Io
non vedo alcun risultato positivo in ciò che Renzi ha combinato da
quando è capo del governo, anzi, ci vedo realizzato in buona misura
il pericolo che vado segnalando fin dalla prima Leopolda, quando
il serpente era nell’uovo, e non era detto che arrivasse alla
schiusa, sicché mi limitavo all’ironia. Sottovalutavo l’ottusità
del paese che di lì a qualche anno l’avrebbe incoronato come
opzione senza alternativa, un paese che pure ho sempre ritenuto
ottuso, ma non al punto da farsi fottersi da un Renzi dopo essersi
fatto fottere per vent’anni da un Berlusconi. Sbagliavo,
ovviamente, e in fondo tutto ciò che ho scritto su Renzi da quando è
capo del governo può esser letto come denuncia del guasto che
affligge il paese piuttosto che come accusa a chi gli dà ciò che
merita. In buona sostanza, io mi riconosco nel gufo cui Renzi
rinfaccia di non essere disposto a farsi fottere. Anzi, per meglio
dire, in quel gufo mi riconoscevo fino a qualche ora fa, perché
qualche ora fa, alla Direzione nazionale del Pd, Renzi ha detto che
«non
valorizzare i risultati positivi [che fin qui sarebbero dovuti al suo
governo] oggi non è da gufi, ma da persone che non aiutano la
propria comunità».
Chi non è disposto a farsi fottere, insomma, è un sociopatico. Ci
manca solo scatti l’imputazione
di sabotaggio, chissà che non stia pensando a un ritocchino al
codice penale. Bene, io non voglio essere preso in contropiede e con
questo post do un taglio. Grazie per l’attenzione fin qui concessami,
ciao a tutti.
venerdì 7 agosto 2015
giovedì 6 agosto 2015
mercoledì 5 agosto 2015
[...]
Da
ansa.it
apprendo che giovedì 6 agosto lo Zimbabwe presenta all’Expo
lo zebraburger, hamburger con carne di zebra, variante del cocroburger, hamburger con
carne di coccodrillo, che sempre lo Zimbabwe ha presentato all’Expo
a metà luglio, e che pare sia andato a ruba. Toccagli il leone Cecil, agli zimbabwesi, e si incazzano di brutto, ma zebre e coccodrilli te li buttano in faccia. Idem per gli animalisti, di cui non ho notizia di proteste per il cocroburger, sicché suppongo se le risparmieranno pure per lo zebraburger. Probabilmente non c’è contraddizione, la vedo solo io, dunque fate finta che queste righe siano la confessione di uno che comincia a far fatica a spiegarsi le cose.
martedì 4 agosto 2015
Di ragni e di cavalli
Sull’immunità
parlamentare ho già detto cosa penso, qui mi limiterò a dire che in
tutte le sue forme, anche in quelle che alcuni ritengono
eccessivamente ridimensionate dalla revisione dell’art.
68 della Costituzione, è un istituto che ha perso ogni funzione di
garanzia per diventare solo un odioso privilegio.
Si prenda il primo
capo del suddetto articolo: «I
membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle
opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio
delle loro funzioni».
Poteva avere un senso, in passato: tutelava l’oppositore
che un regime avesse l’intenzione
di rendere inoffensivo servendosi di una magistratura debitamente
asservita. Ma oggi? Si prenda, per esempio, un’opinione
che esprima contenuti ipoteticamente discriminatori in ordine alla
razza, e la si metta in bocca – uguale in tutto, fino alla virgola
– ad un comune
cittadino, prima, e ad un parlamentare, poi: perché, se giudicata
offensiva in un caso, dovrebbe rimanere impunita nell’altro? Per
meglio dire, cos’è che la rende inoffensiva in bocca ad un
deputato o un senatore? Cosa dovrebbe giustificare il fatto che chi
sia stato fatto oggetto di questa offesa possa aspettarsi di avere
giustizia nel primo caso, e non nel secondo?
Così al secondo e al
terzo capo, che recitano: «Senza autorizzazione della Camera
alla quale appartiene, nessun membro
del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione
personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti
privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo
che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se
sia colto nell’atto
di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta
per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in
qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza».
Sorvolando sull’efficacia
sostanzialmente nulla di perquisizioni o intercettazioni
preliminarmente annunciate a chi debba esserne fatto oggetto, resta
la questione dell’autorizzazione
della Camera a che la magistratura possa procedere nelle
attività di accertamento di un reato e all’eventuale richiesta di
misure cautelari che essa ritenga necessarie in attesa del processo.
Qui ritengo sia da sospendere ogni considerazione relativa allo stato
dei fatti nel nostro ordinamento – io per primo considero
indispensabile modificarlo in più punti, innanzitutto a garanzia di
chiunque non abbia subìto ancora una condanna definitiva – ma di
appuntare l’attenzione sulla patente disparità di trattamento a
carico di un comune cittadino o di un parlamentare per quanto attiene
all’eventualità che essi abbiano commesso lo stesso reato: è
scorretto affermare che il primo abbia molte più possibilità di
essere condannato rispetto al secondo? Trattandosi dello stesso
reato, è giusto che chi ne abbia subìto il torto dal primo abbia da
attendersi maggiori possibilità di ristoro rispetto a chi l’abbia
subìto dal secondo? E in virtù di quale garanzia che in questo
secondo caso sarebbe necessario assicurare a chi ha commesso quel
reato?
In quanto al fatto che spetti al Parlamento concedere alla
magistratura l’autorizzazione a trattare un parlamentare come un
comune cittadino, la questione rivela molti punti critici, peraltro
eloquentemente illustrati da numerosissime vicende che sono scorse
lungo i decenni di vita di Camera e Senato. Alle Giunte cui i due
rami del Parlamento demandano il compito di individuare un eventuale
fumus persecutionis nelle iniziative della magistratura a carico di
un parlamentare spetta il compito di relazionare alle assemblee se ne
hanno trovato traccia o meno, ma è a queste ultime che spetta
l’ultima parola, che non di rado – l’ultimo caso è quello del
senatore Antonio Azzollini – smentisce il parere di chi ha potuto
approfondire meglio il caso. A stretto rigor di logica, se ne
potrebbe dedurre che le Giunte per l’autorizzazione a procedere
siano del tutto inutili: se ogni deputato ed ogni senatore è in
grado di arrivare a un libero convincimento sul caso di volta in
volta in oggetto, facendo a meno del preliminare lavoro di studio che
un organo appositamente designato allo scopo dedica alle carte
inviate al Parlamento da quella o quella Procura, non si capisce che
senso abbia lo spreco.
Un discorso a parte meriterebbe la natura
della libertà che porta a convincimento un deputato o un senatore
circa l’opportunità che un suo pari sia trattato come un qualunque
cittadino o non abbia a godere di un trattamento di favore, ma è
evidente che su questo punto non arriveremmo mai a cavare un ragno
dal buco, salvo l’uso di strumenti inopportuni e, tutto sommato,
inefficaci. Tuttavia sembra che la delicatezza di quest’ultima
questione non sfugga al nostro beneamato Guardasigilli, che oggi
dalla pagine di un quotidiano a larga tiratura butta lì un’ipotesi
quasi a veder che effetto faccia: affidare alla Corte Costituzionale
il compito di concedere o meno l’autorizzazione a procedere a
carico di un Parlamentare. Come se avesse ben chiaro che razza di
ragno stia nel buco.
Superfluo dire che l’idea sembri avere mero
intento autopromozionale, tanto più se si considera che ad Andrea
Orlando non sfugge il ragno, ma neanche il fatto che l’idea
necessiterebbe di una riforma costituzionale per attribuire alla
Corte Costituzionale un compito che la Carta non le attribuisce, e
allora campa cavallo, tanto più che sul cavallo c’è la Boschi che
di certo non sarebbe disposta rimetter mano alle sue riforme per
infilarci la proposta del signor Guardasigilli. Che in questo modo ci
guadagna il suo bel figurone di gran conoscitore di ragni e di cavalli.
lunedì 3 agosto 2015
«Ricetta per l'Italia»
Da affaritaliani.it copio-incollo la «ricetta per l'Italia» di Marco Rizzo, leader del Partito Comunista (ilpartitocomunista.it):
«Essendo a conoscenza della differenza che ci sarebbe tra “avere” il potere ed “esser” al governo (la stessa differenza che passa dalla Rivoluzione alle Elezioni), spiego comunque quella che sarebbe la ricetta per l'Italia del Partito Comunista:
- Rottura unilaterale dei trattati economici e politici europei e di quelli militari con la Nato.
- Remissione del debito estero (con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori).
- Nazionalizzazione di tutte le banche e le grandi imprese con affidamento di gestione e controllo ai lavoratori.
- Tutti i settori strategici della Nazione (sanità, trasporti, formazione, grandi cantieri ecc…) assumono carattere statale ed annullano qualunque precedente privatizzazione.
- Viene istituito il salario minimo da lavoro garantito per tutti.
- Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari.
- Sono equiparati i contratti di lavoro ed ogni diritto per i cittadini italiani ed i migranti. Tutti sono tenuti al rispetto totale della legalità socialista, pena severe sanzioni previste dal nuovo codice penale.
- La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza.
- È ristabilita la leva militare obbligatoria per il nuovo Esercito Popolare.
- Lo Stato Socialista è laico. Sono permesse tutte le religioni (senza alcuna spesa per lo Stato), sono aboliti i Patti Lateranensi».
È da quel «ricetta» che inizierei l’analisi del testo: sta per «programma», è ovvio, ma il termine ha un evidente richiamo alla preparazione in ambito gastronomico. Dice niente? Bravi, anch’io pensato subito alla cuoca di Lenin. Senza dubbio, infatti, qui siamo di fronte ad un timballo nel quale son presenti molti ingredienti della cucina comunista (esproprio, nazionalizzazione, leva obbligatoria, ecc.). La cuoca che Lenin sosteneva avrebbe ben potuto amministrare la cosa pubblica, tuttavia, era il risultato di quella rivoluzione che invece lo stesso Marco Rizzo non ha difficoltà a concedere sia cosa ben diversa dal raccogliere consenso su un programma di governo. Ma poi, siamo onesti, si è mai vista una cuoca a capo del Cremlino? Quello di Lenin era un paradosso, via, e in ogni caso calava in tutt’altro contesto da quello in cui cala Marco Rizzo, pure lui bel paradosso, senza dubbio, ma qui senz’altro fine che darsi per sproposito.
In altri termini, invece di dirci come ha intenzione di prendere il potere, il leader del Partito Comunista ci espone la sua agenda dei primi 100 giorni, al pari di un qualsiasi spacciabubbole a capo di un partito borghese. Lungo la lista, peraltro, non si scorge traccia di quel caposaldo della dottrina marxista-leninista che commisura il fine al mezzo, e non dà l’uno senza l’altro.
Non è tutto. Per quasi ogni ingrediente non è indicata la dose. Non vengono indicati tempi e modi della preparazione. Ma quello che per certi versi arriva addirittura a dare una puntina di sconcerto – non più di una puntina, ovviamente – è il fatto che la nostra cuoca non sembra avere neanche i fondamentali della cucina comunista, o almeno faccia di tutto per dar mostra di ignorarli.
Si prenda, per esempio, il punto 8: «La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza». Quali saranno mai, questi «criteri di uguaglianza», in grado equiparare i possessori di seconde case a quanti ne posseggono una sola? In relazione al punto 6 («Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari»), quali «criteri di uguaglianza» reggono l’assegnazione di una casa a chi non l’ha e il fatto che chi ne abbia due, di cui una necessariamente sfitta, possa conservarle entrambe? E qual è il parametro che farà la differenza tra «grandi proprietà immobiliari» e quelle medie o quelle piccole? (Analogo problema si pone al punto 2, con la «remissione del debito estero, con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori», che è cosa semplice a dire e pressoché impossibile a fare: quanto «piccolo» dovrà essere il debito, e farà differenza se i «piccoli risparmiatori» hanno investito in titoli azionari?) E come dovrà intendersi il trasferimento delle proprietà confiscate dai vecchi ai nuovi proprietari? Voglio dire: vi sarà intermediazione di proprietà da parte dello Stato e, nel caso, con quali strumenti giuridici?
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.
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