IV. A
questo punto, a ragione, è legittima un’obiezione,
e affrontarla può tornare utile a capire perché, ma anche come, col
suo degrado da termine ad accezione, la propaganda debba reindirizzare
i suoi fini, mutando giocoforza i suoi mezzi, anche qui trovando
affinità con la trasformazione cui è già tempo andata incontro la
retorica. A buon diritto, infatti, il lettore può chiedere perché
vedere nel lavoro di Roger Money-Kyrle il primo contributo a
un’analisi critica dei meccanismi propri delle tecniche
propagandistiche, trascurando,
per esempio, il Propaganda
Technique in the World War
di
Harold Lasswell, che è addirittura del 1927? Basta leggerlo (in
italiano è stato pubbicato due anni fa per i tipi di Armando
Editore): Lasswell studia il fenomeno da sociologo inemendabilmente
impregnato di behaviorismo, corrente di pensiero che ritiene
possibile applicare il metodo fisico-matematico alle scienze sociali;
la hypodermic
needle theory di
Lasswell risente
pesantemente
di questa impostazione, presupponendo una massa inerte, totalmente
passiva al messaggio propagandistico, al punto da rendere
prevedibile, e dunque programmabile, la risposta allo stimolo (anche
per questo nel suo lavoro del 1927 il termine ha ancora un valore
neutro, ancora strettamente legato all’etimo,
nient’affatto
squalificato come sarà solo di lì a qualche decennio). È ancora
accettabile una teoria che ritiene trascurabili i processi mentali
individuali in risposta al messaggio propagandistico, prendendo a
oggetto i soli effetti misurabili su una massa considerata omogenea?
È ancora credibile un modello come quello proposto da Lasswell in
cui le dinamiche relazionali seguono in modo rigido il suo schema
delle 5 W (Who
says What in Which channel to Whom with What effect)?
Già una decina d’anni
dopo l’uscita
di Propaganda
Technique in the World War
non lo fu più, e citare l’episodio
che rese a tutti chiara l’inconsistenza della hypodermic
needle theory
può forse alleggerire un po’
questa pagina.
Il
30 ottobre 1938 andò in onda dai microfoni della CBS la celeberrima
War
of the Worlds
di Orson Welles, preceduta dall’avvertenza
che si trattasse di una fiction.
La teoria di Lasswell, come più d’uno
fece notare già all’indomani,
prevedeva una reazione di massa omogenea, il che non fu, giacché al
contrario essa coprì tutto l’ampio
spettro dalla
scomposta isteria
al franco divertimento. C’era
bisogno d’altro
per spiegare una risposta tanto variegata, e abbiamo visto come
l’impostazione
psicoanalitica potesse offrirlo grazie al concetto di regressione.
Non è del tutto ozioso, tuttavia, considerare in quale modo questa
impostazione fu recepita dalla sociologia, con un rapido excursus
delle teorie che si susseguirono nel tentativo di spiegare la varietà
di risposta al messaggio propagandistico (politico, bellico,
pubblicitario, ecc.) da parte di una società di massa che predispone
sì l’individuo
a quel momento regressivo che abbiamo visto come descritto da Freud,
ma tuttavia non ne uniforma le reazioni: negli anni ’40
abbiamo la teoria
degli effetti limitati,
negli anni ’50
la teoria
della persuasione,
negli anni ’60
la teoria
degli usi e delle gratificazioni.
Su nessuna in particolare vale la pena di soffermarsi, giacché ormai
rivestono un interesse esclusivamente storico, e tuttavia una
considerazione va fatta: nascono tutte col dichiarato scopo di dare
una spiegazione alla gamma di risposte al messaggio elettorale o
pubblicitario, a voler prendere atto che la società di massa è cosa
un po’
più complessa di come era stata fin lì descritta da Michels, da
Mosca, da Pareto, tanto per citare i più noti esponenti della
cosiddetta teoria
delle élites
(non a caso, in Who
gets What, When, How,
del 1936, Lasswell dichiara la sua filiazione a questa scuola, e di
lì in poi il suo nome sarà spesso accanto a quello di James
Burnham, che passa per capostipite del cosiddetto neo-elitismo).
Ma
dicevamo di come la propaganda, al pari della retorica (seppure in
un contesto storico diverso), sia costretta a
reindizzare i suoi fini e a scegliere perciò mezzi diversi da quelli
fin lì impiegati; e a questo vale la pena di tornare.
Possiamo
semplificare a questo modo: col passaggio del discorso pubblico
dall’agorà al foro, dal foro all’ecclesia e dall’ecclesia alla
corte, da scienza del retto argomentare, la retorica passa a essere
disciplina dell’eloquenza, per diventare vana e artificiosa ricerca
dell’effetto, e la trasformazione del mezzo è in relazione alla
trasformazione del fine, che a sua volta è in relazione alla
trasformazione del soggetto da persuadere (trasformazione sociale e
dunque psicologica, non viceversa); così la propaganda, che da mero
strumento di diffusione diventa pratica di reclutamento, di
indottrinamento e di fidelizzazione, con la trasformazione
dell’uditorio
in platea di spettatori/consumatori, e del discorso in slogan.
In
entrambi i casi, per retorica e per propaganda, accade che il
messaggio non si indirizzi più a un «uditorio
universale»,
ma a un «uditorio
particolare» (le
virgolette, qui, rimandano alla differenza posta da Perelman, e già
discussa tempo fa su queste pagine: «Il
discorso rivolto a un uditorio particolare mira a persuadere, mentre
quello rivolto all’uditorio universale mira a convincere»,
perché «un
discorso convincente è quello le cui premesse e i cui argomenti sono
universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio, da
tutti i membri dell’uditorio universale»,
dacché conseguirebbe che quello persuasivo abbia efficacia solo
laddove la particolarità dell’uditorio sia data da una specifica
tendenza ad assecondare un certo tipo passioni e un certo tipo di
pregiudizi, e in sostanza a rappresentare un certo grado di
regressione, a piazzare il prodotto su una specifica fetta di
mercato).
[segue]
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