Un
po’
stupisce che Vilfredo Pareto, sempre acutissimo, qui incorra in un incidente argomentativo tanto increscioso. Il brano è tratto dal IV capitolo di Trasformazione
della democrazia
(1921) e a rivelarne il difetto logico non è neanche il fatto che
dia la democrazia in ottima salute praticamente alla vigilia della
Marcia su Roma, per giunta in una stagione in cui è messa in discussione innanzitutto sul piano teorico, quanto invece la confusione tra fede
e religione,
e quindi, mutatis mutandis, tra sostanza e forma della democrazia, che altrove sa peraltro tenere
ben distinte, seppur critico verso entrambe. Riprendendo il suo
esempio dalla novella del Boccaccio, cosa persiste alle male opere
dei prelati romani, la fede
o la religione? E cioè: quale prova di sostanza democratica è data dalla mera forma democratica? Si finge ciò che a molti è ben accetto, è vero,
ma questo non dà alcuna ragione del perché lo sia, né rende conto
di cosa esattamente sia ben accetto. Sempre per tenerci sull’esempio
proposto, Boccaccio può dare una spiegazione della conversione
dell’israelita
prendendo per buono il motivo che da quello gli è offerto (o
attribuendoglielo nella finzione narrativa), ma questo non scioglie
il dilemma se le male opere dei prelati romani indeboliscano e al
contrario rafforzino quella che di fatto non è la reale potenza della
fede, ma la sua mera rappresentazione (υποκρισιη).
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