Neanche
candidarli, quelli condannati. Via dalle liste, a ogni tipo di
elezione. Anche se condannati solo in primo grado? Sì, anche quella
era condizione ostativa. Valeva solo per le liste del Pd? No, il Pd
lo pretendeva anche per le liste dei partiti della coalizione che guidava.
Era
ieri, si tratta di quanto recitava il Codice etico in allegato
al programma che il Pd sbandierava alla vigilia delle elezioni
politiche del febbraio 2013. Potevano chiamarlo in altro modo –
chessò, Galateo elettorale – e invece no, quelle
disposizioni volevano avere la cogenza del codice, vantando di trarre
ispirazione da un imperativo morale.
E
allora suppongo mi sia lecito affermare che nel Pd, nel giro di due
anni, dev’esserci stata una profonda
revisione critica di quanto prima era etico e oggi,
palesemente, non lo è più. Palesemente, perché sostenere nel 2013 la candidatura
di De Luca a governatore della Campania avrebbe sollevato un
impedimento di natura morale, non ha importanza se solo nella forma dello scrupolo, mentre oggi, a quanto pare, non lo
solleva più, neppure declassando lo scrupolo a dubbio, a tatto, a ultima premura.
Oggi il Pd sostiene la candidatura di uno che due anni fa sarebbe stato incandidabile, e il sostegno è espresso nel modo più qualificato, dal segretario del partito. Il quale pare non abbia lesinato qualche scrupolo nel tentativo di evitare la candidatura che oggi appoggia senza porsi alcuno scrupolo. E così il cerchio si chiude.
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