[Accorpo qui i post già pubblicati sotto lo stesso titolo, con qualche limatura.]
«È più facile resistere all’inizio che alla fine»
Leonardo da Vinci
I più autorevoli dizionari della lingua italiana danno una definizione di propaganda pressoché univoca: (qui riporto quella del Devoto-Oli, ma quelle dello Zanichelli, del Treccani, del De Mauro, del Palazzi e del Sabatini Coletti sono sostanzialmente sovrapponibili) è l’«azione intesa a conquistare il favore o l’adesione di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo a influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse» (l’insieme delle pratiche finalizzate a qualcosa in più del semplice reclutamento del consenso, se non letteralmente inteso: adesione di massa a un sentire che implica la generale condivisione di uno stato d’animo e delle pulsioni volitive che esso genera); subito però si avverte (e a nessuno degli autori citati fa difetto l’avvertenza, anche da loro presentata come accezione) che «spesso il termine può polemicamente alludere a grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati, diffuse nel tentativo di influenzare l’opinione pubblica».
Ora, noi sappiamo che le accezioni di un termine altro non sono che il prodotto della sua articolazione storica, la quale non di rado porta i significati di volta a volta assunti da un termine a trovarsi anche assai distanti dal suo significante, come è evidente nel constatare che talvolta le definizioni delle accezioni posso arrivare anche a tradire vistosamente l’etimo del termine, a espressione di un avvenuto degrado, necessitato da una forzatura dell’adattamento all’uso (si pensi, per esempio, a sensus, che è participio passato di sentire, ma le cui accezioni più comuni arrivano ad essere quanto mai lontane dalla percezione: modo, significato, direzione).
Bene, suppongo che non sfugga l’affinità di articolazione storica che lega due termini come retorica e propaganda, per quanto attiene al degrado del loro significato originario in accezione più comunemente intesa. Non sfuggirà, altresì, che questa affinità trova ragione nella funzione che entrambe svolgono nel discorso pubblico, quella della persuasione.
Almeno fino al XVII secolo, infatti, la retorica rimane l’aristotelica τέχνη ρητορική, ma poi di lì comincia a significare sempre più spesso vana magniloquenza (si licet, magna vaniloquenza). Con ciò siamo alla grande crisi di quella che era stata per secoli, insieme, arte e scienza, precipitato politico della logica e ragione del discorso pubblico. Sia chiaro: di una decadenza della retorica si comincia a parlare molto presto (già Quintiliano parla di una corrupta eloquentia) e tuttavia fino al Barocco nessuno mette in discussione che la materia sia fondamentale in un qualsivoglia cursus studiorum; qualche sporadico interesse nel Settecento, poi quasi più nulla. Si dovrà aspettare la seconda metà dello scorso secolo perché, grazie a Chaїm Perelman, la retorica torni ad essere oggetto di ricerca e di studio, riacquistando così dignità di disciplina, riannodando il suo antico legame con la logica. Oggi, l’accezione ha il suo gran bel daffare, ma il significato originario del termine ha trovato recupero e ripristino.
Con la propaganda il processo di degrado è analogo, ma arriva assai più tardi: fino alla II guerra mondiale il termine rimanda esclusivamente al suo significato originario, che fin lì si è mantenuto intatto per secoli, nel corso dei quali propagandum è semplicemente quel che bisogna pro-pagere (piantare-progressivamente-oltre, fissare-sempre-più-in-là) per allargarne e consolidarne la presa. Nelle epistole di Cicerone, per esempio, non propagandum vulgo è quel che occorre non sia diffuso fuori dalla ristretta cerchia degli ottimati; e così sarà per tutta l’antichità, mentre nel Rinascimento (nel Prologo del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, per esempio) propagandum sta spesso accanto ad augendum, per lo più riferito alla natura dell’imperium, che ha bisogno di consolidamento, non meno che di accrescimento, per non venir meno. Le cose non cambiano nel XVII secolo (si pensi all’istituzione della Congregatio de Propaganda Fide da parte di Gregorio XV, che diventerà Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli solo nel 1967, quando il termine ha ormai assunto l’accezione che lo squalifica), né nel XVIII secolo (gli Illuministi non disdegneranno l’uso di una locuzione come «propagande philosophique» per parlare della loro attività), e neppure nel XIX secolo (gli anarchici insurrezionalisti della seconda metà dell’Ottocento rivendicheranno con fierezza il valore esemplare dell’attentato terroristico e dell’omicidio politico come «propagande par le fait»); perfino nel corso della I guerra mondiale non si ha difficoltà nel concedere che propaganda non sia solo quella nemica (è pienamente operativo dal 1918, nell’esercito italiano, un Servizio P, dove P sta appunto per Propaganda).
È solo dagli anni ’40 del Novecento che a propaganda si comincia a dare sempre più spesso il significato che implica l’uso di quelle «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» che abbiamo trovato nella voce del Devoto-Oli riportata all’inizio di questa riflessione. Di lì in poi non troveremo più in nessun luogo l’espressione «propaganda nemica», largamente impiegato per esempio nel corso della I guerra mondiale, giacché ora l’aggettivo è diventato pleonastico: solo il nemico fa propaganda, solo il nemico diffonde notizie false, la propria propaganda è altro (informazione, comunicazione, diffusione, divulgazione, promozione, ecc.). È qui che l’accezione ha preso pieno possesso del termine, ma è qui, al contempo, che quell’«ogni mezzo idoneo a influire» che abbiamo trovato nella definizione del Devoto-Oli ha bisogno di un distinguo d’ordine morale rispetto a ciò che è «idoneo»: è la malvagità del nemico ad implicare l’uso di mezzi disonesti. L’accezione, così, prende pieno possesso del termine per stornare con disdegno il sospetto che il fronte amico faccia impiego di analoga disonestà.
Dicevamo di un’affinità di articolazione storica tra retorica e propaganda, ma dal veloce excursus qui rappresentato è tuttavia evidente che tra i due termini il degrado segua un processo manifestamente diacronico, per la diversa natura dell’uditorio cui esse si rivolgono. In propagare, infatti, è implicito che debba esservi una massa ad assorbire quanto diffonde da una fonte: si ha propaganda, dunque, quando la persuasione si rivolge a un uditorio inteso come massa (nessuna corrispondenza in retorica, dove l’uditorio è sempre un forum); e non ha alcuna difficoltà nel dichiararsi tale (chi fa propaganda non ha alcuna difficoltà ad ammettere che stia facendo propaganda) fino a quando il suo attore non è costretto a fare i conti con un competitore che per fine ha il persuadere lo stesso uditorio, propagare il proprio messaggio nella stessa massa (a lungo, invece, il retore non ha alcuna difficoltà nel dichiararsi tale nella competizione che ingaggia con un suo pari, e che per fine ha la persuazione dello stesso forum). È il comparire della massa come nuova forma di uditorio a dar ragione, di qui in poi, di una propaganda interna e di una propaganda esterna, il che presuppone che la massa abbia caratteri simili ovunque essa si rappresenti come uditorio, di qua e di là dalla linea che separa l’amico dal nemico: l’«azione intesa a conquistare il favore o l’adesione» di una porzione sempre più ampia delle masse di qua e di là dalla linea che separa l’amico dal nemico presuppone analoga idoneità di mezzi «a influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse». Questo, tuttavia, implica anche altro: il «tentativo di influenzare l’opinione pubblica» non è più tenuto a fare alcuna differenza tra le opinioni pubbliche che stanno di qua e di là dalla linea sulla quale si gioca il conflitto per la conquista del consenso, e le «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» tornano utili allo stesso modo per entrambe, giacché la loro psicologia e il loro comportamento non differiscono.
Ma non è dal V sec. a.C. che, con Eschilo, si ripete che «in guerra la verità è la prima vittima»? Per quale ragione, allora, per propaganda, il degrado da significato ad accezione non si è verificato prima? Perché è solo con la II guerra mondiale che una questione come quella della psicologia delle masse, in verità sorta già a cavallo dei due secoli, con Le Bon prima e con Freud poi, acquista un interesse che esorbita da quello accademico, per diventare un problema di prima grandezza in un evento tanto importante come quello bellico. Se questo non accade già con la I guerra mondiale, che non può certo definirsi evento meno rilevante, e rispetto al quale la propaganda pure svolge un ruolo significativo (più nel determinare l’evento, occorre dire, che nel sostenerlo), è per la semplice ragione che nel lustro ’14-’18 la diffusione di cinema e radio è ancora assai limitata: il medium non è ancora pronto a propagare; la massa (la società di massa) già c’è, ma il medium è ancora inadeguato, e l’uditorio, ancorché esteso, resta per lo più forum; e perciò è ancora la retorica ad essere impiegata come mezzo per reclutare consenso, e di retorica, infatti, la I guerra mondiale, non meno che di sangue, gronda. Ad ammazzare la verità, prima della II guerra mondiale, ci pensa la retorica; dopo, sarà compito della propaganda.
Può darsi che l’ipotesi sia un azzardo, la lascio al giudizio di chi legge questa pagina, ma oserei affermare che la propaganda diventi tanto più problematica, con ciò assumendo il carattere di insidiosa minaccia, quanto più i mezzi coi quali trova diffusione si ampliano al punto da non poter evitare che opposte propagande si contendano lo stesso uditorio. Semplifico: fino a quando il propagandum non teme concorrenza perché l’imperium o la fides hanno il monopolio del medium (oppure: perché la philosophie e il fait ne scelgono uno che si fa tanto intrinseco al messaggio da sussumerlo), la propaganda non ha alcunché di problematico; acquista problematicità, e in misura tanto considerevole da poter assumere carattere di arma, quando è nella nostra disponibilità non meno di quanto lo sia in quella del nostro nemico, di chi con noi concorre a persuadere un uditorio, per reclutarlo nella milizia che combatte in favore del proprio interesse. Non c’è da stupirsi, allora, se il massimo della problematicità si abbia con la propaganda bellica, dove arma, nemico e milizia smettono di avere senso figurato. Qui siamo all’allargamento del campo di battaglia alla società civile e la lezione di Sun Tsu («tutte le operazioni di guerra sono basate sull’inganno») diventa valida anche per la propaganda, non caso proprio nel momento in cui la guerra prende a oggetto, quasi di regola, anche la popolazione civile.
Avviene, tuttavia, che con l’acquisire il significato che la degrada a strumento di inganno e a vettore di menzogna, la propaganda perda quello originario nel quale invece è sospeso ogni giudizio di merito sul messaggio che è da diffondere, e accade, così, che propaganda sia solo quella del nemico, e definirla tale miri innanzitutto a dissuadere l’uditorio dal prestarvi fede; ne consegue che farsi persuasi delle ragioni del nemico, espresse dalla sua propaganda, implichi giocoforza esserne, insieme, vittima e complice. Nasce, così, l’interdetto implicito alle ragioni del nemico, veicolate dalla sua propaganda: se esse sono giocoforza menzogne, anche il solo darvi ascolto implica stoltezza o malvagità, stupidità o tradimento.
Con quanto fin qui ricostruito riguardo al percorso di un termine come propaganda, non c’è da stupirsi che i problemi posti dalle pratiche propagandistiche non abbiano trovato ragione di una riflessione articolata prima della II guerra mondiale. Ad affrontare per la prima volta il tema in modo articolato, almeno a quanto mi risulta, è un articolo apparso nel 1941 sul British Journal of Medical Psychology (Vol. XIX) a firma di Roger Money-Kyrle (in italiano, il testo, relativamente breve, è reperibile in Scritti 1927-1977 – Loescher, 1985, col titolo La psicologia della propaganda). Credo possa tornar utile riportarne qualche stralcio per aver modo di considerare come viene affrontato il tema.
«La propaganda è sempre stata il mezzo attraverso cui le diverse organizzazioni politiche e religiose hanno cercato di imporre la loro volontà, ma nel passato la sua estensione era limitata e la sua diffusione relativamente lenta. […] Negli ultimi anni, con l’avvento di quotidiani poco costosi, del cinema e, soprattutto, della radio, gli ascoltatori e i lettori, da poche centinaia, sono improvvisamente diventati milioni. La capacità di penetrazione della propaganda si estende adesso al mondo intero, e nessuno, a meno di vivere su un’isola deserta, può sottrarsi alla sua influenza. Per questa ragione la psicologia della propaganda, o, ciò che è forse la stessa cosa, la psicologia della suggestione di massa, ha improvvisamente assunto un’enorme importanza».
Qui mi fermerei un istante a considerare due termini che mi paiono centrali in questa parte dell’articolo: penetrazione e suggestione. Il primo, credo, dà ragione della modalità di diffusione del messaggio cui la propaganda è tenuta a far ricorso per la stessa natura della massa, nel cui corpo la propagazione può avvenire solo per infiltrazione. Il secondo, invece, dà ragione della natura che la persuasione assume quando il forum prende le dimensioni e le caratteristiche della società di massa. Anche qui, per suggestione, occorre considerare la forzatura dell’adattamento all’uso che porta l’etimo del termine a esprimere con la sua accezione un significato che lo contraddice: la proposta che sta nel suggerimento diventa l’imposizione cui mira l’insinuazione. Percorso opposto, a ben vedere, con quello che porta il persuaso (per-suasus, indotto a fare) a essere convinto (colui che nell’essere persuaso vince con il persuasore, e con ciò conquista in prima persona la verità che questi gli offre, senza alcuna indutio insidiosamente suavis). Ma cosa dà modo alla suggestione di agire?
«Se l’uomo fosse completamente razionale e se fosse influenzato solamente da quella propaganda che dice la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, non ci sarebbero problemi. Ma, sfortunatamente, evidenza e giudizio non sono le sole determinanti delle sue convinzioni e dei suoi sentimenti. L’uomo è sempre stato un animale credulo che si lascia facilmente convincere e infiammare dall’oratoria: talvolta può lasciarsi quasi ipnotizzare, accettando qualsiasi cosa venga asserita con sufficiente forza e autorità».
Qui credo occorra appuntare l’attenzione sull’uso di quella che di fatto è parte della formula di giuramento che il soggetto chiamato a rendere testimonianza nel corso di un processo è tenuto a recitare prima della sua deposizione («la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità»). Money-Kyrle vuol farci credere che, almeno in teoria, sia possibile una propaganda in grado di essere fedele testimone di come scorranno gli eventi bellici? Sta mettendo in discussione quanto affermano Eschilo e Sun Tsu? No, perché, anche volendo, non può: nel corso della I guerra mondiale ha servito il Regno Unito nella Royal Air Force e, mentre scrive quanto qui riporto, lavora per il Ministero dell’Aeronautica come reclutatore di nuove leve. Non c’è bisogno di psicoanalizzare lo psicoanalista per capire che la sua riflessione debba lasciare spazio all’almeno teorica possibilità che la propaganda possa diffondere verità. Un po’ più difficile capire perché per farlo abbia comunque bisogno della suggestione, che qualche capoverso prima ha definito intrinseca alle pratiche propagandistiche, ma forse è quanto segue a sciogliere il nodo del double standard.
«Dire, come gli psicologi amano fare, che l’uomo è suggestionabile, è semplicemente dare un nome alla qualità che stiamo cercando di spiegare. Vogliamo capire perché alcune persone si lasciano più facilmente suggestionare dalla propaganda di altre, e perché il livello della loro suggestionabilità dipende sia dalla loro relazione con chi fa propaganda che dalla natura della propaganda».
Dichiarati i fini dell’indagine, Money-Kyrle passa a considerare le «differenze nella suggestionalità generale», che mette in relazione a due ordini di fattori: il livello di istruzione («le persone istruite sono meno influenzabili dalla propaganda delle persone che non lo sono, poiché hanno maggiori informazioni con cui confrontare ciò che viene loro raccontato») e quello di maturità psicologica rapportato al grado di superamento della dipendenza vissuta da ogni bambino («alcuni crescono e diventano indipendenti, altri rimangono psicologicamente bambini per tutta la vita, sempre dipendenti da sostituti delle figure parentali, sia umani che divini»). Ma, ovviamente, «la suggestionabilità della propaganda dipende anche dalla fonte di provenienza», soprattutto dove essa assuma l’autorità di cui da bambini abbiamo fatto esperienza nella relazione con le figure parentali: siamo più suggestionabili a ciò che ci viene detto da qualcuno che riesca a surrogare il padre o la madre, e dunque la propaganda riesce maggiormente a suggestionarci se è propaganda patria e corre in madrelingua, il che implica che, «se siamo suggestionabili da un’autorità, siamo anche controsuggestionabili dall’autorità che a essa si oppone», e così «non soltanto ci troviamo in disaccordo con la parte avversa […] ma non siamo neppure in grado di credere alla sua buona fede». Le cose, tuttavia, si complicano, perché con ciò la «parte avversa» arriva ad assumere il proiettato dei nostri nemici interni: «quando due gruppi diventano reciprocamente paranoidi in questa maniera, diventa pressoché impossibile discriminare tra sospetti veri e sospetti falsi; infatti i falsi sospetti di una parte innescano contromisure nell’altra, e così si autoconfermano».
È chiaro che la riflessione di Money-Kyrle non può che muovere dall’assunto freudiano che «la contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità» (Psicologia delle masse). Anche chi non è troppo addentro all’edificio della teoria freudiana sa cosa porta a evidenziare, questa «considerazione più attenta»: la pulsione sociale non è originaria, né indecomponibile, e gli esordi del suo sviluppo sono sempre rintracciabili in un ambito più stretto, come quello della famiglia. Questa non è la sede per discutere questo assunto, col quale peraltro lo stesso Freud ammette non si risolve per intero l’«enigma della massa». Di fatto, tuttavia, i suoi caratteri rimandano senza dubbio a un momento regressivo: «la mancanza di autonomia e di iniziativa del singolo, il coincidere della reazione del singolo con quella di tutti gli altri, […] l’indebolimento delle facoltà intellettuali, il disinibirsi dell’affettività, l’incapacità di moderarsi o di differire, la propensione a oltrepassare tutti i limiti nell’espressione del sentimento che tende a scaricarsi per intero nell’azione» (ibidem). Questo il substrato su cui la suggestione opera, ma cos’è, per Freud, la suggestione? «È una manifestazione parziale dello stato ipnotico, il quale risulta validamente fondato su una disposizione conservata nell’inconscio sin dalle origini preistoriche della famiglia umana» (ibidem).
Non so quanto possa essere ancora convincente, oggi, questa definizione, con quanto di controverso grava su un termine come ipnosi, che in fondo è stato largamente impiegato, fino a quando è stato possibile, per accantonare i problemi posti dalla natura apparentemente impenetrabile della suggestione. D’altronde è con lo stesso Freud che la psicologia comincia ad abbandonare la pratica ipnotica, con una esplicitamente dichiarata «rinuncia alla suggestione». Con Lacan si arriverà finalmente a decostruire il meccanismo della suggestione sul piano del linguaggio: se «l’inconscio è strutturato come linguaggio», la suggestione opera su esso in forma di fallacia. Tornando a Money-Kyrle, allora, l’equivalenza tra la «psicologia della propaganda» e «psicologia della suggestione di massa» può dirsi fondata sull’efficacia persuasiva delle fallacie che più agevolmente riescono a eludere la logica della retta argomentazione. Ammesso e non concesso che possa esserci una «propaganda che dice la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità», quella che diffonderà «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» sarà riconoscibile dal ricorso alle fallacie che più efficacemente sono in grado di indurre l’individuo a quello stato regressivo che è proprio della massa; e quelle che operano sulla controsuggestione (l’argomento è rigettato o ritenuto confutato, ancorché inadeguatamente, solo perché prodotto dalla parte avversa: fallacia ad hominem, argomento fantoccio, colpa per associazione, due torti fanno una ragione, appello al caso particolare, ecc.) non sono meno efficaci di quelle operano sulla suggestione (l’argomento è fatto proprio, e spesso riproposto, solo perché prodotto da autorevoli rappresentanti della parte amica: ricorso all’autorità, ricorso alla tradizione, fallacia ad populum, pressione dei pari, petizione di principio, ecc.).
Abbiamo detto che non può esserci una «propaganda che dice la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità», quindi, seppur in varia misura, «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» sono di regola diffuse dalla propaganda amica e dalla propaganda nemica. Sul piano della regressione, non riuscire a riconoscere quelle diffuse dalla propaganda amica equivale a non riuscire ad ammettere di averle riconosciute tali.
A questo punto, a ragione, è legittima un’obiezione, e affrontarla può tornare utile a capire perché, ma anche come, col suo degrado da termine ad accezione, la propaganda debba reindirizzare i suoi fini, mutando giocoforza i suoi mezzi, anche qui trovando affinità con la trasformazione cui è già tempo andata incontro la retorica. A buon diritto, infatti, il lettore può chiedere perché vedere nel lavoro di Roger Money-Kyrle il primo contributo a un’analisi critica dei meccanismi propri delle tecniche propagandistiche, trascurando, per esempio, il Propaganda Technique in the World War di Harold Lasswell, che è addirittura del 1927? Basta leggerlo (in italiano è stato pubblicato due anni fa per i tipi di Armando Editore): Lasswell studia il fenomeno da sociologo inemendabilmente impregnato di behaviorismo, corrente di pensiero che ritiene possibile applicare il metodo fisico-matematico alle scienze sociali; la hypodermic needle theory di Lasswell risente pesantemente di questa impostazione, presupponendo una massa inerte, totalmente passiva al messaggio propagandistico, al punto da rendere prevedibile, e dunque programmabile, la risposta allo stimolo (anche per questo nel suo lavoro del 1927 il termine ha ancora un valore neutro, ancora strettamente legato all’etimo, nient’affatto squalificato come sarà solo di lì a qualche decennio). È ancora accettabile una teoria che ritiene trascurabili i processi mentali individuali in risposta al messaggio propagandistico, prendendo a oggetto i soli effetti misurabili su una massa considerata omogenea? È ancora credibile un modello come quello proposto da Lasswell in cui le dinamiche relazionali seguono in modo rigido il suo schema delle 5 W (Who says What in Which channel to Whom with What effect)? Già una decina d’anni dopo l’uscita di Propaganda Technique in the World War non lo fu più, e citare l’episodio che rese a tutti chiara l’inconsistenza della hypodermic needle theory può forse alleggerire un po’ questa pagina.
Il 30 ottobre 1938 andò in onda dai microfoni della CBS la celeberrima War of the Worlds di Orson Welles, preceduta dall’avvertenza che si trattasse di una fiction. La teoria di Lasswell, come più d’uno fece notare già all’indomani, prevedeva una reazione di massa omogenea, il che non fu, giacché al contrario essa coprì tutto l’ampio spettro dalla scomposta isteria al franco divertimento. C’era bisogno d’altro per spiegare una risposta tanto variegata, e abbiamo visto come l’impostazione psicoanalitica potesse offrirlo grazie al concetto di regressione. Non è del tutto ozioso, tuttavia, considerare in quale modo questa impostazione fu recepita dalla sociologia, con un rapido excursus delle teorie che si susseguirono nel tentativo di spiegare la varietà di risposta al messaggio propagandistico (politico, bellico, pubblicitario, ecc.) da parte di una società di massa che predispone sì l’individuo a quel momento regressivo che abbiamo visto come descritto da Freud, ma tuttavia non ne uniforma le reazioni: negli anni ’40 abbiamo la teoria degli effetti limitati, negli anni ’50 la teoria della persuasione, negli anni ’60 la teoria degli usi e delle gratificazioni. Su nessuna in particolare vale la pena di soffermarsi, giacché ormai rivestono un interesse esclusivamente storico, e tuttavia una considerazione va fatta: nascono tutte col dichiarato scopo di dare una spiegazione alla gamma di risposte al messaggio elettorale o pubblicitario, a voler prendere atto che la società di massa è cosa un po’ più complessa di come era stata fin lì descritta da Michels, da Mosca, da Pareto, tanto per citare i più noti esponenti della cosiddetta teoria delle élites (non a caso, in Who gets What, When, How, del 1936, Lasswell dichiara la sua filiazione a questa scuola, e di lì in poi il suo nome sarà spesso accanto a quello di James Burnham, che passa per capostipite del cosiddetto neo-elitismo).
Ma dicevamo di come la propaganda, al pari della retorica (seppure in un contesto storico diverso), sia costretta a reindizzare i suoi fini e a scegliere perciò mezzi diversi da quelli fin lì impiegati; e a questo vale la pena di tornare. Possiamo semplificare a questo modo: col passaggio del discorso pubblico dall’agorà al foro, dal foro all’ecclesia e dall’ecclesia alla corte, da scienza del retto argomentare, la retorica passa a essere disciplina dell’eloquenza, per diventare vana e artificiosa ricerca dell’effetto, e la trasformazione del mezzo è in relazione alla trasformazione del fine, che a sua volta è in relazione alla trasformazione del soggetto da persuadere (trasformazione sociale e dunque psicologica, non viceversa); così la propaganda, che da mero strumento di diffusione diventa pratica di reclutamento, di indottrinamento e di fidelizzazione, con la trasformazione dell’uditorio in platea di spettatori/consumatori, e del discorso in slogan.
In entrambi i casi, per retorica e per propaganda, accade che il messaggio non si indirizzi più a un «uditorio universale», ma a un «uditorio particolare» (le virgolette, qui, rimandano alla differenza posta da Perelman, e già discussa tempo fa su queste pagine: «Il discorso rivolto a un uditorio particolare mira a persuadere, mentre quello rivolto all’uditorio universale mira a convincere», perché «un discorso convincente è quello le cui premesse e i cui argomenti sono universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio, da tutti i membri dell’uditorio universale», dacché conseguirebbe che quello persuasivo abbia efficacia solo laddove la particolarità dell’uditorio sia data da una specifica tendenza ad assecondare un certo tipo passioni e un certo tipo di pregiudizi, e in sostanza a rappresentare un certo grado di regressione, a piazzare il prodotto su una specifica fetta di mercato).
Quanto fin qui detto ci consente alcune considerazioni che altrimenti sarebbero suonate apodittiche: (1) non si può avere degrado del termine ad accezione senza che (prima che) l’avvento della società di massa abbia mutato la natura del foro in cui erano abitualmente messe in campo le tradizionali armi della persuasione assicurate dalla retorica (il propagandum può perdere definitivamente – irreversibilmente – il suo valore neutro, per implicare necessariamente la diffusione di «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati», solo in un contesto che consenta di indurre processi regressivi, con l’impiego di mezzi adeguati a ottenere una diffusione ampia e veloce, in un uditorio con i caratteri di massa); (2) nell’accezione così acquisita, la propaganda non perde del tutto il significato del termine (resta l’«azione intesa a conquistare il favore o l’adesione di un pubblico sempre più vasto»), ma ciò che le serviva a tal scopo («ogni mezzo idoneo a influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse») annulla ogni differenza formale tra persuasione e suggestione; (3) con ciò la propaganda diventa un’arma eminentemente disonesta e subdola, che perciò può essere utilizzata solo dal nemico, a dar conferma della sua malvagità (è un’arma che mira a rafforzare il consenso nel suo campo e a seminare dissenso in quello avverso); (4) giacché ogni massa è disomogenea (nei suoi vari settori presenta un diverso grado di resistenza all’induzione della regressione), l’efficacia della propaganda (che, degradata ad accezione, abbiamo detto poter essere impiegata solo dal nemico) si misura sui risultati del consenso che il nemico ottiene nel proprio campo e del dissenso che ottiene in quello avverso; (5) l’efficacia della propaganda (che – occorre ripetere – è solo quella del nemico, una volta che il termine è stato degradato ad accezione) ha una duplice valenza: (5') segnala quanta regressione il nemico è in grado di indurre nel proprio campo (consentendo così di poter considerare vittime della sua arma quanti in quel campo lo appoggiano); (5'') dà ragione di quante vittime è in grado di causare in quello avverso, dove però, anche se considerate tali, acquistano il ruolo di nemico interno.
Anche se non esplicitate in questi termini, tali considerazioni paiono già rintracciabili in un articolo che un altro psicoanalista, Ernst Kris, scrive appena poche settimane dopo quello di Roger Money-Kyrle: ha per titolo Il “pericolo” della propaganda (ne Gli scritti di psicoanalisi, Boringhieri 1977) e anche qui può tornare utile riportarne qualche brano.
«Se un’affermazione è resa in forma di slogan, la forza del suo richiamo può sopraffare quella della ragione; lo slogan richiede una risposta emotiva». Ci aspetteremmo che la riflessione prenda una piega metapsicologica per analizzare i meccanismi grazie ai quali una locuzione o una frase riescono a far breccia nella struttura psichica di un soggetto, e invece Kris procede a questo modo: «Lo slogan del “pericolo della propaganda” ha, effettivamente, dato vita a risposte di questo genere, la più tipica delle quali è “attenti alla propaganda”». Anche qui si è indotti a un fraintendimento: Kris sta forse cercando di farci credere che considerare un pericolo la propaganda sia dovuto a un moto irrazionale quanto quello che la rende efficace? Ancora una volta siamo smentiti: «Discuterò in seguito una simile risposta. Per il momento vorrei trasformare lo slogan in affermazione e chiedermi che cosa la gente abbia in mente quando dice che la propaganda è pericolosa». Dove sta il “pericolo”? «Non tutti coloro che fanno questa affermazione si riferiscono allo stesso pericolo, [perché] generalmente vogliono dire che solo la propaganda dei loro oppositori è pericolosa». Ecco – insieme – recuperato il significato originario del termine e denunciata la natura del suo degrado ad accezione. Ma in cosa consiste, questo pericolo? A cosa ci si riferisce quando si afferma che la propaganda è un pericolo? «Al fatto che l’uomo è suggestionabile; alla tecnica escogitata per trarre vantaggio da questo fatto; ai gruppi di pressione che usano questa tecnica».
Qui possiamo saltare a pie’ pari la lunga parte dell’articolo dedicata alle cause della suggestionabilità umana (anche se può essere utile rilevare il punto in cui si afferma che «la linea di confine tra suggestione e persuasione è difficile da stabilire»), per arrivare alla risposta che ci era stata promessa: «La gente è suggestionabile e lotta contro questo. Dall’esperienza clinica noi conosciamo il paziente che soffre di angoscia dell’angoscia, di paura della propria paura. Questo è assai comune se la sua angoscia si riferisce a desideri passivi. Egli è a conoscenza della propria passività e vive un secondo livello di angoscia. La sua conoscenza della sua passività aumenta l’angoscia. Noi sappiamo quanto sia difficile controllare questi stati […] [che] possono rendere […] il paziente più incline a qualche gratificazione dei suoi desideri passivi. Se l’assalto proviene da un lato che egli non stava sorvegliando, può avere successo. In una certa misura, sembra esistere un fenomeno simile nella sfera sociale». E qui è interessante considerare il caso portato a esempio.
«La fobia della propaganda dei primi mesi di questa guerra negli Stati Uniti [ripetiamo: l’articolo è del 1941] non ha protetto la gente dalla propaganda stessa, anzi l’ha resa più accessibile a un certo tipo di propaganda: il movimento antipropaganda è diventato propaganda esso stesso. Come sempre, però, il desiderio del pubblico di accettare la propaganda di questi antipropagandisti era ben fondato in qualcosa che ha la natura di un interesse dell’Io: la gente voleva restare fuori dalla guerra e voleva essere sottoposta alla propaganda, e così la fobia della propaganda si sviluppò in un movimento propagandistico. […] Non sembra esserci ragione di credere che […] la paura della suggestionabilità e della propaganda abbia mai funzionato come una vaccinazione. Al contrario, […] questa paura paralizza una risposta attiva alla pressione della propaganda. Questa risposta attiva non è altro che l’essere preparati in qualunque momento a contrapporre la propria opinione a quella del propagandista». In sostanza, suonare l’allerta per la minaccia posta dalla diffusione di «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» ad opera del nemico (la propaganda pienamente degradata ad accezione) ottiene il fine di rendere più vulnerabile «la gente» del proprio campo a «un certo tipo di propaganda», che sempre propaganda è (nel senso che l’accezione dà al termine), ma che rifiuta di definirsi tale: la fobia della propaganda nemica è funzionale a rendere efficace la propaganda amica, nel contempo rigettando il sospetto che anch’essa diffonda «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati»; di più, rendendolo colpevole, come indizio di intelligenza col nemico.
Per quale ragione è solo con la II guerra mondiale che il termine propaganda perde del tutto il significato che sta nel suo etimo (dove ciò che occorre pro-pagere ha valore neutro) e acquista quello che implica esclusivamente la pratica di diffondere «grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» (con ciò diventando arma disonesta usata solo dal nemico)? Credo che la risposta stia nel fatto che con la II guerra mondiale i regimi cosiddetti liberaldemocratici sono stati costretti a confrontarsi con quelli cosiddetti totalitari, a riconoscere che gli strumenti di reclutamento ideologico erano sostanzialmente simili (necessariamente simili, potremmo concedere, nell’ottica della logica bellica, dove il fine della vittoria non lascia spazio a scrupoli morali sui mezzi da impiegare) e a doverlo negare (dove con negare qui è da intendere il processo col quale in psicoanalisi si fa riferimento a quel meccanismo di difesa col quale l’inconscio opera una distorsione della realtà finalizzata a neutralizzare i suoi aspetti spiacevoli e dolorosi; trattandosi di una negazione che opera sul piano lessicale, spezzando la relazione tra significante e significato, si potrebbe più congruamente parlare di forclusione).
Traggo questa conclusione dal tentativo, vedremo quanto fallimentare, di far distinzione tra una «propaganda democratica» e una «propaganda totalitaria», «propaganda buona e propaganda cattiva», sulla base dell’assunto che «i metodi usati per influenzare l’opinione pubblica sono strettamente legati al sistema di governo». I corsivi sono tratti da un articolo di Ernst Kris che segue di pochi mesi quello già citato, e che ha per titolo Alcuni problemi della propaganda di guerra: note sulla propaganda nuova e vecchia, anch’esso contenuto nel volume edito dalla Boringhieri (Gli scritti di psicoanalisi, 1977); ed è lo stesso Kris a dimostrarci quanto sia fallimentare questo tentativo, che pure è speso «senza fingere un distacco che non pretend[e] di avere» e nella consapevolezza che «in ogni società esiste qualche mezzo di controllo sociale di questa natura che stabilisce un contatto tra i capi responsabili e la collettività», che «la situazione dell’“essere in guerra” è una situazione che tende a stigmatizzare ogni comunicazione di questo tipo», che di qui e di lì dal fronte c’è un «alto grado di uniformità della propaganda di guerra», di qui e di lì dal fronte ultimativamente riducibile all’«argomento “la nostra causa è giusta, noi vinceremo”».
Quale sarebbe, allora, la differenza tra la «propaganda democratica» e la «propaganda totalitaria», tra «propaganda buona e propaganda cattiva»? «La propaganda totalitaria è chiaramente basata sull’assunto che il messaggio del capo dovrebbe essere totalmente “accettato come ideale dell’Io” e l’identificazione dovrebbe aver luogo nel Super-io. La propaganda democratica, al contrario, è basata su un concetto in cui si distribuiscono più pianamente due tipi di identificazione: una nel Super-io e una dell’Io». Come ci è data plasticamente questa differenza? «Se uno dei capi totalitari si indirizza al suo popolo, regolarmente egli parla in un’adunanza di massa [il che indurrebbe una condizione di suggestione ipnotica] […] [Al contrario] i capi democratici parlano stando seduti nel loro studio. Si rivolgono agli individui della loro nazione, i loro discorsi sono “quattro chiacchiere in famiglia, intorno al focolare domestico”. Non esiste una differenza di prestigio o potere, ma una differenza di responsabilità tra l’oratore e l’ascoltatore, al quale è lasciato di soppesare, verificare e riflettere».
L’articolo, occorre rammentare, è del 1941: torna utile, oggi, ammesso che lo fosse allora, a dimostrarci che la propaganda totalitaria è cattiva e quella democratica è buona? Ammesso che torni utile, c’è da constatare che con ciò la propaganda buona non è più efficace di quella cattiva, al punto che è lo stesso Kris a segnalare che in campo democratico ci sono molti ad essere «favorevoli a un’intensificazione della propaganda, all’uso di tutti i mezzi possibili della pubblicità per creare entusiasmo: i più radicali tra di essi sostengono che i metodi adottati dai nazisti sono i migliori possibili». Si è nel torto a credere che costoro, oggi, abbiano vinto?
Non c’è da stupirsi che anche nel campo cosiddetto democratico ci sia chi ritiene che «i metodi [propagandistici] adottati dai nazisti sono i migliori possibili» e che non sia proficua un’informazione che consenta di «soppesare, verificare e riflettere», operazioni che sono oggettivamente un freno alla diffusione di un messaggio che per fine ha la suggestione ipnotica, la mobilitazione emotiva, la fidelizzazione e il reclutamento; né c’è da stupirsi che questo valga tanto per la propaganda di guerra che per quella di mercato (non è un caso che le centrali propagandistiche attive nel mondo occidentale nel corso della seconda guerra mondiale si avvalsero di esperti già attivi in campo pubblicitario), per la semplice ragione che la logica del profitto economico è la stessa della conquista bellica.
Possiamo
con ciò concludere che non ci sia alcuna differenza tra la
propaganda totalitaria e quella cosiddetta democratica? No, qualche
differenza c’è, e non da poco, ma attiene esclusivamente a modo in
cui esse affrontano la resistenza alla penetrazione del messaggio
propagandistico, che in entrambi i casi tuttavia è criminalizzata,
anche se la pena comminata è diversa: lo stato totalitario punisce
il rigetto della sua narrazione propagandistica con la persecuzione,
la reclusione e perfino con la morte; lo stato cosiddetto democratico
con la messa all’indice, la discriminazione e l’emarginazione.
Questa differenza di trattamento riservata a chi si oppone a far
propria la narrazione propagandista di regime (cui qui si dà il
significato originario di «forma
di governo», che
consente di usare il termine per ogni forma di governo) non è certo
irrilevante, come si diceva, ma nulla implica relativamente ai mezzi
e ai fini che muovono la logica propagandistica.
È legittimo
tuttavia porsi un problema: cosa ha prodotto, dal 1941 ad oggi, un
uso sempre più frequente dei «metodi
adottati dai nazisti» anche
da parte dei regimi cosiddetti democratici? Cosa ha portato i regimi
cosiddetti democratici a ritenere che i «metodi
adottati dai nazisti» siano
«i migliori possibili»?
Ma, prima di tutto, è davvero così? Quali sono i «metodi
adottati dai nazisti»?
Kris dice che, a differenza di quella democratica, la propaganda
totalitaria è ripetitiva e martellante, ma solo dopo aver affermato
che, in ciò, esse mostrano solo una «differenza
di grado». Tutto qui?
No, perché una differenza che dovrebbe essere sostanziale emerge
proprio dalla descrizione del contesto in cui si articola la sua
riflessione: «Molti
osservatori hanno denunciato il fatto che l’entusiasmo
in questa guerra sembra essere sospetto nelle democrazie. La febbre
spionistica o le campagne d’odio sono rifiutate dalla gente […]
Tendono a un’apprensione sempre più ragionevole, a un’informazione
maggiore e migliore».
Un contesto assai meno attossicato di quello odierno, si direbbe, il
che conferma quanto già detto: dal 1941 ad oggi la pratica propagandistica è diventata
sempre più uniforme di qua e di là dalla linea che separa le
società cosiddette democratiche da quelle in cui vigono regimi
totalitari, dittatoriali, autocratici, ecc.
E allora torna la domanda: cosa ha prodotto questa uniformità? La risposta a me pare estremamente semplice: le società cosiddette democratiche sono diventate sempre meno democratiche; il ridurre i cittadini a consumatori ha reso sempre più efficace il messaggio propagandistico che meglio s’attaglia alla logica del mercato; la persuasione, come il profitto, non può più porsi scrupoli nel perseguire il suo fine, che o è illimitato o è destinato a deflettere e ad estinguersi.
Con ciò concedo che il lettore abbia pieno diritto di chiedersi: dunque tu affermi che la deriva neoliberista delle società liberaldemocratiche occidentali implichi un pericolo totalitario? Sì, ne sono sempre più convinto.
La crisi pandemica mi ha dato modo di trovare piena conferma di ciò che Michel Foucault affermava nelle sue lezioni al Collège de France del 1979-80 (Du gouvernement des vivants), e cioè che il paradigma ordoliberale è intrinsecamente repressivo e totalitario. La crisi ucraina, poi, ha ulteriormente rafforzato la convinzione che ha mosso su queste pagine la mia polemica avverso la presunzione di superiorità morale e culturale di certa sinistra: quando la liberaldemocrazia ha smesso di essere metodo per diventare ideologia, ha assunto logica imperiale. In entrambe le crisi, ho visto confermate le tesi di Debord sulla relazione tra potere e società dello spettacolo, quelle di Perniola sulla sensologia, la forma di nuovo potere che dà per acquisito il consenso plebiscitario su fattori affettivi e sensoriali, quelle di Agamben sulla permanentizzazione dello stato di eccezione.
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