giovedì 28 novembre 2019

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Per come fu vergato da Alfredo Rocco nel 1930, e per come ancora per poco sarà dato leggerlo, l’art. 580 del Codice Penale non ammette distinguo: stessa pena (da cinque a dodici anni di reclusione) per chi istighi al suicidio, per chi rafforzi un proposito suicidiario e per chi in qualsiasi modo aiuti qualcuno a suicidarsi. Se inscritta nella logica che guarda alla vita come bene indisponibile, la cosa regge egregiamente. Un po’ meno, però, nell’arrivare ad affermare che la vita non sia nella disponibilità neppure di chi ne è titolare; ancor meno, poi, a voler dare un senso alla Costituzione nei punti in cui recita che «la libertà personale è inviolabile» (art. 13) e che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge [ma che] la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32).
Con la sentenza che la Consulta ha depositato lo scorso 22 novembre pare si prenda atto che il rispetto della persona umana sia leso allorquando la si obblighi a tollerare ciò che, in certe condizioni, ma solo in certe condizioni, ella ritiene intollerabile, perché viene affermata l’illegittimità costituzionale dell’art. 580, ma limitatamente al punto in cui «non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Se almeno in tali situazioni pare passi il principio che «su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano» (John Stuart Mill, 1859), non si può fare a meno di notare che nella sentenza residui comunque un’ultima resistenza all’accettare che la vita appartenga interamente a chi la vive, laddove si dichiara che il suicidio assistito è possibile solo in «una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale» e «previo parere del comitato etico territorialmente competente».
È evidente che tali limiti vengano posti a garanzia che la richiesta di eutanasia sia espressione di un proposito maturato in piena autonomia, al riparo dall’interferenza di ogni altro interesse che non sia quello del richiedente. È altrettanto evidente, tuttavia, quanta sovranità dell’individuo venga sacrificata col chiamare un «comitato etico» a giudicare sulla legittimità della sua richiesta, cui poi solo un «servizio sanitario nazionale» potrà dare legittima risposta. In buona sostanza, siamo in presenza di una soluzione di compromesso, perché, contrariamente a quanto afferma chi più di tutti si è battuto perché l’art. 580 fosse messo in discussione, la sentenza non «cancella la concezione da Stato etico che ha ispirato il Codice penale del 1930» (Associazione Luca Coscioni), ma si limita a registrare che lo Stato mitiga il suo dettato etico, senza però rinunciare a dire l’ultima parola sulla vita dell’individuo, pretendendo sia vincolante almeno relativamente a condizioni e modalità di esecuzione della decisione eutanasica: pur sempre «etico» il «comitato», pur sempre «pubblica» la «struttura», e a nessuno credo sfugga che tutto questo implichi firme e timbri, istanze e attese, ciò che insomma fa negozio e ufficio, in senso stretto e in senso lato.
Diciamo che questa sentenza è abbastanza perché chi è a favore dell’eutanasia possa affermare che si sia in presenza di una «sentenza di portata storica», per quanto essa si limiti a prendere in considerazione il diritto di autodeterminazione solo del paziente che sia attaccato a una macchina. Abbastanza, però, anche perché chi, contrario all’eutanasia, potrà ben dire che quella ora possibile è solo un’«eutanasia a metà», giacché «la concreta applicazione della sentenza» è affidata ai medici, chiamati a decidere «se restare fedeli al giuramento ippocratico o rinunciare a un ruolo di difensori della vita che ha resistito per secoli» (Il Foglio, 23.11.2019).
Viene così a riprodursi quanto è già accaduto con la legge 194 del 22 maggio 1978, che, a ben precise condizioni e con ben precisi limiti, veniva a consentire l’interruzione volontaria della gravidanza, ma solo se effettuata in una struttura pubblica, previo negozio e ufficio, istanza e attesa, firma e timbro (art. 8): lì l’aborto, qui il suicidio assistito, sono possibili solo nell’ambito del servizio sanitario nazionale, e chi è contrario all’uno come all’altro, e non riesce a digerire che la legge li consenta, può ben sperare che a impedirli o almeno a renderli difficili possa soccorrere quella obiezione di coscienza che spesso i medici operanti nelle strutture pubbliche oppongono al compito cui sono chiamati. Poi, certo, ogni tanto viene pizzicato un Dottor Dobermann cui si scopre «rend[a]no molto bene in privato» «le cose che [gli] secca fare in pubblico» (Francesco De Gregori, 1989), ma questo nulla toglie alla solidità del principio in virtù del quale «il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico può rifiutare la propria opera» (Codice di Deontologia Medica, art. 19). Che sarebbe assai più solido, tuttavia, se tale contrasto non avesse luogo in strutture pubbliche deputate a prestazioni che le leggi dello Stato dicono legittime in patente oltraggio a una coscienza che dovrebbe essere comune a tutti i medici, giacché tutti i medici hanno giurato: «Non darò a nessuno un farmaco mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio; similmente non darò a una donna un pessario abortivo». È il Giuramento di Ippocrate, naturalmente, quello cui faceva cenno Il Foglio: dovrebbe vincolare tutti i medici, no?

No, non va bene, troppa premessa, e troppa inutile ironia. Tutto daccapo, via.



A commento della sentenza n. 242/2019 della Consulta, che dichiara parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., aprendo così la strada alla possibilità di suicidio assistito, seppur limitatamente ad alcune condizioni, un editorialino de Il Foglio di sabato 23 novembre chiudeva a questo modo: «Tutto adesso ricade sulle spalle dei medici: è a loro che è affidata la concreta applicazione della sentenza, è a loro che tocca stabilire se restare fedeli al giuramento ippocratico o rinunciare a un ruolo di difensori della vita che ha resistito per secoli»Evidente l’appello all’obiezione di coscienza, evidente l’argomento scelto a dargli forza: tener fede a un giuramento, quello di Ippocrate, che trarrebbe autorità dalla tradizione.
Il dispositivo retorico a sostegno, ancorché tutto implicito nell’antonomasia di un Ippocrate che, a piacere, sta a idea platonica di medicina o a santo patrono della professione medica, è il seguente: il testo è del V sec. a.C., è stato Orsa Maggiore per generazioni e generazioni di medici, e mai nessuno ha osato metterlo in discussione, tantomeno nel punto in cui recita «non darò a nessuno un farmaco mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio», vogliamo metterlo in discussione adesso, signori medici?
Non è la prima volta, di certo non sarà l’ultima, che al Il Foglio parrà di poter conferire valore ultimativo a questo genere di argomentazione, ma mai come nel caso del Giuramento di Ippocrate la scelta pare infelice. Questo perché chi ha un minimo di conoscenza relativa a quel testo sa bene che quel passaggio è aggiunta assai posteriore al V sec. d.C., per la precisione del periodo in cui i cristiani cominciano a manipolare il manipolabile della cultura pagana.
Risparmiandoci quanto è ormai ampiamente provato sul piano filologico (cfr. Entralgo, Sigerist, Pazzini, Lami, ecc.), basti pensare alla Atene in cui Ippocrate visse: il suicidio assistito era pratica corrente, e nessun biasimo morale pesava su di esso (si pensi a Socrate, che, nel bere la cicuta, rende grazie proprio a quell’Aclepio sul quale si vorrebbe che Ippocrate giuri che non darà mai a chicchessia un farmaco mortale), per diventare addirittura una topica, con gli Stoici. Possiamo immaginare che Ippocrate abbia dato vita a una corrente di pensiero dissidente rispetto a questo tanto comune sentire? Non si ha traccia di consimili difese a oltranza della vita prima dell’avvento del cristianesimo, tantomeno in relazione  a scelte eutanasiche motivate dal preservare la dignità della persona a fronte dell’insulto ad essa inferto da malattia, disonore, coartazione, ecc.
Ecco perché l’appello che Il Foglio rivolge ai medici in nome di Ippocrate vale quanto varrebbe la resistenza della Cei a pagare l’Ici in nome della Donazione di Costantino. Solo che la Cei è assai più seria, e se ne astiene.


lunedì 4 novembre 2019

Momenti ordinari con applausi veri




Non sapevo che «Lucca Comics & Games è una fiera internazionale dedicata al fumetto, allanimazione, ai giochi (di ruolo, da tavolo, di carte), ai videogiochi e allimmaginario fantasy e fantascientifico, che si svolge a Lucca, in Toscana, nei giorni tra fine ottobre e inizio novembre» (Wikipedia), lho appreso solo ieri sera, ma sarei ipocrita a fingere imbarazzo per il ritardo col quale sono arrivato a colmare la lacuna: fumetti, videogiochi e fantasy non sono mai stati fra i miei interessi, e le fiere, in generale, mi danno lorticaria. Poi cè che, come da tempo mi ripete il Mantellini, e ha ragione, io sono «vecchio», e qui le virgolette non stanno a mettere in discussione lincontestabile dato anagrafico di uno che è del 57, quanto a dar conto di una natura, una postura, uninclinazione, non saprei come definirla, che è mia da sempre (in tal senso direi che sono nato «vecchio»), e che mi ha sempre reso impossibile il frenetico uptodating che è lo sport preferito dall’uomo di mondo: cos’altro poteva rendermi nota l’esistenza di qualcosa totalmente estraneo ai miei interessi se non l’eterna giovinezza di chi è perennemente immerso nel refreshing? Ma così divago, torniamo al Lucca Comics.
Ci arrivo grazie a un tweet di @repubblica che rimanda al video col quale ho aperto questo post, stralci degli interventi tenuti da Manuel Agnelli e Gian Alfonso Pacinotti (Gipi) nel corso di un dibattito pubblico ospitato da quella che così ho scoperto essere «la più importante rassegna italiana del settore, prima dEuropa e seconda al mondo, dopo il Comiket di Tokyo». Quel ha subito attirato la mia attenzione non è stato tanto il virgolettato che nel tweet si offriva a sintesi dellopinione espressa dai due («Internet è unoccasione sprecata»), che pure ha indubbio motivo di interesse, e che qui infatti mi ripropongo di affrontare, ma cosa potesse motivare laccoppiata, ancor più rispetto a un tema sul quale non mi pare che un musicista e un fumettista possano vantare particolari competenze.
Il video non me ne ha dato spiegazione, mentre qualcosa in più mi è venuto dallintervista concessa dai due a Valeria Rusconi: «Cosa vi unisce? “Innanzitutto il fatto che siamo due appassionati di arti marziali”... “Fino a due anni fa non ci conoscevano”, spiega Gipi... “Io lo conoscevo, invece, e mi piacevano tantissimo le sue cose”, dice Manuel... Vista la vostra amicizia collaborerete, prima o poi? “Cè questo desiderio di fare qualcosa insieme... Il problema è cosa fare? Lo vedremo...» (repubblica.it). Tutto un po più chiaro, no? Il fumettista presentava il suo ultimo lavoro: trattandosi di una fiera dedicata al fumetto, mi pare la cosa più normale al mondo. E si era fatto accompagnare da un amico: anche qui, niente di strano. Ma lamico era anche lui un volto noto e, ancorché centrasse poco coi temi cui era dedicata la fiera, è comprensibile gli si porgesse il microfono: normale, forse, non tanto; ma comprensibile, senzaltro. Poi cè che ai volti noti si è soliti chiedere di esprimere un parere sui temi del momento, tra i quali oggi il web è senza dubbio uno dei più gettonati. Opinioni personali, comè ovvio, e spesso assai poco qualificate. Ma il vip è interessante di per se stesso, e anche questo, dunque, è comprensibile. Un po meno comprensibile, forse, è che, per il solo fatto di essere espresse da volti noti, a certe opinioni venga conferita unautorevolezza che non si capisce donde possa discendere, visto che lattore è interpellato sul fenomeno migratorio, il cantante sul global warming, lo chef sulla guerra dei dazi tra Usa e Cina, ecc. Ma il mondo va così, occorre farsene una ragione.
Tutto in regola, dunque. Sullo stesso palco del Lucca Comics, al posto di Manuel Agnelli, a dire che «la nostra natura fa schifo» e che «Internet è una tragedia», potevano esserci a buon diritto – lo stesso identico diritto – anche, chessò, Walter Veltroni, Valentina Nappi, Alex Zanardi, il cardinal Ravasi, Nunzia De Girolamo, Claudio Cerasa e CiccioGamer89. Rettifico: CiccioGamer89 molto di più, perché il Lucca Comics è dedicato anche ai videogiochi e, in quanto allautorevolezza dovuta allessere un volto noto, CiccioGamer89 su Facebook ha 239.000 follower, tre o quattro volte in più di quanti ne hanno Veltroni, Ravasi e Cerasa messi assieme. Diciamo che, in quanto ad autorevolezza e a pertinenza di contesto, con Manuel Agnelli ci siamo dovuti accontentare.
Poco male, però, perché lopinione da lui espressa è emblematica di uno stato l’animo comune a tanti, quello della amara disillusione per una speranza tradita. Parla di Internet, ma, se ci fate caso, il modulo argomentativo è sovrapponibile a quello di chi lamenta che la democrazia è stata fatta fuori dal populismo: «Abbiamo avuto la possibilità di avere una libertà fantastica... e l’abbiamo sprecata, l’abbiamo buttata via... la gente ha dimostrato che quello spazio di libertà non lo sa usare»«Una tragedia»: potevamo star lì a chiacchierare, «io, Clinton e Putin», ma poi sono arrivati i bifolchi e – puf! – è scoppiata la bolla. Come non sentirci dentro la dolente eco di quanti ritengono che la «gente» faccia un buon uso della libertà solo quando in linea coi propri canoni etico-estetici, dimostrando di non meritarla quando non li rispetta? Direi che in buona sostanza siamo dinanzi al politico che plaude alla grande prova di democrazia data dalle elezioni che lo hanno visto vincitore, ma, quando perde, avanza qualche dubbio sul suffragio universale: non sarebbe il caso di concedere il voto solo a chi sa usarlo come si deve?
Gipi non arriva a tanto, anzi, sembra rivolgere perfino una critica a chi non sa stare al gioco democratico del confronto alla pari e sul web riproduce la «struttura feudale» del «signorotto che fa il suo tweet acuto» coi «servi della gleba che commentano e non ottengono mai una cazzo di risposta che sia una». Di più: lo fa da una posizione di relativo privilegio, perché può vantare «100.000 follower», e tuttavia risponde a tutti, sebbene i suoi pari cerchino di dissuaderlo («ma perché ti abbassi al loro livello?»). Niente, lui rimane un sincero democratico, e risponde a tutti, anche se è costretto ad ammettere che però «ci sono persone che decidono di dedicare la loro vita al peggioramento di sé», in sostanza a scendere ad un livello al quale davvero non vale la pena di scendere.
Questione di livelli, come è evidente. Ci sono quelli alti e quelli bassi, va da sé. E Internet ha il difetto di non riuscire ad evitare che possano intersecarsi. E quando si intersecano – ahilui! – il vip soffre. Verrebbe da chiedersi perché si senta costretto a tanto. In altri termini, perché sta sul web? Più brutalmente ancora: un vip che twitta, che ha una pagina su Facebook, che ha un blog aperto a commenti, ecc. – esattamente – cosa vuole? Che cerca? Cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante, ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione in rete? Ho già affrontato la questione in passato, sarò costretto a ripetermi.
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo nella disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato e per dar sfogo in questo modo alle sue misere frustrazioni. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Non twitta certo per vincere la solitudine, il vip, né sta su Facebook perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni. Si è visto, no? Sei un rocker, coi fumetti non c’entri un cazzo, di Internet ne sai quanto chiunque, ma Lucca Comics pende lo stesso dalle tue labbra anche se non hai altro da offrire che una sgangherata geremiade.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, per le sue prestazioni professionali, anche a gratis, per il dichiarato intento di socializzare? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si supporrebbe sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso retwittano anche gli insulti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi. Ma la conferma che il vip frequenta i social per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan, la troviamo ovunque. E si tratta di momenti ordinari con applausi veri.