lunedì 13 ottobre 2014

«Nel mondo non è se non vulgo»

Sarebbe ingiusto prenderne uno a esempio buttandogli addosso le colpe di tutti. Sarà esagerato dire tutti? Può darsi, di fatto io non conosco neanche un commentatore professionale di ciò che accade in Vaticano che non ceda alla tentazione di imbastire paralleli tra ruoli, organi e momenti di quello che è un principato ecclesiastico e quelli che ne dovrebbero essere i corrispettivi in un principato civile (non repubblica come qui vorrebbe il candido che ancora non abbia colto l’essenza delle postdemocrazie).
Non a caso uso i termini usati da Niccolò Machiavelli nel suo De principatibus: non gli sfugge la differenza sostanziale che rende impossibile ogni comparazione tra le due forme di imperio, pena il trarne frastornamento, e l’indurlo, come accade in queste ultime settimane con quanto si muove dentro e attorno al Sinodo sulla Famiglia, che gli emaciati e umidicci vaticanisti ci illustrano come istante drammatico, e perfino fatale, per le sorti di questo pontificato e quelle della Chiesa tutta. Cazzate.
I principati ecclesiastici – usa il plurale, Niccolò Machiavelli, ma è solo per consentirsi il sarcasmo che gli sarebbe stato rischioso a dire che della specie ve n’è uno solo – «si acquistano o per virtù o per fortuna, e sanza l’una e l’altra si mantengano, perché sono sustentati dalli ordini antiquati nella relligione, quali sono suti tanto potenti e di qualità, che tengano e’ loro principi in stato, in qualunque modo si procedino e vivino» e «costoro soli hanno stati, e non li defendano; sudditi, e non li governano; e li stati, per essere indifesi, non solo loro tolti; e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano, né pensano né possono alienarsi da loro»Principati «sicuri e felici […] sendo retti da cagione superiore, alla quale mente umana non aggiugne», e qui, a pararsi le terga, «lasc[ia] el parlarne, perché, sendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe offizio di uomo prosontuoso e temerario discorrerne» (soprattutto temerario, perché non gli dispiacerebbe qualche favore da parte di Leone X, che è un Medici).
A chi obiettasse che questa definizione della Chiesa è del 1513, quando il papato aveva ancora saldo in pugno il potere temporale, basta far presente che s’attaglia meglio alla Chiesa che l’ha perso, quindi è evidente che la peculiarità di un principato ecclesiastico esorbita da quanto formalmente lo fa monocratico o collegiale, torvamente simoniaco o squisitamente spirituale e, per usare termini che sono in uso ancorché impropri, progressista o conservatore: a rendere inappropriato ogni paragone con ogni altro tipo di principato è il fatto che il papato si acquista o per virtù o per fortuna, ma si mantiene senza l’una e l’altra, e un Leone X, che arriva dopo un Alessandro VI e un Giulio II che gli hanno fatto «potentissimo» il pontificato «con le arme», può ben sperare di farlo «grandissimo e venerando» con il sorriso sulle labbra, senza pantofole di raso ma con scarpe da contadino, temperando almeno a chiacchiere i rigori della dottrina, cioè – direbbe Niccolò Machiavelli – «con la bontà et infinite altre sua virtù». Perché non è affatto vero che «il fine giustifica i mezzi», frase che peraltro non gli è mai uscita di penna, ma è che a «uno principe [spetta] vincere e mantenere lo stato», ma, quando è papa, basta che lo vinca.
Di poi, «e’ mezzi sempre saranno iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati, perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa» e «nel mondo non è se non vulgo»: è il vulgo che giustifica i mezzi se sono congrui al fine, e se il fine è congruamente dissimulato. E non c’è vulgo più vulgo di quello che si compiace d’esser tale


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