Neanche
due ore erano passate dal bollettino col quale la Protezione civile
ci aveva comunicato che i positivi erano 70.065, e 26.676 i
ricoverati, 3.856 quelli in terapia intensiva, e che in isolamento
domiciliare ce n’erano 39.533, e il numero dei morti erano arrivato
a 10.023 – era il 28 marzo – quando, sprizzando euforia da ogni
poro, Urbano Cairo comunicava ai suoi che il Covid-19 aveva aumentato
del 30% gli ascolti de La7,
e li spronava a moltiplicare le energie per cogliere appieno le
grandi opportunità offerte dall’epidemia.
Con
un palinsesto fatto per cinque settimi da talk show – Omnibus
alle 8,00, Coffee
break
alle 9,40, L’aria
che tira
alle 11,00, Tagadà
alle 14,15, Otto
e mezzo
alle 20,35, e poi in prima serata, per quattro giorni a settimana, Di
martedì,
Piazza
pulita,
Propaganda
live
e Non
è l’arena (repliche
su repliche di film visti e rivisti, negli altri tre) – una tv
costa solo due soldi, ma 4-6 blocchi pubblicitari ogni ora ne fanno
una gallina dalle uova d’oro, se c’è l’evento. E qui l’evento
c’era, e sommamente spettacolarizzabile: pigiassero sul pedale
dell’ansia e della commozione, quelli in studio, si dessero da fare
a vendere spazi pubblicitari, quelli in ufficio.
Siamo
onesti, chi poteva indignarsi per un calcolo del genere? Solo chi
coltivasse l’assai
datata idea di bene comune come bene di un corpo sociale
organicisticamente inteso, dove la parte non può e non deve avere
interesse diverso – non necessariamente opposto, anche solo
difforme – da quello del tutto. Idea datata, e tuttavia ancora
assai diffusa. Proprio nei talk show de La7,
per esempio.
Cosa
rendeva odioso, infatti, al pubblico fidelizzato dai talk show de La7,
che qualcuno approfittasse dell’epidemia per maggiorare del 700% il
prezzo dell’Amuchina? Credere nel bene comune come interesse
generale rispetto al quale quello particolare non può e non deve
avere segno diverso. È in nome di questo così inteso bene comune
che a chi oggi traeva un utile dall’evento epidemico, come ieri da
quello sismico, andava l’indignazione dei Formigli, delle Merlino,
dei Floris, tutti, senza eccezione, ma se l’utile
veniva dall’Amuchina.
Non uno, infatti, riuscì a spiaccicare una sola parolina a commento
della patente disparità di segno, nel contesto dell’epidemia, tra
gli interessi del loro datore di lavoro e quelli del paese tutto.
Qualche anno prima, sulle immagini delle macerie de L’Aquila
avevano ritenuto necessario montare l’audio dell’intercettazione
telefonica tra Francesco Piscicelli e Pierfrancesco Gagliardi,
imprenditori edili euforici al pensiero dell’utile che avrebbero
potuto trarre dalla ricostruzione. Coerenza non avrebbe voluto che
sulla colonna di camion carichi di bare per le strade di Bergamo si
montasse l’audio dell’euforico Urbano Cairo esortare i suoi a
«darci
dentro»,
a «stare
in pista»,
perché «oggi
abbiamo la grande opportunità di fare meglio dello scorso anno»?
Forse,
ma non si poteva pretendere, come brillantemente ci spiegò il
Mantellini, al quale – avrete compreso – qui ormai guardiamo come
a un maître
à penser:
«Comprensibile
[il]
silenzio
dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il
resistere del proprio stipendio, così come la grande cautela di
molti altri, quelli che forse ora da tali risorse non dipendono, ma
chissà poi domani, che il mondo è piccolo ed è meglio stare
cauti».
Chi, allora, se non in nome del bene comune, almeno in nome
dell’onestà intellettuale, era autorizzato a indignarsi? «Quelli
che non hanno molto da perdere, perché abitano già la terza classe
della nave semiaffondata della cultura italiana, sia che lavorino nei
media, coi libri o sui giornali, o perché sono iscritti alla curva
sud del più intransigente purismo culturale».
Dovremmo
concludere che la coerenza, se non l’onestà intellettuale, è un
lusso che possono permettersi solo i fanatici o gli sfigati? Tutto
dipende dal credere o meno nel bene comune come la Grande Sineddoche
che ci dà la parte per il tutto, e viceversa.
Qui,
però, occorre rilevare qualche contraddizione. L’indignazione per
la maggiorazione del prezzo dell’Amuchina, infatti, è senza dubbio
un elemento di drammatizzazione dell’evento epidemico, che sul
piano mediatico contribuisce a spettacolarizzarlo. Ecco che, allora,
questa indignazione si mette al servizio di un bene particolare che
ha segno opposto a quello del tutto.
Stessa
contraddizione rilevabile in chi considera «comprensibile
[il]
silenzio
dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il
resistere del proprio stipendio, ecc.»,
il che denota grande indulgenza nei confronti di un bene particolare
che ha segno opposto a quello del tutto (con implicita ammissione
dell’aleatorietà della Grande Sineddoche), e nello stesso tempo si
commuove dinanzi alla prova di senso civico data dagli «automobilisti
che guidano da soli con la mascherina inutilmente indossata»,
che dunque potremmo definire coerenti nella fede del bene comune come
bene del tutto, e cioè fanatici o sfigati. Qui, commoventi.
Patetici, invece, quando indignati perché i conduttori dei talk show
de La7
non
si sono dimostrati equanimi nello stigmatizzare chiunque abbia
lucrato sull’epidemia.
E
però – sappiamo - «very
well then I contradict myself / I am large, I contain multitudes».
E allora la questione trascende i conduttori dei talk show de La7
(Alessandro
Guerani ne ha dato una definizione tanto acuta quanto lapidaria: «la
coscienza infelice della piccola borghesia»)
e anche il buon Mantellini, per mettere in discussione la
titolarità di chi contains.
In altri termini, di come e quanto la Grande Sineddoche possa reggere
a fronte dell’evento epidemico. Ancora più esplicitamente: se
esista veramente, o no, un bene comune che ci possa ridare il corpo
sociale come unità organica. Perché a me pare evidente ci sia chi
col lockdown non ha perso niente, anzi, ci ha persino guadagnato
qualcosa.
E non mi riferisco tanto a chi ci ha guadagnato in termini economici,
ma a chi sta tentando di ricavarne una rendita morale (dove il
termine qui rimanda ai mores,
e cioè ai costumi che dettano etica). In un tweet ho parlato di
«orfani
dell’epidemia»,
riferendomi a quanti nelle condizioni (im)poste dall’emergenza
hanno trovato modo di poter candidare un interesse tutto personale a
interesse generale. È chiaro che dovremo farci carico di queste
vittime della fine dell’epidemia
con la stessa cura che riteniamo indispensabile per le vittime
(sanitarie ed economiche) dell’epidemia.
Chiaro, altresì, che questo implicherà il prendere atto che il
corpo sociale non è Uno. E questo potrà causarci qualche vertigine,
come quando scoprimmo...
Quando
scoprimmo che erano stati degli Elòhim
a dire: «Sia
la luce!» (Gen
1, 3), e non un Elòhah,
il Librone quasi ci cadde di mano: Dio era sempre stato Uno, cos’era
adesso questa novità?
Stessa
vertigine di quando su Le
Scienze
leggemmo che l’Io era solo l’artefatto risultante da una
complessa serie di funzioni cerebrali integrate: avevamo già
concesso per tempo che fosse ambiguo, contraddittorio, sfuggente,
ultimativamente insondabile, ma rinunciare al fatto che la prima
persona singolare fosse quel bel Tutt’Uno cui eravamo abituati da
millenni, con quanto a premessa e a conseguenza, onestamente era
troppo.
Due
mazzate micidiali, ma in qualche modo ci riprendemmo, perché, ok,
Elòhim
è plurale, ma plurale accrescitivo – ci spiegò il teologo – e
dunque non sta in luogo degli dei pre-abramitici adorati dalle tribù
che si affacciavano sul Giordano, ma di un unico Elòhah
alla sua massima potenza, fa niente che poi questo Elòhah
somigli in modo impressionante a Kemosh, quando si incazza, ad
Astarte, quando è bonario, a Moloch, quando pretende sacrifici, ecc.
Anche
queste
neuroscienze, poi, che vogliono? Sapevamo già – ci spiegò il
poeta – che «I
contain moltitudes»,
ma chi resta il soggetto di «contain»?
Sempre «I»,
no? E allora dov’è il problema? Sarà molto sfaccettato, ma l’Io
resta monolite.
Venga
pure la vertigine, dunque, dinanzi alla sorpresa che il cosiddetto
bene comune non è mai comune, ci riprenderemo col considerare che
comune – di sponda – lo diventa sempre.
[segue]
So che Cairo non è il punto ma il puntello del ragionamento, ma me lo lasci dire: quell'uomo è riuscito a farmi tifare Juve quando c'è il derby di Torino.
RispondiEliminai concetti di "io" e di "bene comune" sono finzioni ma finzioni necessarie. Un po' come il "buongiorno" quando si entra in un negozio o in un ufficio.
RispondiElimina...
RispondiEliminaStanislaw credeva in Dio soltanto perché aveva mandato al supplizio il suo unico Figlio, cioè se stesso, e aveva nell’agonia della morte sussurrato con labbra umane parole di disperazione estrema. Una mancanza completa di logica nella religione cristiana era l’unica possibile logica della fede.
da “Partisan Review” 1997 - Czeslaw Milosz
mah, io la farei più semplice, dicendo che il bene comune è semplicemente la somma degli interessi che si presume abbiano in comune un certo numero di persone, per esempio i cittadini di uno stato. Nulla rileva il fatto ovvio che ognuna di queste persone perseguira' il bene comune solo nella misura in cui non confligga con propri interessi particolari ritenuti più rilevanti o che ne dia l' interpretazione ritenuta più congrua ai propri interessi particolari. È ragionevole dire che lo sviluppo di un'azienda rappresenti il bene comune degli azionisti, anche se sul modo di raggiungere questo sviluppo ci saranno pareri discordanti e magari qualcuno remera' pure contro essendo azionista anche dell'azienda concorrente. Ma non mi pare proprio il caso di tirare in ballo la società organica o cose del genere...
RispondiEliminaha fatto benissimo Cairo a spronare i suoi venditori di pubblicità
RispondiEliminaMa certo, caro Mauro, il problema infatti non è Cairo.
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