Quando
Gianfranco Ravasi apre a coda di pavone il ventaglio di citazioni dotte che
solitamente infarciscono i suoi articoli, viene il sospetto che sia mosso esclusivamente
dalla premura di dimostrarci che non tutti i preti sono zotici, il che ci
intenerisce pure, ma spesso non basta a farci giungere in fondo al pezzo. Così la
scorsa settimana, su Domenica de Il Sole-24 Ore, dove, per recensire
una tragedia in
tre atti di Ermanno Bencivenga (Abramo
– Aragno, 2014) liberamente ispirata all’episodio biblico del sacrificio di
Isacco (Gen 22, 1-19), Sua Eminenza
ha trovato modo di infilarci Davide Maria Turoldo, Rembrandt van Rijn, Marcel Proust, Benozzo Gozzoli, Linard de Guertechin,
Leszek Kolakoski, René Girard, Immanuel Kant, Soren Kierkegaard… Non fosse stato per quel titolo così
intrigante (Tragico epilogo di una fede
ottusa), giunti a metà del pezzo, avremmo girato pagina. Grazie a quel
titolo, invece, siamo andati avanti nella lettura e facendoci largo tra le
citazioni, che probabilmente volevano dare autorevole argomentazione all’assunto
che «ottuso è bello», abbiamo potuto farci una mezza idea del libro recensito.
Ermanno
Bencivenga immagina che le cose vadano diversamente da come ce le racconta la
Bibbia, che Abramo esegua l’ordine divino e sgozzi Isacco, per poi avere l’agghiacciante
rivelazione, e proprio da chi gli ha comunicato quell’ordine, che non fosse da prendere
alla lettera: «La prova era avere abbastanza fede in Dio da saper rifiutare
quelle parole perché la tua fede ti insegnava che non potevano venire da Lui,
non potevano essere quel che Lui voleva da te».
Costruzione letteraria
affascinante, ma che non regge sul piano dell’antropologia veterotestamentaria:
Jahvè ha la rozza logica del pastore che dispone a piacimento delle sue pecore,
non lascia loro margine a interpretare le proprie volontà diversamente da come
sono espresse letteralmente, tanto meno a interpretarle in modo opposto. Jahvè
manda un angelo in extremis a fermare la mano di Abramo, ma prima vuole avere
la prova che i suoi ordini siano stati recepiti come categorici, per quanto insensati o atroci possa essere apparsi a chi li ha ricevuti: trae forza esclusivamente dalla paura e dalla soggezione, e forse è proprio in ciò che si rivela come più fedele proiezione del portato psicotico che lo ha prodotto.
Per dirla come la dice Paolo nella Lettera ai
Romani, Jahvè pretende che in Lui si abbia fede «sperando contro ogni speranza»
(Rm 4, 18), annullando nella fede ogni ragione, annullando nell’amore per Lui
ogni altro sentimento: Jahvè pretende tutto e, quando chiede «spes contra spem»,
esige
l’estremo sacrificio,
l’unica cosa a potergli dar modo di esistere.
Dunque, quando l'altra sera, assistendo alla serie Tv "Gomorra", s'è visto don Pietro Savastano (Fortunato Cerlino) pisciare nel bicchiere e farne bere il contenuto al suo fido braccio destro Ciro Di Marzio (Marco D'Amore), colpevole solo d'aver tentato di raccontargli una frottola a fin di bene, si sarebbe trattato dell'ennesima reiterazione dell'atavica sacertà del rapporto "padrone-servo" esistente nelle comunità primitive, come nell'episodio biblico tra Jahvè e Abramo?
RispondiEliminaLB
La logica del comando è la logica del comando, ed è la stessa alla base del rispetto della gerarchia delle fonti del diritto. Quello che può essere rozzo è il contenuto del comando. In fase di creazione/discussione della gerarchia stessa, probabilmente imporre comandi rozzi e vederli eseguiti garantisce il rispetto di comandi successivi potenzialmente più funzionali. Il rischio però è di prenderci gusto.
RispondiEliminaNon vedo, fra i citati da Ravasi, S.Paolo, che tu giustamente richiami. Suppongo che sia una tua dimenticanza, perché se veramente avesse trascurato l’Epistola ai Romani quando poi cita Kant e Proust, dovremmo pensare che l’omissione sia un omaggio gesuitico alla gesuiticità del Capo.
RispondiEliminaL’Epistola ai Romani è stata, come sappiamo, fonte di imbarazzo per la Chiesa. Lo stesso S.Paolo ètuttora bene occultato ai fedeli (punta massima di quello che tu chiami analfabetismo religioso dei cattolici, che è analfabetismo fermamente voluto). Il fatto stesso che non abbia un giorno tutto per lui nel calendario, e che sempre scompaia nel cono d’ombra di Pietro, non può essere casuale. D’altra parte, una lettura non guidata di questo autore potrebbe facilmente condurre a dubbi sul suo equilibrio mentale: e sarebbe pure il meno, perché, se lo prendiamo per savio, ci mena dritti dritti a Lutero.
Tutto ciò posto, non trovo che la tesi della “tragedia in tre atti” che Ravasi sente il bisogno di recensire sia eterodossa. Infatti, porta a conseguenze drammatiche quello che è il senso del cristianesimo: Dio che gioca a nascondino, per vedere se abbiamo fede, e (beninteso a Sua discrezione) premiarci se ce l’abbiamo. Anche l’eventuale variante di manifestarci esplicitamente un suo volere, per verificare se abbiamo capito che scherzava, va nella medesima linea. Un po’ crudelino, diremmo. Ma si sa, mica è ancora Dio: è Jahvè.
Post molto ben costruito.
RispondiEliminaOgni riferimento al Dettomarco è puramente voluto e lo inchioda, a conclusione di una successione logica stringente e incalzante, alla sua dimensione psicotica e al rapporto sempre più malato e malsano, diciamo 'terminale', che lo lega ai devoti.
"Jahvè pretende tutto e, quando chiede «spes contra spem», esige l’estremo sacrificio, l’unica cosa a potergli dar modo di esistere."
Appunto.
Se non mi sbaglio nel martirologio romano sono ricordati il 26 giugno, entrambi infatti martirizzati.
RispondiEliminaTortura e martirio nella cultura del primo cristianesimo sono visti come suggello definitivo della fede; l'incontro nel circo con le belve era la scorciatoia per raggiungere la meta desiderata.
[...] lettura non guidata di questo autore potrebbe facilmente condurre a dubbi sul suo equilibrio mentale [...] Volare da cavallo, magari in corsa, non è una bella
cosa eh... deve aver fatto un bel volo.
In effetti le gerarchie tendenzialmente occultano, sapendo perfettamente che 'il gregge' si fa occultare senza particolari resistenze. Del resto l' 'extra ecclesiam nulla salus' è uno slogan che è venuto buono per decine di altri prodotti.
Certo che il Dio perfetto, che crea un uomo imperfetto per fargli correre il rischio di una punizione infernale non mi sembra un gran risultato. L'Oriente, a differenza delle religioni desertiche, risolve il tema in un modo più disteso, meno tragico. Almeno all'apparenza.
Le perduranti ' reiterazioni dell'atavica sacertà del rapporto padrone-servo ' sono la dimostrazione che dai presupposti della comunità primitiva non ne siamo mai usciti.
Lr