Parlare
del film di Paolo Sorrentino dopo che ha vinto l’Oscar è assai più difficile di
quanto lo fosse prima. Anche prima, d’altronde, non era facile, perché sembrava
fatto apposta per essere candidato a vincerlo. Non saprei dire se già nel
momento in cui veniva scritto, ma certamente nel momento in cui veniva girato, era
un film che rincorreva il giudizio favorevole che avrebbe dovuto darne il
pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Premio meritatissimo,
dunque, perché il film dimostra di aver pienamente corrisposto al fine per cui
era stato concepito, con encomiabile controllo del mezzo artistico.
Di fatto, quando questo accade, il portato artistico, se c’è, diventa invisibile. Difficile afferrarlo, impossibile dire di averlo afferrato. Si resta impigliati in una battuta, in una immagine, le si dà il valore di una chiave, la si infila nella toppa, ma non si apre niente. Così, dovessi dire dove volesse andare a parare, il film, manco per niente. Affresco allegorico? Apologo morale? Elegia? Può darsi, e no. In più, non appartengo al pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Per dire, non uno dei film che mi sono più piaciuti – e parlo di Alfred Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Orson Welles – ha mai vinto la statuetta placcata d’oro.
Non vorrei essere frainteso, però. Non dico che La grande bellezza sia stato pensato e realizzato al solo scopo di ottenere l’Oscar e ciò che il premio rappresenta in termini di profitto per l’autore e il produttore: anche per questo, ovviamente, ma in primo luogo per andare incontro al particolare genere di consenso che produce questo particolare genere di profitto. In altri termini, il film di Paolo Sorrentino non aveva alcuna aspirazione di parlare a tutti, come di solito è nelle ambizioni di un artista, ancorché velleitarie o forse, proprio per ciò, e così spesso, velleitarie: si rivolgeva a un pubblico ben preciso, anche se assai vasto, e cercava di ottenerne il consenso secondandone l’immaginario. Ancora più esplicitamente: era un film da esportazione destinato al pubblico che della città di Roma ha proprio l’idea cui la pellicola ha dato corpo in immagini.
Un film per turisti, potremmo dire, ma sarebbe ancora troppo generico. Direi fosse un film per turisti intenzionati a tornare a casa con l’idea che li aveva accompagnati alla partenza, però arricchita da un gran numero di evocazioni e rimandi, frattali della loro idea di Roma, non solo come straordinario magazzino di vestigia del passato, ma come sintesi emblematica di quell’italianità che è cifra distintiva dei più datati depliant. Non solo turisti stranieri, dunque.
Non che questa italianità sia mero prodotto letterario, tutt’altro. Prende i tratti letterari di quello che solitamente è detto carattere, ma trova rispondenza in quei luoghi comuni che gli italiani si sforzano di incarnare, anche se sempre più pigramente, per una crescente fatica che arrischia il micidiale. Le numerose citazioni felliniane in cui Paolo Sorrentino ha manifestamente cercato e trovato compiacimento avevano il solo fine di dissimulare questa fatica in una connaturata accidia. Perciò potremmo dire che l’Oscar a La grande bellezza è un premio non solo a Paolo Sorrentino e alla sua indubbia bravura, ma anche a quegli italiani che con eroicomica determinazione sgomitano per entrare nell’inquadratura. Del tutto naturale che gioiscano del premio.
Di fatto, quando questo accade, il portato artistico, se c’è, diventa invisibile. Difficile afferrarlo, impossibile dire di averlo afferrato. Si resta impigliati in una battuta, in una immagine, le si dà il valore di una chiave, la si infila nella toppa, ma non si apre niente. Così, dovessi dire dove volesse andare a parare, il film, manco per niente. Affresco allegorico? Apologo morale? Elegia? Può darsi, e no. In più, non appartengo al pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Per dire, non uno dei film che mi sono più piaciuti – e parlo di Alfred Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Orson Welles – ha mai vinto la statuetta placcata d’oro.
Non vorrei essere frainteso, però. Non dico che La grande bellezza sia stato pensato e realizzato al solo scopo di ottenere l’Oscar e ciò che il premio rappresenta in termini di profitto per l’autore e il produttore: anche per questo, ovviamente, ma in primo luogo per andare incontro al particolare genere di consenso che produce questo particolare genere di profitto. In altri termini, il film di Paolo Sorrentino non aveva alcuna aspirazione di parlare a tutti, come di solito è nelle ambizioni di un artista, ancorché velleitarie o forse, proprio per ciò, e così spesso, velleitarie: si rivolgeva a un pubblico ben preciso, anche se assai vasto, e cercava di ottenerne il consenso secondandone l’immaginario. Ancora più esplicitamente: era un film da esportazione destinato al pubblico che della città di Roma ha proprio l’idea cui la pellicola ha dato corpo in immagini.
Un film per turisti, potremmo dire, ma sarebbe ancora troppo generico. Direi fosse un film per turisti intenzionati a tornare a casa con l’idea che li aveva accompagnati alla partenza, però arricchita da un gran numero di evocazioni e rimandi, frattali della loro idea di Roma, non solo come straordinario magazzino di vestigia del passato, ma come sintesi emblematica di quell’italianità che è cifra distintiva dei più datati depliant. Non solo turisti stranieri, dunque.
Non che questa italianità sia mero prodotto letterario, tutt’altro. Prende i tratti letterari di quello che solitamente è detto carattere, ma trova rispondenza in quei luoghi comuni che gli italiani si sforzano di incarnare, anche se sempre più pigramente, per una crescente fatica che arrischia il micidiale. Le numerose citazioni felliniane in cui Paolo Sorrentino ha manifestamente cercato e trovato compiacimento avevano il solo fine di dissimulare questa fatica in una connaturata accidia. Perciò potremmo dire che l’Oscar a La grande bellezza è un premio non solo a Paolo Sorrentino e alla sua indubbia bravura, ma anche a quegli italiani che con eroicomica determinazione sgomitano per entrare nell’inquadratura. Del tutto naturale che gioiscano del premio.
Mi spiace, ma l'hai proprio pisciato :) Il film di Sorrentino racconta, anzi mostra che è difficile raccontare, lo sfacelo di una classe dirigente ed intellettuale che è fatta di cadaveri che camminano, persone non in grado di incidere nella realtà e prese a credersi il centro di un mondo che è solo autoreferenziale, vedi la decostruzione dell'intellettuale impegnata e madre di cinque figli, che poi i figli glieli vede la tata, il marito è gay e pranza ogni giorno con l'amante, i suoi libri glieli ha pubblicati la collana editrice del partito, per merito della sua relazione con il segretario dello stesso.
RispondiEliminaLa Grande Bellezza è il Gattopardo, ai nostri tempi, e Jep Gambardella è, sotto sotto, il marchese di Salina.
Ah, bene, dunque è un film di denuncia. Gentilmente, mi spieghi anche tutto il caricatore di diapositive?
EliminaLa Grande Bellezza sta al Gattopardo come, in termini letterari, Tomasi di Lampedusa sta a Diego da Silva.
EliminaQuesto post centra perfettamente la difficoltà di decostruire un film tecnicamente ineccepibile (Sorrentino è un grande specialista nell'inquadrare Audi e BMW) , ma con qualcosa che che non va, una nota falsa che risuona dall'inizio alla fine. La difficoltà sta forse proprio nel fatto che, anche così, il film è una spanna superiore alla media.
Infatti a me è piaciuto. E di ciò mi sono dispiaciuto. E di questo dispiacermene mi sono dispiaciuto ancor di più.
EliminaNon sono sicuro di capire. Forse è questione di aspettative, non saprei.
EliminaForse, cioè, guardare un prodotto tecnicamente ineccepibile, una spanna (ma più probabilmente due o tre) sopra la media, è bastato a darmi ragione della nota falsa, che pure non ho potuto fare a meno di sentire.
O meglio: se non fosse stato per quei due o tre punti del film in cui il tempo è meno che perfetto, forse mi sarei convinto di essermela sognata, la nota falsa, o magari non l'avrei neanche notata.
Senz'altro al film manca qualcosa; cosa però da questo si possa dedurre riguardo al pubblico, mi sfugge completamente.
mmmhh no. Il lavoro precedente di Sorrentino, this must be the place, era esattamente quel da lei descritto. Un film assolutamente ammiccante, fatto per essere venduto ed esportato.
RispondiEliminaQuesto è molto meglio, cade ogni tanto sugli stereotipi (forse lì ad arte, forse no), ha parecchie parti deboli, ma non passa il suo tempo a far vedere allo spettatore esattamente quello che vorrebbe vedere.
PS
sul giudizio degli Oscar mi accodo. Anche solo per rispetto a Kubrick.
Credo che il film sia piaciuto per gli aspetti che sottolinea, Castaldi, ma non credo che il film sia bello in virtù di questi. Si intreccia un uso ben studiato della fotografia ('sto film sarebbe bello solo da vedere) con ciò che si crede di intuire della vita di Jep. Poi ci sarebbero anche cose di denuncia (ma poi: denuncia? Tutte le volte che si mostra la nuda realtà si "denuncia"?), tipo la drammaticamente vera festa iniziale.
RispondiEliminaa me il film è piaciuto. Sospetto altresì che parecchie critiche sian venute dal settore italiano teatranti - irrisi dall'esilarante Talia Concept della testata nella colonna ( che a me ha ricordato molto non Marina Abramovich, bensì Mariangela Gualtieri in 'Antenata II') . ma pure da quello dei giornalisti partitici pseudosatirici ( a me la giornalista intepretata da Galatea Ranzi non ha ricordato Conchita De Gregorio, bensì Lia Celi)- Condivido la Sua osservazione circa lo sgomitare per entrare in campo: pensi a quanti sgomitarono per Crialese e Ozpetek, quando pareva costoro dovessero entrar nella cinquina dell'Academy. Con film che per nulla mi piacquero, tra l'altro. Stia bene, sempre utile passar di qua. Ghino La Ganga
RispondiEliminaIn effetti i momenti in cui certa pretenziosa "avanguardia" de noantri viene presa a sberleffi sono tra i più divertenti e meritatamente crudeli del film.
EliminaNon ricordo chi ha detto che l'avanguardia nasce già vecchia, sentenza parecchio azzeccata.
Il film ha momenti di purissima bellezza visiva. Intorno a questi momenti, sembra quasi che la vita dei personaggi abbia pochissima importanza. Forse in fondo il "messaggio" del film è proprio questo.
Stamm' sott' o cielo. Sembra tutto qui, alla faccia di Marina Abramovich, Mariangela Gualtieri Lia Celi e pure Conchita de Gregorio.
Esegesi a parte, non ci siamo risparmiati l'ennesima figura di m davanti a Hollywood Sorrentino e l'inglese : " I uant tu denghiù de academy" ma pagatelo sto' corso di inglese! ( concorrenti in pool position : palestinesi, danesi e khmer rossi )
RispondiEliminaPer l'anonimo qua sopra:
Eliminain effetti, durante il modesto corso di inglese che frequentai anni fa mi spiegarono che si scrive "pole position". Era tuttavia un corso di inglese assai modesto, lo riconosco. Stia bene, un caro saluto al Padrone di Casa.
Ghino La Ganga
Complimenti per la rasoiata, Ghino.
EliminaOh beh se siamo al momento del tiro al piccione mi iscrivo!
EliminaFiguriamoci che, a proposito di corsi, se io negli anni in cui le suore si occuparono dell'avvio della mia formazione avessi scritto sto' con l'apostrofo in coda, come minimo m'avrebbero tolto dalla lista dei bimbi ai quali davano il ghiacciolo di nascosto in cucina nell'attesa dello scuolabus, creandomi più traumi con quel gesto che con qualsiasi brutto voto davanti a tutti e una notevole fatica a scalare la società in tutti gli anni successivi per irrecuperabile difetto d'autostima.
Peccato non sia destinato a prendere oscar, nella dichiarazione di rito lo disegnerei con le mani l'apostrofo, al solo riaffiorare del ricordo del rischio corso.
Stesso corso a Salisbury di qualche tempo fa. Il 'pool' è il gioco del biliardo americano. Il tema non è il mio inglese, ma quello di Sorrentino che è la nostra avanguardia in USA.
RispondiEliminaVisto. Bello. Crepuscolare. La dolce vita cinquant'anni dopo. La ricerca del tempo perduto. Grande empatia con Jep. Un mondo vecchio tutto di vecchi. La fine della speranza.
RispondiEliminaLB
però la santa poteva risparmiarsela. In un film dove non se ne salva uno e che parte con Cèline, m'è sembrato un tocco misto di paraculaggine e politically correct. Italianissimo, insomma...
EliminaIl film è allegorico e fortemente simbolista (ricordo il treno che entra nella galleria de "La città delle donne" di Fellini. Come dice giustamente Marcello - che combinazione! -, in un commento più sotto, gli evidenti temi felliniani "chiudono la strada a qualsiasi tipo di originalità" e questo purtroppo costituisce il vero limite del film. Bisognerebbe individuare la corretta chiave di lettura per la "santa", così come per altri personaggi di contorno (ad es. il "chirurgo plastico", il "cardinale", "il mastro di chiavi", "il lanciatore di coltelli", "la bambina astrattista") che non è certo quella cattolico confessionale.
EliminaLB
A me è piaciuto, il film in questione. Certo, l'atmosfera e i temi felliniani, che ne sono parte integrante (Gambardella è la versione moderna del Guido Anselmi di 8½), chiudono la strada a qualsiasi tipo di originalità; tolto questo, però, il ritratto di una certa società romana - alta e presuntivamente impegnata a vario titolo nella cultura - la quale spesso è come sabbia nel serbatoio della creatività di un artista, è reso magnificamente. Se nel semplicistico immaginario americano Roma (o Parigi...) è perennemente vista come inevitabile fonte d'ispirazione per chi decide di campare della propria arte, Sorrentino mostra finalmente come non sia così, o non sia più così, e che anzi in cima alle vestigia di cotanto passato è facile trovare frivolezza, apatia, vuoto. Mix, questo, che elude per lungo tempo a Jep Gambardella la propria lucidità artistica. "Me ne vado, Roma m'ha deluso", "Roma ti fa perdere un sacco di tempo": questo è il tono - rassegnato e accusatorio - col quale i personaggi sorrentiniani si rivolgono al loro ambiente privo di stimoli. Lo stesso che, comunque, non vogliono smettere di frequentare. In questo senso, probabilmente, la pellicola è un atto d'accusa nei confronti d'una classe intellettuale ipocrita, immobile. Oppure non lo è. È solamente una lirica constatazione d'impotenza. Gambardella, per uscire dall'impasse, dovrà guardarsi dentro. Non intorno.
RispondiEliminaSe qualche elemento d'accusa c'è, ammesso che ci sia e non si tratti piuttosto d'una impotente, corale, semplice presa d'atto, è nei confronti di quella provincialità tipicamente italica che fa credere agli italiani d'essere al centro dell'attenzione del mondo mentre nei luoghi che ne costituiscono effettivamente il cuore pulsante manco s'accorgono che esistiamo. Stessa comica provincialità che puoi trovare tale e quale a Venezia e, presumo, in molte altre capitali regionali del Belpaese, immerse nel loro passato e oramai prive di qualsiasi futuro che non sia mera opera di restauro delle cariatidi (l'inutile "chirurgo plastico" da 700 euro a botta, che diventano dispettosamente 1.200 nei confronti di una irrecuperabile Serena Grandi/Anita Ekberg).
EliminaLB
il corso d'inglese è un must, ma poi a noi italiani che scimmiottiamo quasi tutto ci manca di scimmiottare l'accento e così diremo sempre denghiù.
RispondiEliminarimango perplessa anche da altri stereotipi che hanno fomentato questo happening culturale con tanto di pizza, forse c'era anche qualche mandolino nascosto fra un sedile e l'altro...