giovedì 30 agosto 2018

Ci fu un tempo


Ci fu un tempo in cui quello che oggi è detto (molto impropriamente) populismo era assai meno arcigno (fiero di sé, ma con un indugio che poteva sembrare – e forse davvero era – pudore); e volgare, sì, ma mai troppo sguaiato (soffriva il biasimo di chi non lo poteva soffrire); e rifuggiva da posture smargiasse (tutt’al più esibiva l’orgoglio di un candore primitivo); e mai si sarebbe azzardato a rivendicare con l’alterigia del fesso giulivo lo statuto prepolitico (era ancora folk, mancavano decenni dal diventare bifolco); ma, più di tutto, neanche sapeva di essere populismo (non poteva saperlo perché nessuno gli aveva mai affibbiato quell’epiteto), e si limitava a dichiararsi “sentimento nazional-popolare” (così lo chiamavano, così si adattò a farsi chiamare). Ogni rinuncia all’articolazione era “nazional-popolare”, ogni compiacersi di semplicità, genuinità, schiettezza, che in realtà erano semplicismo, piattezza, trasparenza per mancanza di qualsivoglia spessore, erano “nazional-popolari”, e così le frasi fatte, i luoghi comuni, la più immediata apparenza di verità assoluta che anche la sola analisi grammaticale sarebbe stata in grado di decostruire in tautologia: tutto era “nazional-popolare” e, giacché al termine qualcuno aveva conferito la stessa dignità che si conferisce al tonto che può eventualmente diventare un Parsifal, il “nazional-popolare” cominciò a pretendere un blasone. E finì con l’ottenerlo. Grazie a Pippo Baudo, grazie a Toto Cutugno, grazie ai fratelli Vanzina, forse perfino grazie alle scoregge di Alvaro Vitali, e direi possa bastare, credo abbiate capito.
Molto è cambiato da allora, al punto che si fa enorme fatica a risalire lungo l’albero genealogico di questa schiatta, peraltro ricavando un certo disorientamento nel comparare all’oggi i suoi antecedenti. D’altronde, si sa, nessuno rimane uguale a quel che era, quando nel corso della sua evoluzione deve disfarsi di ciò che gli è di impaccio, per acquistare ciò che può tornargli utile per meglio adattarsi all’ambiente. Di converso: se l’ambiente non impone la selezione, che bisogno c’è di cambiare?
Vorrete un esempio, credo. Va bene, prendete Umberto Eco: dai primi anni Sessanta fino a due anni fa, quando morì, sempre uguale a se stesso. O quasi. Certo, l’accademico de Il problema estetico in San Tommaso aveva lasciato un po’ di spazio al mondano che si compiace di divulgare in modo accattivante e divertente, ma rimaneva il monumento che era: nessun bisogno di adattarsi a un ambiente che, pur cambiando, non gli mai stato ostile, se non dargli lo sfizio di riacconciarlo per il meglio – il suo meglio – con una svogliata abduzione del mignolo. Provate a comparare Apocalittici e integrati che è del 1964 con Il fascismo eterno che è del 1997 (quella del 2018 per La nave di Teseo è solo una ristampa) e con la tirata contro i social della lectio magistralis tenuta a Torino nel 2015: stesso caleidoscopio espressivo, stessa disinvoltura nel muoversi tra l’“alto” e il “basso”, stessa padronanza degli espedienti retorici, stessa seduzione del lettore nel volargli solo a un palmo sopra il naso per consentirgli di acchiapparlo, di tanto in tanto, dandogli così l’illusione d’essere un po’ più intelligente di quel che in effetti il lettore era. Poteva star sul cazzo per un sacco di motivi, via, ma in fondo tutti futili e tutti un po’ disonesti: era Umberto Eco – stop – e leggerlo era un piacere, come lo è il rileggerlo ora.
Prendete, per esempio, l’analisi di quel fenomeno eminentemente “nazional-popolare” che era Mike Bongiorno. Già, chi non ha letto Fenomenologia di Mike Bongiorno? Con l’odierno “populista”, ovviamente, il parallelo risulta sghembo, ma, tutto sommato, lantecedente storico era altrettanto cinico e violento, anche se aveva un tal ritegno da apparire goffamente disarmato, al punto da poter perfino spacciare un insulto come una innocente gaffe; fiero di quella supponenza che ieri come oggi non ha neppure un centimetro quadrato su cui poggiare, se non nella inscalfibile convinzione di sapere come gira il mondo; convinto di essere irresistibilmente brillante anche nei più eclatanti saggi di banalità; enciclopedia vivente del sentito dire e del leggiucchiato qua e là; e qui mi fermo perché – dicevamo – chi non ha letto Fenomenologia di Mike Bongiorno?
E sì, ma chi ha letto l’autodifesa di Mike Bongiorno al feroce ritratto fattogli da Umberto Eco? La trovate ne La versione di Mike (Mondadori, 2007 – pagg. 155-160). Non l’avete letta, vero? Lo immaginavo. È che a voi il “populista” fa schifo fin da quandera “nazional-popolare”. Tanto schifo da ritenere inutile sentire le sue ragioni, che saranno inconsistenti fin quanto vogliate, ma sulle quali ha potuto costruire nei decenni la tracotanza con la quale ogni sera esce dallo schermo televisivo per mettervi le zampe nel piatto. Lo faceva anche con Lascia o raddoppia? e con Rischiatutto, ma era assai meno evidente: sembrava un gattino, era divertente lasciarvi usare come tiragraffi, ma è così che ha sviluppato gli artigli. Ascoltando La versione di Mike, si possono fare i conti con le sue ragioni. Il che, se vogliamo dirci onesti, è il minimo dovuto per capire comè che al governo è più facile trovarci chi partecipò a un quiz di Mister Allegria che un “professorone”.
«[Umberto Eco] stabilì che ero diventato un uomo di successo perché rappresentavo l’ignoranza delle grandi masse […] [Scriveva:] “Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi”». Obiezione: «L’accusa […] inizialmente mi ferì. […] Ma già allora sentivo che il mio lavoro mi aveva portato a una conoscenza molto approfondita della psicologia della gente». L’ignoranza non è un problema quando ci si sente forte di una tal dote, no? Soprattutto se a questa dote se ne sposa un’altra, e cioè «la capacità di trasformarmi davanti alla gente con la quale interagivo», grazie alla quale può svilupparsi quella «sensibilità che mi ha permesso di assorbire da ognuno certe caratteristiche umane e di conoscere e di imparare con gioia le cose [sic!] della gente che ho incontrato, comprendendole con l’esperienza»: è il primato della bettola sullo studiolo, in virtù del quale Machiavelli avrebbe potuto scrivere il suo Principe anche rimanendo a ingaglioffirsi col beccaio, il mugnaio e i due fornai, e chissà che forse il libricino poteva pure venirgli più ganzo. A dispetto di questa “sensibilità” che nasce dall’“esperienza”, Mike Bongiorno scivola nellinsulto nel semplice dar forma di ovvietà agli stereotipi della discriminazione e del più becero conformismo? Può darsi, ma «la sincerità è una virtù». «Molti che hanno investito in arzigogolate forme di diplomazia politica lo hanno spesso dimenticato», e che fine hanno fatto? D’altronde perché mettere in dubbio che la sua “sincerità” sia fedele specchio del reale? L’audience non lo prova?

martedì 28 agosto 2018

Disclaimer per di là


Questo post stia a disclaimer per i quattro gatti che mi seguono su Twitter (un link di là, nel caso, rimanderà a questa pagina), risparmiandomi di precisare ogni volta in quale curva io segga: non sto in nessuna delle due curve, sto in tribuna numerata, e neanche trovo la partita molto interessante, anche se devo dire che la poltroncina è assai comoda. Mi distraggo spesso, diciamo, anche se in campo ne capitano di orride e di sbellicanti, il che potrebbe pure essere eccitante, ma il fatto è che il sangue scorre così male, per non parlare delle volte in cui nemmeno è sangue, ma sugo, mentre la merda è proprio merda, questo è vero, ma schizza in modi imprevedibili. 
Non è terzismo, sia chiaro: non sono indifferente alla partita, o comunque non del tutto. Di leghisti e grillini ho orrore e paura quanto basta (non di più, però), ma il fatto è che proprio non riesco a far mia la logica del fronte, che per il superiore interesse patrio mi dovrebbe costringere a fianco di un forzitaliota, a destra (a destra?), o di un piddino, a sinistra (a sinistra?). È solo colpa loro se i gialloverdi sono ormai consistente maggioranza in un paese che non era certo meglio prima, e che molto probabilmente non sarà meglio dopo (a proposito, chi è che si candida ad alternativa?).
Mi sia consentito di cedere al patetico (vedeteci anche una puntina di autoironia, però): ho sul groppone più di 61 anni e sugli scaffali più di 12.000 volumi, gli uni e gli altri mi impediscono di illudermi circa le virtù degli italiani, plebe sempre contenta d'esser plebe, sempre pronta a crocifiggere se stessa, ma solo in effige, per poi resuscitare sempre, ma solo in simulacro di popolo, per prontamente trasformarsi in canaglia.
Mi sento greco, giapponese, tedesco – perfino esquimese, talvolta – più di quanto mi senta italiano. Per meglio dire, credo di appartenere a quella snaturata sottospecie di italiani da sempre destinati a essere perseguitati (o almeno dileggiati, che forse è pure peggio) per il cattivo gusto di dire oneste sgradevolezze in pubblico o, più saggiamente, evitando dileggio e persecuzione, in privato. Il web mi è venuto a far confusione tra i due piani, e io, che non sono nativo digitale, mi ci sono trovato incastrato nel mezzo e, sfilato un piede dalla blogosfera, ho incastrato l'altro in Twitter, dove peraltro non sei padrone neppure della punteggiatura che usi, figurarsi della sintassi.
Mi piace la polemica, m'è sempre piaciuta, ma solo quando è seriamente argomentata (meglio se pure brillantemente argomentata), non quando scade a mero menar le mani, per esser reclutati da questa o quella banda.
Ora c'è che ultimamente vedo il fronte anti-gialloverde argomentare assai a cazzo di cane la sua polemica (e, se lo faccio notare, passo per gialloverde), mentre mi pare perfino avvilente stigmatizzare l'argomentare a cazzo di cane che è quasi connaturato ai gialloverdi (e tuttavia ci casco, la stigmatizzo, beccandomi regolarmente l'epiteto di “renziano”, che mi offende più che m'avessero toccato l'onore di mamma): e in entrambi i casi mi pento, e ci ricasco, e mi ripento. Per la prossima volta che dovessi cascarci, tanto stia a precisazione.