Non
si ha ragione se non di qualcuno. È in
questa constatazione, ovvia solo quando sia palese il carattere asservente
della persuasione, che sta il riconoscimento della natura bellica della
retorica, d’altronde in premessa ad ogni sua trattazione sistematica. Anche il
folle che parlotta da solo combatte contro un avversario, ancorché immaginario,
anche il più duro cammino del saggio verso un’affermazione che egli possa
ritenere rettamente argomentata è un farsi largo tra ostilità che hanno una pur
aleatoria titolarità in fantasmatiche figure di contraddittori. Non c’è
ragionamento, senza che il foro sia campo di battaglia. E non v’è scrittura che
ne dia conto, senza che il suo registro sia – più o meno riconoscibilmente –
diario militare. Andrebbe scoraggiata, dunque, in chi la nutre, l’idea che la
meditazione intima e la discussione pubblica – tra di loro assai più simili di
quanto solitamente si pensi – siano officine in cui si costruisce pensiero: si
tratta, in realtà, di spazi in cui si consumano duelli, e non è affatto detto
che la vittoria premi chi meglio conosca la topica aristotelica o la logica
formale, anzi, tutt’altro.
Poco
più di un anno fa mi sono già intrattenuto sulla questione (Πολεμική τέχνη – Malvino, 27.9.2013), oggi ci ritorno perché in Petit traité à l’usage de ceux qui veulent toujours avoir raison di
Georges Picard (Librairie José Corti, 1999; qui in Italia: Archinto, 2002)
trovo uno straordinario equivalente di ciò che Il Principe di Niccolò Machiavelli rappresentò per la scienza del
governo, a rigettare la tesi che chi dia consigli senza farsi assistere dall’etica,
in fondo, e neanche tanto in fondo, sia un moralista che fa dell’ironia. Può
valere per L’arte di ottenere ragione in
38 stratagemmi di Arthur Schopenhauer, non per Georges Picard. In questo
delizioso libricino non v’è traccia alcuna di biasimo morale per l’uso del più
delinquenziale armamentario retorico, anzi, v’è il monito a considerare l’onestà
intellettuale un grave handicap: se «è
cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre,
quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati, o non biasimati; ma,
quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è l’errore et il
biasimo» (Il Principe, III), il
fine ultimo è la persuasione, cioè la conquista dell’uditorio, ed ogni mezzo si
misura sulla capacità di ottenerla, buono solo se efficace, quand’anche sia
scorretto: «l’errore et il biasimo» solo
nell’inadeguatezza al fine.
Per
trovare assennata la lezione di Georges Picard, bisogna considerarne incontestabili
le premesse: «si ha ragione di voler
avere sempre ragione, non conosco una sola postulazione più attraente e
produttiva» (pag. 19); «non è affatto
necessario aver ragione per pretendere d’aver ragione» (pag. 31); «soltanto gli ingenui possono credere che le
discussioni mirino a risolvere un problema o a chiarire questioni, in realtà la
loro unica giustificazione è di mettere alla prova la capacità dei partecipanti
nel disarcionare gli avversari» (pag. 41); «una volta liberati dal pregiudizio di credere che occorra possedere
una parte di verità per avere ragione, ci si sente più leggeri per affrontare
il combattimento» (pag. 45). Ora, se
«la polemica non è che la continuazione
del duello con altri mezzi», come scrivevo poco più di un anno fa, nel
sostenere che l’importante è vincere, Georges Picard scoraggia dal nutrire
scrupoli, alla faccia delle candide mammolette che la denunciano come pretesa che
rivela malattia mentale, velleità dispotica o entrambe le cose, perché
pretendere di aver ragione per il solo fatto di aver ragione è altrettanto
folle, né è immune da intento prevaricatore: vantare il diritto di
redarguizione sugli argomenti invalidi o erronei, infatti, e per il solo merito
di muoversi a proprio agio tra la topica aristotelica e la logica formale, non
implica un fine diverso dall’«avvicinare
o conquistare il potere e soddisfare l’inclinazione per il dominio materiale,
ma anche per imporre al mondo dei valori intellettuali, un’idea di giustizia,
una concezione della vita sociale, delle simpatie estetiche» (pag. 27), e
pensare di poterne avanzare la pretesa con armi inappropriate a persuadere l’uditorio
non dà esito diverso da quello che si ottiene con fallacie inefficaci.
Potrà
sembrare una tautologia, ma ha in sé la forza del più inoppugnabile realismo:
la vittoria spetta a chi vince, e la posta in gioco non è proporzionata alla
resistenza che l’uditorio oppone alla persuasione, ma alla capacità competitiva
dell’avversario, perché, se è vero che voler avere sempre ragione non consente mai
di trovare piena soddisfazione, è altrettanto vero che ogni vittoria dà
abbrivio alla competizione, come è illustrato dal paradigma del «pallido notaio di provincia […] [che], vedendo crescere il suo ascendente sui
compagni di aperitivo, […] [prova a] imporre
le sue vedute in materia di politica e di morale [ad una cerchia sempre più
ampia che] si trasformerà in club, poi in
partito, inarrestabile nel quartiere, più tardi nella città e, un giorno,
chissà, nel dipartimento, nell’intero paese» (pag. 28). E qui, a ben
vedere, siamo al punto in cui la πολεμική
τέχνη assume i caratteri di campagna militare, articolandosi in segmenti di
una strategia: è il punto in cui la natura mobile e contraddittoria di ogni
uditorio di notevole ampiezza impone uno straordinario controllo di momento e
contesto. In altri termini, siamo al livello in cui la persuasione produce un consenso
che implica una fidelizzazione. Siamo al discorso politico.
Non
importa quanto il sillogismo sia corretto, d’altronde Georges Picard non
pretende che lo sia ma che ci persuada, e bisogna ammettere che è estremamente
persuasivo: «La politica – dice – è l’arte di far prendere ai cittadini
lucciole per lanterne. Visto che in questo mondo ci sono più lucciole che
lanterne, è stato ragionevole definire la politica l’arte del possibile. È così
che la necessità obbliga i politici in buona fede ad agire al di qua delle loro
promesse, mentre quelli in mala fede agiscono in modo opposto. E sono proprio
questi ultimi a persuaderci, mentre i primi agiscono considerando la realtà
delle cose e l’irrealtà delle menti. Accade che, di solito, i cittadini
pretendano l’impossibile in tempi irrealistici. In una società di saggi, i
governanti si accontenterebbero di sviluppare i loro programmi senzamai
nascondere le lacune […] I saggi ne terrebbero conto senza pretendere interessi
di sorta, […] [ma] tanta franchezza
sembra azzardata in una moderna società democratica dove gli elettori
continuano a credere […] nell’efficacia quasi magica dell’azione pubblica sulla
felicità di ciascuno e di tutti. […] Si capisce perché la maggior parte dei
dibattiti politici si riducano a semplici esercizi di contabilità sociologica,
dove gli argomenti sono scelti in base a ben precise mire elettorali. I partiti
non cercano affatto d’aver ragione in assoluto: vogliono piuttosto aver ragione
di una ben determinata categoria di votanti» (pagg. 57-59). E qui possiamo
aggiungere: categoria in continuo rimodellamento plastico. Con quanto ne
consegue sulla scelta degli argomenti e sui modi e i tempi di proporli: la
vittoria spetterà a chi vincerà, e toccherà a chi meglio sappia usare mezzi
efficaci in un determinato momento, ma inefficaci prima o dopo, e per un lasso
di tempo di estensione congrua a farsi stagione.
[segue]
Sulla prima parte sarei curioso di sapere cosa risponderebbe Giovanni Fontana.
RispondiElimina