«La
verità sulle questioni cruciali
appare
esclusivamente tra le righe»
Leo
Strauss
Una
premessa alla premessa
Attenzione,
il titolo di questa pagina è ingannevole!
Chiarimento
della premessa alla premessa
Mettiamo
caso andiate a teatro. Danno il Giulio
Cesare di William Shakespeare. Ci andate in compagnia di un
conoscente che sa tutto della Roma dei tempi di Cesare e
dell’Inghilterra dei tempi di Shakespeare, e che a cena, dopo lo
spettacolo, vi intrattiene in cento e cento note a pie’ di testo.
Dice che, ai tempi di Cesare, la pederastia era ampiamente tollerata
e non era affatto raro che il pederasta finisse con l’adottare il
ragazzo cui si era affezionato: «Conosciamo i gusti sessuali di
Cesare, non è da escludere che l’adozione di Bruto...». Poi passa
a Shakespeare, dice che in molti suoi sonetti sono evidenti forti
indizi di omosessualità: «Prendi il n. 20, per esempio, con quel
“Master Mistress of my passion”...». Mettiamo che torniate a
casa, andiate a letto e sogniate di Cesare, e di Bruto, e di Cassio,
e di Marco Antonio. Il fatto è che i personaggi della tragedia sono
gli stessi che avete visto qualche ora prima, ma nel sogno la vicenda
scorre in tutt’altro modo. L’indovino, per esempio, dice a Cesare
di guardarsi dalle idi di agosto, e dice proprio «agosto», il che è
del tutto inverosimile, perché, ai tempi di Cesare, «agosto» è
ancora «sestile» (lo diventerà solo una ventina d’anni dopo la
sua morte, in onore di Augusto, che peraltro in quel momento neanche
è «Augusto», ma ancora Gaio Ottavio). Cesare, poi, non viene
pugnalato, ma freddato con due colpi di pistola. Idem per l’oratio
funebris di Marco Antonio: più che aizzare il popolo contro i
cospiratori, sembra voler calmar le acque, roba del tipo «vabbè, è
andata, e certo non è stata cosa bella, non si fa, ma adesso che
vogliamo fare, un’altra guerra civile come quella dei tempi di
Mario e Silla?». Non basta, perché su tutta vicenda, nel sogno,
sentite che aleggia una pesante ambiguità, come se i moventi
dell’assassinio di Cesare fossero tutti passionali, segnati da una
sottintesa trama di relazioni omosessuali: perdutamente innamorato di
Bruto, Cassio cerca di portarlo via a Cesare; Marco Antonio, che fin
lì di Cassio è stato amante, cerca di far capire a Cesare cosa stia
accadendo a sua insaputa; Bruto non sa cosa fare, volentieri
cederebbe alle attenzioni di Cassio, però i sensi di colpa lo
frenano. Quasi un erotic thriller, diciamo, non fosse che tutto è
tanto sottinteso da poter passare per allegoria politica.
Non vi
è del tutto chiaro, vero? Perfetto, procediamo.
Mettiamo
che al risveglio vi venga voglia di annotare da qualche parte il
sogno che avete fatto, e che alla pagina decidiate di mettere un
titolo, e che La
morte di Giulio Cesare vi possa sembrare
vada bene, perché in fondo è della sua morte che avete sognato.
Però mettetevi nei panni di chi abbia a trovarsi tra le mani quella
pagina: il titolo rimanda alla Roma del 44 a.C., ma l’incipit
dà voce a un Marullo che rimanda a The Tragedy of Julius Caesar
(Atto I, Scena I); è chiaro, dunque, che la pagina rimanda alla
trasfigurazione artistica di una vicenda storica, se non fosse che
anche quella deve aver subito una trasfigurazione, perché Marullo
cita brani da Die
Geschäfte des Herrn Julius Cäsar di
Brecht; «sarà una fiction», penserà a quel punto chi legge, ma
qui sorge un problema, perché in esergo alla pagina c’è
una frase tratta da Persecution and the art of writing di Leo
Strauss, che parrebbe insinuare che la fiction sta solo nell’aver
confezionato la pagina come annotazione di un sogno, che in realtà
non avete fatto.
Niente
affatto chiaro, vero? Benissimo, procediamo.
Premessa
Quando
fu ucciso Luigi Calabresi, avevo quindici anni. A quei tempi ero
iscritto alla Fgci e, fra i sei o sette quotidiani cui la sezione del
Pci che ci ospitava era abbonata, c’era pure Lotta
Continua
(non stupisca, c’era pure Il
Secolo d’Italia,
in ossequio al principio che «il
nemico va studiato»),
sulla quale, qualche giorno dopo quell’omicidio, lessi che doveva
essere inteso come «un
atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di
giustizia».
La cosa mi colpì particolarmente (si tenga conto ai quei tempi
ancora non s’era inaugurata la stagione di caccia al servitore
dello Stato, che di lì a poco avrebbe visto in gara estremisti di
destra e di sinistra a chi di più riempiva il carniere), perché, in
buona sostanza, ci leggevo la fierezza del boia. Un
boia molto sui generis, ovviamente, perché quando ti senti
avanguardia degli «sfruttati», fai tua la loro «volontà
di giustizia»,
additi in un tizio il loro «nemico», e scrivi «gli
siamo alle costole», «dovrà rispondere di tutto», «di
questi nemici del popolo vogliamo la morte» (Lotta Continua,
6.6.1970), non c’è
bisogno che tu lo sia materialmente.
Impressione,
questa, che non sono mai più riuscito a rimuovere nei decenni
trascorsi fin qui, e che, pur nella convinzione che le responsabilità
penali di quell’omicidio
siano state attribuite a Sofri, Pietrostefani e Bompressi in modo
assai opinabile, quelle morali e politiche, una volta tanto
coincidenti, fossero tutte da ascrivere a Lotta Continua, come
d’altronde,
seppur decenni dopo, gli stessi dirigenti della formazione politica
si dichiararono disposti a concedere. Che Calabresi avesse ucciso
Pinelli, sia chiaro, era un fatto che a quei tempi non era solo Lotta
Continua a dar per certo – a tratteggiare il contesto basta pensare
a un film come Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto
(Elio Petri, 1970) e a una commedia come Morte accidentale di un
anarchico (Dario Fo, 1970) – e tuttavia nessun altro in quella
vicenda ebbe ad arrogarsi, insieme, il ruolo di pubblico accusatore,
di giudice e, se non proprio di boia per quanto già detto, di suo
mandante. Da un quindicenne, però, capirete, non si può pretendere
troppa finezza di distinguo.
Uscito
da quegli anni, teatro di mille altre nefandezze, quella rimaneva un
chiodo fisso, al quale appendevo via via tutto ciò che se ne diceva
e scriveva. Poi, un giorno, quando già da un pezzo Sofri e Bompressi
erano in carcere e Pietrostefani in Francia, mi ritrovai a parlarne
con Bordin, uno che della sinistra extraparlamentare degli anni ’70
era più esperto di quanto Mommsen lo fosse della Roma del 44 a.C.,
però con quel di più di conoscenza «minuta» sulla quale la
storiografia ha saputo darci lumi solo da Bloch in poi. Nella
Römische
Geschichte,
infatti, non troverete traccia di cosa usassero i romani al posto
della carta igienica, né ne L’orda
d’oro
di Balestrini e Moroni chi fosse il miglior pokerista
dell’avanguardia proletaria. Bordin, invece, sapeva tutto di tutti, e
alla terza grappa era un fiume in piena. Il fesso che sta a
sentinella del buonsenso li avrebbe definiti pettegolezzi, fatto sta
che quegli incredibili ritratti umani e quelle ancor più incredibili
vicende personali davano modo di comprendere il «method» di tutta
quella «madness», sicché sembrava di poter cogliere il cosiddetto
«fattore umano» dei cosiddetti «anni di piombo», e –
voilà! – perdeva senso chiedersi se Barbone avesse ucciso Tobagi
perché manovrato da qualcuno che lavorava al Corriere della Sera o
perché pensava che quell’omicidio gli avrebbe fatto maturare
credito per diventare un capocolonna delle Br: «Lasci da parte il
“perché”, Castaldi, e guardi il “chi”: si “pente” due
minuti dopo l’arresto».
Così
sull’omicidio
Calabresi. Sarà stato nel 2005 o nel 2006, non l’ho
annotato, ma di certo era estate, perché nella bella stagione uno
dei ristoranti dove eravamo soliti pranzare piazzava una mezza
dozzina di tavoli nel suo cortile interno coperto da un bel pergolato, dove era possibile fumare, e ho
ben chiaro il ricordo che in quell’occasione
fossimo all’aperto.
Poi c’è
che ogni volta che ci incontravamo ero solito portargli in dono un
libro, ma solo per imbarazzarlo, perché di regola erano del tutto
astrusi ai suoi interessi ed era delizioso vedere la sua reazione al
mio «è un classico, ma sono certo che le manca». Giacché la volta
prima, al Momo di Leon Battista Alberti, mi aveva detto: «Questi non
sono doni, sono accuse di ignoranza», quel giorno gli porsi l’opera
omnia di Spinoza dicendo: «Guardi come la copertina di questo
Meridiano si intona bene alla sua giacca». Una delle sue peggiori
giacche, occorre dire, però d’un
celestino decisamente estivo. E visto che fu proprio da Spinoza che
partì la discussione, cioè, per meglio dire, la sua lectio
magistralis sul caso Sofri, sì, si era in estate o sarà stato
tutt’al
più maggio o settembre, agosto certamente no, perché ad agosto non
ci incontravamo mai.
Mi
sto perdendo nei dettagli, vero? Ok, salto Spinoza e arrivo subito a
quelle nove o dieci frasi dette nello stile terso e vivace che lo
rendevano tanto amabile.
«È
un errore pensare che gli omicidi degli Anni di piombo siano stati
ideati da menti diaboliche. Rammenta cosa ha scritto Massimo Fini
poco tempo fa in quell’articolo
che ha fatto tanto incazzare Oreste Scalzone? Riuscita l’analisi
del contesto, ma il fatto che anche lui creda a Leonardo Marino...
Inconcepibile! Delitti come quello di Calabresi si spiegano in modo
assai più semplice. E direi che è proprio questa semplicità che li fa
tragici. La cosa non deve essere stata poi tanto diversa
dall’omicidio Pecorelli, solo che in quel caso Andreotti può aver
detto “O.P. sta a ròmpe er cazzo”,
mentre Lotta Continua ha scritto “Calabresi è un assassino e
pagherà”. Un cretino, uno zelota, un picciotto che vuole diventare
capomandamento – non ha importa cosa – si sente investito di un
mandato, e Andreotti e Sofri di botto diventano mandanti? Cazzate. A
mio modesto avviso, a uccidere Calabresi è stato un militante di
Lotta Continua che faceva parte del servizio d’ordine,
ma non a Milano...».
E
qui fece un nome, ma, subito pentito d’averlo
fatto, aggiunse: «Si tratta solo di un’ipotesi,
ovviamente». E non sembrò bastasse, perché seguì: «Conto sul
fatto che lei dimentichi quel che ho detto». Risposi: «Proverò. In
caso contrario potrà sempre dire che me lo son sognato: lei gode di ottima reputazione, io no».
Materiali
e metodo
«La
persecuzione dà luogo a una particolare tecnica letteraria, in cui
la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le
righe. Questa letteratura è indirizzata non già al lettore
qualunque, bensì esclusivamente al lettore fidato e intelligente. Ha
tutti i vantaggi della comunicazione privata (di raggiungere, cioè,
soltanto i conoscenti dell’autore);
gode i vantaggi della comunicazione pubblica, senza sottostare al suo
svantaggio più rimarchevole (cioè, la pena capitale per l’autore).
Ma come è possibile inverare, pubblicando i propri scritti, un tale
miracolo: quello, cioè, di parlare a una minoranza restando però
muti per la maggioranza dei lettori? […] Tono tranquillo, senza
dare spettacolo e, anzi, perfino un po’
annoiato, in modo tale da ottenere un effetto di assoluta naturalezza
[…] Abbonderebbe in citazioni e attribuirebbe una importanza
spropositata a dettagli insignificanti […] Ma una volta arrivato al
cuore dell’argomentazione,
allora scriverebbe tre o quattro frasi in quello stile terso e vivace
che è in grado di attrarre l’attenzione
di chi ama pensare» (Leo Strauss – Persecution
and the art of writing).
«Nella
copia che Bach inviò al re, sulla pagina che precede il primo foglio
di musica, c’era
la seguente scritta: “Regis Iussu Cantio Et Reliquia Canonica Arte
Resoluta”» (Douglas Hofstader – Gödel, Escher, Bach: un’Eterna
Ghirlanda Brillante).
Sviluppo
L’ultimo
scorcio del 2019 ci ha offerto su Il Foglio un interessante
battibecco tra Adriano Sofri e Giampiero Mughini sul dettaglio che ha
avuto ruolo centrale lungo tutto l’iter
processuale esitato in via definitiva con la condanna di Sofri e
Pietrostefani come mandanti e di Bompressi come esecutore,
in concorso con Marino: il 13 maggio 1972, al comizio in conclusione
al quale sarebbe stato mandato a Marino, piovve, non piovve o prima
piovve e poi spiovve? Interessante per modo di dire, perché, con
tutte le incongruità di cui son state infarcite le versioni date da
Marino, è incredibile che sia ancora questo il punto ritenuto
decisivo, a fronte del fatto che Pietrostefani non era a Pisa il 13
maggio, come invece a lungo sostenuto da Marino, e molto
probabilmente Bompressi neppure era a Milano il 17 maggio, tanto più
che alla guida dell’auto
con la quale il riccioluto Marino affermava di aver condotto
Bompressi in via Cherubini più d’un
testimone riferiva di aver visto un tizio dai capelli lunghi e lisci,
forse una donna, mentre al posto di un Bompressi dai capelli scuri,
dalla pelle olivastra e alto quasi un metro e novanta c’era
un sempronio dalla carnagione chiara, coi capelli di color castano
chiaro, alto intorno al metro e settantacinque. Anche
in questa occasione, d’altronde,
Sofri ribadisce che «la pioggia non era affatto un motivo per
sostenere che io non avessi incontrato il mio accusatore»: poteva
averlo
incontrato, certo, ma questo non provava che gli avesse conferito il
mandato di uccidere Calabresi.
Un
processo costruito tutto sulle dichiarazioni di un pentito
manifestamente inattendibile, costretto a rettificare di continuo le
innumerevoli contraddizioni della sua versione iniziale con
aggiustamenti ancor più contraddittori, senza mai riuscire a offrire
dati di riscontro certi, sennò offrendone di risibili. E questo a voler
sorvolare sulla genuinità degli scrupoli morali che egli diceva
fossero ragione del suo pentimento, e ancor più su come i suoi
ricordi furono rappezzati alla meno peggio in una caserma dei
carabinieri a confezionare un’ipotesi
accusatoria che poteva reggere solo a volergli credere comunque,
qualsiasi cosa dicesse. Non era il caso di invocare lo stato di
diritto, bastava appoggiarsi alla sola logica e i tre andavano
assolti. E invece furono condannati.
Come
fu possibile? Qui un accanito anticomplottista come Bordin ipotizzava
un complotto. Semplifico, ovviamente, perché lui era in grado di
porgere l’ipotesi
in modo assai più elegante: Sofri era vicinissimo al Psi, in
particolare a Martelli; tra Pci e Psi si andava a preparare uno
scontro senza esclusioni di colpi che avrebbe visto il culmine in Mani pulite; la magistratura era schierata
quasi tutta col Pci; e poi Sofri era una pedina da sacrificare senza
farsi troppo scrupoli perché «antipatico», come finì per farsi
scappar di bocca pure il pm che sosteneva l’accusa
al processo d’appello
del 1990. Dell’ipotesi
di Bordin solo quest’ultimo
punto mi è sempre sembrato solido e – so bene che sto per fare
un’affermazione
scandalosa – perfino sufficiente, qui in Italia, a maldisporre un
giudice alle ragioni della difesa. Quindi, di là dal fatto che a
qualcuno Sofri sarà simpatico e a qualcuno no, non sarà superfluo porsi
il problema di quali fossero gli elementi che potessero generare
questa fatale antipatia. Qui torna utile l’articolo
di Fini cui faceva cenno Bordin.
«Negli
anni Settanta tutta l’“intellighentia”
italiana si era spostata all’estrema
sinistra. Non c’era
intellettuale, scrittore, giornalista (con l’eccezione
di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da
terza pagina del Corriere, mondana, mignottina da salotto che non si
dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali,
aveva seguito l’onda.
Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del
Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di
Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande
maggioranza, “figli di famiglia”, erano figli suoi e se li
coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni
non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere
scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una
rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo […] Del
resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una
vittima al giorno e altre ne “gambizzava” come si diceva allora
con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto
Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono “né con lo Stato né
con le Br”. [...] La magistratura non poteva indagare nella
galassia dell’estremismo
extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dall’unanime
coro della “montatura”, della “provocazione”, del
“complotto”. Le piste dovevano essere sempre e solo “nere”.
[…] Persino per l’omicidio
Calabresi si preferì imboccare la strada delle “piste nere” e
perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San
Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta
Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente,
l’assassinio
e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di
destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da
tutto l’ambiente
di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di
Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che
bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo
Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto
tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio,
aveva un “livello illegale” che si occupava quantomeno di far
delle rapine, per finanziare, oltre che con gli “espropri
proletari”, il gruppo. [...] Ma al processo Sofri, Pietrostefani e
Bompressi negarono anche l’esistenza
del “livello illegale”, anche l’evidenza,
e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono
creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti».
Si
può essere d’accordo
o no con questo spaccato sociologico, di fatto, dopo la Marcia dei
Quarantamila del 1980 e dopo il referendum sulla scala mobile del
1985, il clima cambia di colpo, l’anelito
rivoluzionario accusa un repentino riflusso, e – prosegue Fini – «questi
rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a
gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare
battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a
casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro
figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a
telefonare alle loro amiche per organizzare feste in qualche bella
villa, [...] non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro
imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori,
i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono
degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno
nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre
ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione
adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili
costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente
distribuiti fra destra e sinistra».
Comprensibile
che questo fosse intollerabile per chi non poteva digerirli prima, ma
ancor più comprensibile che questo generasse risentimento, per
esempio, in un Marino, che non era riuscito a riciclarsi come un
Liguori, un Panella, un Deaglio, un Guarini, un Capuozzo, un
Miccichè, un Vincino, tutti un tempo lottacontinuisti come lui. Ben
lungi da essere un dato di riscontro oggettivabile, dunque,
l’«antipatia»
di Sofri bastava e avanzava per chiamarlo a pagare in nome e per
conto di tutti quelli che lo avevano avuto a leader carismatico. Può
far orrore, anzi, deve, ma, al pari della «giustizia proletaria»
che non riuscì a trovare altra forma che quella della vendetta per
chiudere i conti con la morte di Pinelli, floppando, anche la «giustizia
borghese» non trovò di meglio per chiudere i conti con la morte di
Calabresi, con un altro flop: la responsabilità morale e quella politica dovevano
coincidere con quella penale, Marino dove esser creduto, perché,
seppure quel 17 maggio 1972 in via Cherubini non c’erano
stati lui e Bompressi, qualcun altro c’era
stato, e il mandato non gli era stato dato a Pisa quattro giorni
prima, ma comunque da Sofri, dalle pagine di Lotta Continua. Ma
ripeto: può far orrore, anzi, deve.
Annotazione
di un sogno
Tornato
a Napoli, quella notte sognai. E sognai chi a pranzo Bordin mi aveva
detto fosse per lui il vero assassino di Calabresi. Mi fissò coi suoi occhi azzurri e disse: «Gli
hai creduto? Sbagli».