La
psicologia sociale piscia come un colabrodo, però, detto così, il
concetto suona male. Diciamo, allora, che per la natura stessa del
sociale, prodotto
di fattori molto spesso assai difficilmente quantificabili e quasi
sempre solo assai approssimativamente qualificabili, sembrerebbe
ampiamente
giustificato lo scetticismo sull’efficacia
del metodo scientifico applicato allo studio dei suoi svariati
ambiti, e in primo luogo di quelli in cui il sociale si offre come
oggetto di ricerca psicologica, dove i risultati, quand’anche
consentano la costruzione di modelli spesso assai suggestivi, di
regola non rispondono ai requisiti di oggettività, affidabilità,
verificabilità, condivisibilità e predittività, sui quali
comunemente si misura il metodo scientifico, tutt’al
più rispondendo a quello di inficiabilità (termine che ritengo sia
da preferire a quello di falsicabilità, la popperiana
Fälschungsmöglichkeit,
che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti), se non fosse che
è questione ancora aperta se sia scienza solo ciò che
permanentemente inficiabile (Karl Popper, Logik
der Forschung,
1934) o ciò che di un modello riesce a fare un solido paradigma
(Thomas Kuhn, The structure of scientific revolutions,
1962).
Così, forse, suona meglio, resta di fatto che, nonostante
Gustave
Le Bon (Psychologie
des foules,
1895), Gabriel
Tarde (L’opinion
et la foule,
1901), Floyd
Allport (Social
psychology,
1924), Theodore Newcomb (Personality
and social change,
1943), Solomon Asch (Social
psychology,
1952) e Stanley Milgram (Obedience
to authority,
1974), sul conformismo la psicologia sociale piscia come un
colabrodo: ne sappiamo tutto, tranne come si realizza. Sappiamo cosa
ne causa la propensione, cosa ne regge la tensione, cosa ne induce la
precipitazione, cosa ne favorisce la diffusione, cosa ne rende
possibile la cristallizzazione, tanto per riprendere lo schema
proposto da Neil Smelser (Theory
of collective behavior,
1963), ma non abbiamo alcun modello scientificamente valido per
rappresentarcene il divenire, solo profili che potremmo dire
letterari (in fondo pure il caso clinico e la storiografia sono
generi letterari), che per lo più ricalcano il ritratto
dell’individuo
o la
descrizione
della
massa affetti da pulsione gregaria (Sigmund Freud, Psicologia
delle masse e analisi dell’Io,
1921). È così che del conformismo sappiamo cause ed effetti, forme
e modi, ma poco più di niente sappiamo sul come si realizza. Per
meglio dire, ci manca una teoria del suo sviluppo: a fronte di
innumerevoli esperienze individuali e collettive che per
emblematicità ci illudono di poterne ricavare una, ci manca.
Così,
guardando Barbara D’Urso
che intervista Matteo Renzi, si ha l’impressione
di poterne costruire un idealtipo – «il
conformismo
– ci si azzarda a dire – si
realizza come resa per sfinimento della capacità critica»
– ma subito si è costretti a una rettifica – «il
conformismo
– ci si corregge – si
realizza come voluttà di resa»
– ma pure così non si va più in là dell’empirico:
ad ogni applauso il mostro cresce, ma su ciò che accade sotto le
file di scaglie che scivolano l’una
sull’altra
distendendosi a ventaglio – su ciò che ingrossa questa ributtante
bestia che ciclicamente esce dalla preistoria per esigere il tributo
che ciclicamente la storia gli elargisce – non c’è
teoria, non c’è
modello.
Quindi in realtà Hari Seldon ha capito tutto osservando una vecchia registrazione di Renzi dalla D'Urso. Abbiamo un premier che scriverà il futuro dell'intera galassia.
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