Senza
dubbio attraente, per gli amanti del genere, l’ipotesi
di Sandro Veronesi sul Vangelo di Marco (la Lettura –
Corriere della Sera, 17.5.2015): sostiene che la raccolta di
detti di Gesù nota come fonte «Q»,
trasfusa nei Vangeli di Matteo e di Luca, non fosse ignota a
Marco, come si è sempre creduto, ma che da questi sia stata
deliberatamente espunta, perché poco adatta al pubblico romano, cui
il suo Vangelo sarebbe stato espressamente indirizzato. «Hai
davanti – scrive – il
più grande impero della storia, gente ricca, evoluta, che ha già
l’acqua calda in casa e schiavi a volontà, non puoi dire loro di
porgere l’altra guancia, o convincerli con le altre parole
contenute nel Discorso della Montagna. [...] Marco ha
tagliato delle parti per una questione di composizione: aveva chiaro
che doveva dialogare con l’immaginario epico dei romani. Il Vangelo
di Marco è il Vangelo dell’azione: è lungo la metà delle pagine
degli altri, e che cosa manca? Le parole, non le azioni. Ma i romani
non avevano alcun interesse nelle parole di un popolo che non
significava niente per loro. Le azioni, le guarigioni, i miracoli,
gli esorcismi invece erano entusiasmanti».
Brillante, ma non del tutto convincente, perché il Vangelo di Marco
non è affatto privo di affermazioni che potessero suonare
estremamente fastidiose alle orecchie dei romani, com’è
nel caso di Mc 10, 23 («Quanto
difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di
Dio!»). Basti pensare al modo col quale la società
romana di quei tempi reagisse a discorsi simili, com’è
nel caso di Seneca, che godé sempre di ottima reputazione, anche nei
momenti bui sotto Claudio, prima, e sotto Nerone, dopo, fatta
eccezione per le critiche, anche abbastanza acide, che gli piovvero
addosso quando osò svilire l’attaccamento
ai beni materiali, e che lo costrinsero subito a precisare che essere ricchi non fosse comunque ostacolo alla saggezza (De vita beata, 21). Se il
suo Vangelo mirava eminentemente a un dialogo con i romani, Marco
avrebbe lasciato quel paragrafetto?
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