblico. Posso osservare che l'amministrazione della città è da tempo appannaggio della medesima parte politica che ancora sbraita. Anche ad accogliere, legittimamente, l'obiezione che l'ordine pubblico dipenda in primis dal governo nazionale, beh, il partito sempre di quel tale che sbraita è stato al governo un po' meno della metà del tempo in questi ultimi venticinque anni.
A New York c'era il problema della criminalità, che è stato molto ridimensionato negli ultimi dieci o quindici anni (tutto fatte le dovute proporzioni tra gli standard americani di sicurezza e quelli europei). Ciò semplicemente per opera di amministrazione.
Aggiungo che ricordo che in una città ancora più grande, chiamasi Roma, quando gli immigrati non esistevano, vi erano quartieri di centinaia di migliaia di abitanti quasi totalmente fuori controllo. Il problema che distingue l'Arcella da quelle realtà anni '80 è che si tratti di un quartiere che non nasce malfamato. In altre parole, i quartieri malfamati andavano bene una volta, perché c'erano italiani che lì, in quei contesti, ci nascevano. Oggi è un problema perché qualcuno un po' più benestante se ne è dovuto andare. Da qui a sostenere che per via di queste nuove realtà dobbiamo chiudere le frontiere, con tutto quel che comporta, di fronte sia alla comunità internazionale che alla nostra economia, ce ne passa.
Il valore assoluto che pretende la ragione "umanitaria" rende assai problematico quel "pur convenendo". D'accordo, però, sull'impiego strumentale della "italianità" (più volte messa in discussione su queste pagine come "carattere", ma anche come categoria storica, sociologica, culturale, ecc.) come ragione prima e ultima di una governabilità dei flussi migratori, cui peraltro si rinuncia, per la chimera del bloccarli. Lei scrive: "Se si vuole difendere il territorio lo si dica meramente facendo riferimento a vecchie quanto primitive, non necessariamente insostenibili ragioni di clan". Bene, proprio a questo stiamo: queste ragioni sembrano essere diventate sostenibilissime, e il fatto di essere primitive ha dato ad esse un certo fascino, almeno così pare dai sondaggi. Vogliamo limitarci ad esecrarle o è più saggio analizzare perché e come hanno avuto modo di imporsi? Soprattutto: siamo in grado, in questa analisi, di dare il giusto peso alle responsabilità di chi ha pensato di poter trattare il fenomeno migratorio come problema esclusivamente "umanitario", peraltro trovando pure il modo di lucrarci sopra? Pensi al tanto celebrato "sistema Riace". Su cosa si reggeva? Da 26' a 33': https://www.raiplayradio.it/audio/2019/05/TUTTA-LA-CITTAapos-NE-PARLA-4c8d834f-0e9f-4e43-882c-cc4647835263.html
RispondiEliminaa Paolo De Gregorio
Elimina1. Non è solo un problema di ordine pubblico (questo lo pensa lei e la Lega) e del resto non interessa di quale colore politico sia attualmente l’amministrazione patavina, romana, ecc.;
2. lei, per sostenere la sua tesi, ha ignorato quanto ho scritto nella prima parte del mio commento: questa non è una migrazione come le altre e avviene in un contesto storico, economico, demografico e urbanistico con peculiarità specifiche, in prospettiva uno spostamento di popoli (spostamento di popoli!) che cambierà completamente, sotto molti profili, i connotati dell’Europa; questa nuova immigrazione non porta solo braccia a basso costo, ma porta anche molte altre cose che non si possono iscrivere nei bilanci economici e che però stanno avendo già ora un peso non trascurabile sulla vita delle comunità e sui rapporti tra i gruppi;
3. come pensate di trovare un lavoro a milioni (milioni) di persone, educarle al rispetto delle leggi, familiarizzare con l'ambiente e la mentalità democratica (laicità, separazione della sfera religiosa da quella pubblica, libertà personali, diritti civili, parità dei sessi e concezione della donna (anche se vi sono italiani che non possono essere citati d'esempio), avviarli alla convivenza, ecc. ecc.? e tutto ciò da subito, non tra vent’anni;
4. pacifico il fatto che italiani o esquimesi si nasce per caso, ma non è per caso che si formano popoli, nazionalità, culture, territori, storia; credo legittimo che questi popoli abbiano il diritto di “accogliere” sul proprio territorio chi pare loro e non di subire tale “accoglienza”, o quantomeno di limitarne e regolarne l'afflusso;
5. continuate ad irridere, a dire che queste considerazioni sono ridicole, infantili, primitive, eccetera, poi mostratevi stupiti se la Lega diventa un partito nazionale e il primo partito (anche a Riace, per dire).
Finalmente riesco a rispondere.
Elimina@ Malvino
Le ragioni umanitarie trovano elaborazione a valle di esperienze storiche e relative riflessioni e solo in apparenza esse si mostrano assolute. L'utile può non stare nell'immediato tornaconto, ma in una prospettiva di più ampio respiro, che include il riconoscimento di certi valori, in assenza del quale la società potrebbe benissimo disgregarsi. Dette riflessioni sono diventate connaturate ad un sistema di "valori" ampio e articolato, su cui si regge ormai la convivenza.
Mi viene in mente la fine della segregazione razziale negli Stati Uniti: essa era incompatibile con un sistema di valori ormai condiviso, sul quale si reggeva e si regge ormai la società americana. Ho la sensazione che si dia troppo per pacificamente acquisito che, di fronte ad una rinuncia al principio "umanitario" in quanto tale, tutti i settori della società resterebbero pacificamente in silenzio; quando io ritengo che chi accetta la presenza ingombrante dello Stato solo per il tornaconto di una coesione sociale, figlia del sistema assistenziale, potrebbe benissimo ribellarsi alla rottura di questo tacito patto.
Sul sistema Riace so troppo poco, e quei sei minuti non mi hanno istruito a sufficienza. In ogni caso anche chiudendo i rubinetti del Piano Marshall d'improvviso noi italiani ci saremmo trovati con le classiche mani avanti e dietro. A prescindere, l'errore più grave è di chi spedisce centinaia di persone in un paesino di mille anime, pensando così di risolvere a buon mercato un problema ben più complesso che sarebbe chiamato a gestire.
@ Olympe
Elimina1. Non siamo d’accordo.
2+3. Non sono così sciocco da pensare che una persona adulta venga in Italia e cambi d’improvviso il proprio sistema di valori, anche se ammetto che possa esserne almeno in parte condizionata. Ma alla generazione successiva saranno i figli degli immigrati ad aver assimilato il sistema di valori esistente, e non i figli nostri a sposare quelli degli immigrati. Questi “popoli” sono migliaia di piccole realtà tutte diverse tra loro, che arrivano per stare meglio. Ed è un dato di fatto che i figli dei primi migranti sono oggi mediamente ben integrati nel nostro sistema democratico. Non ci troviamo di fronte ai barbari che sono coesi e venuti per conquistare, sostituirci e dettare legge, ma a realtà che vogliono stare meglio, che ci percepiscono come modello di benessere.
Mi immagino i romani sostenere che loro gli abitanti di Vicovaro, o della Campania, a Roma a vivere non ce li vogliono, perché cambierebbero la cultura romana. Io sono nato e cresciuto e Roma e un giorno mi dilettai a fare sondaggi tra conoscenti per scoprire quanti erano di famiglia romana da più di zero o una generazione. Pochissimi. Eppure la “romanità” era un loro tratto distintivo considerato acquisito, tanto che quando mi trovavo con compagni d’avventura sportiva di altre regioni ci tenevano a sottolineare che “non sembravo romano”, avendone conosciuti molti altri.
4. Non ho nulla in contrario a regolare i flussi migratori. Resterebbe il problema con chi non è migrante, ma profugo.In ogni caso regolare non vuole dire “scegliere”, tipo bianco o nero, rosso o marrone. Sui flussi via terra nessuno dice niente. Sui milioni passati in Germania nei decenni passati via terra, nessuna spontanea offerta italiana di contribuire alla loro redistribuzione.
5. Ridicole non genericamente le “considerazioni”, ma una specifica posizione, che era il conferire “sostanza” all’italianità. Detta italianità, ripeto conseguenza di un evento dettato dal caso con probabilità circa una su cento, è al più (vedi fine punti 2+3) una assimilazione dal contesto circostante, non una eredità genetica. Pensare di difenderla chiudendo le frontiere è a mio avviso come consigliare di non aggiungere un bicchiere di acqua fredda nella pentola che è sopra il fuoco, perché a quel punto tutta l’acqua non bollirebbe più (perché l’acqua fredda per antonomasia non può bollire). Ripeto, ammesso e non concesso che esista ancora un tratto distintivo della “italianità”.
vorrei chiedere, se è lecito, a Malvino o a De Gregorio, quali effetti macroeconomici sì aspettano dall'immigrazione in un paese con un ciclo economico non espansivo, con elevata disoccupazione, con diffusissima precarietà e bassi salari. A parte, naturalmente, un aumento dell'offerta di lavoro e quindi di un'ulteriore precarizzazione e abbassamento dei salari. Grazie per la risposta.
RispondiElimina@ ilsoggettonascosto
EliminaNon sono certamente un sostenitore della virtù del lavoro sottopagato e del gioco al ribasso. Io stavo meramente controbattendo all’argomentazione di chi sostiene che l’immigrazione penalizzi la nostra economia e perciò sia insostenibile, quando le cose girano al contrario. In ogni caso la natalità è in forte contrazione e l’età media in crescita: non esisterebbero materialmente le risorse per l’equilibrio del welfare senza immigrazione. Tutt’oggi non ci sarebbero soldi per le pensioni, senza immigrati, per non parlare del problema assistenziale e la necessità di aiuti in casa, fortemente cresciuta proprio per l’avanzamento dell’età media.
Ma piuttosto faccio replicare con le parole del DEF del governo uscente, certo non una campana pubblicamente pro-accoglienza, che per rassicurare l’Europa sulla tenuta della nostra economia in prospettiva pluridecennale fa esplicito affidamento su flussi migratori in crescita per auspicare un PIL sotto controllo:
“L’invecchiamento della popolazione e i flussi migratori sono tra gli aspetti più critici che l’Italia dovrà affrontare nel corso dei prossimi decenni. A questo riguardo, assume particolare importanza valutare distintamente l’impatto delle principali determinanti dell’evoluzione demografica quali: i) l’aumento della speranza di vita; ii) l’andamento del tasso di fecondità della popolazione e iii) il flusso netto di immigrazione. Tali determinanti hanno un impatto sulla spesa pubblica e quindi sull’evoluzione del debito nel lungo periodo”.
[…]
“A parità di saldo primario strutturale del 2022 e dato il livello del debito iniziale di partenza, un aumento del flusso netto migratorio del 33 per cento a partire dal 2019 permetterebbe di diminuire sensibilmente il rapporto debito/PIL rispetto al baseline, con una riduzione media di circa 18,5 punti di PIL nel periodo 2023-2070.
Per contro, la diminuzione del flusso netto migratorio dal 2019 avrebbe l’effetto di incrementare il debito, con un aumento medio rispetto al baseline di circa 20,5 punti di PIL tra il 2023 e il 2070”.
Ciò in via più ottimistica del già ivi citato ottimistico Eurostat, secondo il quale “le ipotesi demografiche si basano sullo scenario centrale elaborato […] con base 2015 [che] prevede per l’Italia: i) un flusso netto di immigrati di circa 190 mila unità medie annue, con un profilo crescente fino al 2040 e decrescente successivamente”.
Condivido molto le ragioni di Olympe de Gouges.
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