Ignorato
dal Treccani, dal Devoto-Oli e dal De
Mauro, il lemma cacozelo (dal greco κακός
ζήλος) è definito «inusit. a noi» perfino
dal Tommaseo, e sta per «imitazione o emulazione
di quel che è vizioso, o men bello per affettazione di
bellezza», anche se la sua miglior definizione è in
Quintiliano (Institutionum Oratoriarum Libri Duodecim,
VIII, 56-58), per il quale sta nel ricorso alla congerie
delle «tumida et pusilla et praedulcia et abundantia et
arcessita et exultantia» ed è perciò «omnium in
eloquentia vitiorum pessimum», perché «mala
adfectatio», aspirazione (al bello) con esito infelice (di
caduta nel lezioso). Col cacozelo, insomma, possiamo
dire che siamo al più goffo infortunio dell’artificio
retorico: l’eloquenza manca il suo fine e si esaurisce in
ostentazione compiaciuta della sua vacua ridondanza.
A
parte, sarebbe da considerare che nel Tommaseo, come
d’altronde dà conto il Pianigiani, l’«affettazione» è
già il fine mancato cui mirava la pretensione dell’«adfectatio»:
nella retorica dev’essere accaduto qualcosa – vedremo
cosa – che ha fatto prendere coscienza delle infauste
conseguenze delle eccessive libertà che, col passaggio dal
Rinascimento al Barocco, la Maniera si è presa nei confronti della
Misura. Basti pensare a come il severo giudizio di Quintiliano
si ammorbidisca, e di molto, nel Seicento. Per François de La Mothe
Le Vayer, ad esempio, «quelli che si sottomettono troppo
scrupolosamente a tutti precetti dell’arte [retorica] senza
volerne trasgredire alcuno sono simili a quei funamboli o ballerini
sopra la corda, che contano i passi che fanno e stanno in apprensione
continua di cadere. Questo timore gl’impedisce di sollevarsi
in alto e, non pensando che a tenersi lontani dal vizio, trascurano
sovente le parti più nobili e più cospicue dell’eloquenza.
Non è per tanto che debbansi sprezzare le sue regole [...] [ma],
ancorché le ridondanze o le superfluità siano molto viziose, le
magrezze e le aridità del discorso lo sono ancora molto più» (Scuola
de’ prencipi e de’ cavalieri, cioè la geografia, la
rettorica, la morale, l’economica, la politica, la logica, e la
fisica; cavate dall’opere francesi del sig. Della Motta Le Vayer,
che le ha distese per istruzione di Luigi 14. re di Francia, tradotte
nella lingua italiana dall’abbate Scipione Alerani - In
Bologna, per Giacomo Monti, 1677).
Ma
qualcosa accade – dicevamo – con l’uscita
dal Barocco, anzi non è di troppo azzardo il ritenere che se ne esca
proprio per ciò che accade: il retore cambia ruolo sociale, non
importa quale sia il suo foro. Non è una scelta: è la società che
gli cambia d’attorno, e in primo luogo si trova dinanzi un
altro uditorio. Per meglio dire: l’argomentazione impone regole
nuove. In altri termini: si vanno ponendo le basi alla nascita della
logica proposizionale, nella quale «le parti più nobili e
più cospicue dell’eloquenza» stanno nella
capacità di dimostrare, piuttosto che in quella di mostrare. Ne è
prova il fatto che la metafora, dapprima considerata banco di prova,
lascia il posto all’analogia, che ben presto sarà guardata
anch’essa con sospetto. Non a torto, perché anche oggi che non è
affatto bandita dalle terre del «dominio
retorico» è l’ultimo rifugio il cui
il cacozelo riesce a trovare accoglienza.
Mi domando quale sia la sottile perversione che induca o istighi una persona ad avere la necessità di dissertare intorno al cacozelo.
RispondiEliminaScreanzato, come si permette di definirla "sottile"?
RispondiEliminaMi ricorda un pò l'erudizione e la scrittura di Franco Cordero (non so se può costituire un complimento). Molto bravo sig.Castaldi, molto fine.
RispondiEliminaleo