Sulle «nuove
regole» che la retorica si dà col mutare del foro cui si rivolge – ne parlavo
qualche mese fa (Intorno al cacozelo -
Malvino, 10.2.2014) – devo
rettificare quanto ho scritto: il mutamento non si ha «con l’uscita dal Barocco»,
ma nel momento in cui vi si entra, e forse anche un poco prima. In tal senso va
corretto anche quanto deducevo, almeno riguardo all’uso dell’analogia, sul
nesso tra mezzi e fini della persuasione, al punto da poterne invertire il
segno: direi che è la retorica a trasformare il foro, e non viceversa. Mi rendo
conto che, esposta in questi termini, l’affermazione farà drizzare i capelli in
testa a chi sia affezionato alla tetragona vulgata marxiana su struttura e
sovrastruttura, ma porgo subito il pettinino: la retorica che porta al Barocco
è a sua volta un prodotto. Dunque aggiusterei il tiro a questo modo: la
persuasione comincia a «mostrarsi allegra e piacevole», abbandonando le armi di
offesa e di difesa che le erano servite per più di quindici secoli, in pratica
da Quintiliano in poi, non già per adeguarsi alla cortesia come abitudine di corte,
ma perché la corte prenda abitudine alla cortesia. In altri termini, non è un
nuovo genere di principe a volere un altro genere di retore, ma è un nuovo
genere di retore che riesce a persuadere il vecchio principe a rinnovarsi. Ne
traggo convinzione grazie alla descrizione che Cesare Ripa fa della Rettorica nella sua Iconologia. L’«artificio», qui, è già «dolce», e l’arte ci si
presenta con un libro in una mano e uno scettro nell’altra, e «sprona», sì, ma «raffrena»
pure e, in virtù del suo aspetto amabile, «piega». Siano in un altro mondo
iconologico rispetto a quello di un Gherardo di Giovanni di Miniato, che è solo
di un secolo prima: l’arte, qui, è ancora tutta bellica.
E
tuttavia occorre dire che l’immagine orna il De nuptiis Philologiae et Mercurii
di Marziano Capella, che è del V secolo: la Rettorica, qui, è ancora guerriera, ma già accenna ad un sensibile ingentilimento.
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