La
serata era deliziosa, la cena era squisita, la compagnia era tanto,
ma tanto, tanto perbenino, di quelle compagnie che, se a qualcuno, e
chissà come, scappa un «cazzo!», le signore arrossiscono facendo
finta di non aver sentito e i signori esprimono il loro biasimo con
leggeri colpetti di tosse. Poi, d’un tratto, quando tutto fin lì
era stato pure troppo amabile, perfino con qualche cedimento
all’affettazione, e già si era alla crema catalana, copia perfetta
della splendida luna piena, la discussione è caduta sull’audiolibro
(chi ha avuto la sciagurata idea di farvi cenno l’ha chiamato
audiobook, il che sospetto abbia contribuito in modo decisivo a
risvegliare le opposte reazioni alla «cosa nuova», di qua la
diffidenza prossima al rigetto, di là la curiosità incline
all’entusiasmo, sopite anche in chi è un campione di moderazione),
e allora la terrazza è diventata un’arena in cui retiarii e
secutores hanno dato il meglio dei rispettivi repertori, insomma, è
mancato poco che volassero i bicchieri. Per l’audiolibro, poi. E
tra personcine che pure su temi irrimediabilmente divisivi non avevo
mai visto negarsi preziose formule di reciproca tolleranza
confetturate in leziose glasse di carineria.
Ho provato a stemperare
la tensione: «Certo che siete tipi strani, sapete? Pro o contro la
riforma costituzionale di Renzi – ho detto – tre anni fa qui era
tutto un “comprendo, ma...”, “la tua posizione è legittima,
tuttavia...”, “hai ragione, però...”. E l’anno
scorso, quando c’è
stata la calata dei barbari, a questo stesso tavolo se n’è
discusso come si trattasse di un acquazzone ad agosto, e pure chi era
più preoccupato annuiva a chi, più tranquillo, diceva: “Vabbè,
ma quanto può durare?”. Poi, stasera, quasi vi sgozzate su una
questione non assai dissimile da quella che negli anni Cinquanta
opponeva chi era affezionato alla stilografica e chi preferiva la
biro. E sì che qui non guasterebbe affatto un po’
di tolleranza e di equilibrio...». Parole al vento, perché ho
ottenuto solo che lo sgozzarsi avesse una peraltro breve parentesi sulla
stilografica e la biro: «Vuoi mettere la varietà del tratto che si
esprime nella pressione sul pennino?», ha detto uno; «Sciocchezze,
parliamo di scrittura o di disegno?», gli ribatteva un altro; e
«sciocchezze» aveva effetto di una rasoiata.
Estromesso
dall’accapigliamento per manifesta insensibilità alla portata
della questione – se cioè «Proust va sentito con tutti e cinque i
sensi, e la lettura li consente, l’ascolto no» o se «Proust è
flusso di memoria e nulla meglio di una voce può dargli scorrimento»
– mi sono riservato di venirne a parlar qua, con voi che siete
gente d’altra
pasta, e Proust siete capaci di gustarvelo comunque, e senza fare
tante storie, in lingua originale e in italiano, in Braille e a
fumetti.
E dunque. Comincerei col dire che audiolibro è termine
improprio per la genericità di ciò che è «libro»: è ragionevole
credere si possa ridare in audiolibro un saggio, un trattato, un
manuale, un dizionario? Non scherziamo, neanche su un tablet potranno
accostarsi alla resa che ne dà il cartaceo, che lì sopra sarà raggiunta, e a
stento, solo da giornali e riviste: l’avanti-e-indietro che impone
la lettura di un saggio (di un saggio serio, voglio dire, a dispetto
del definire saggi, oggi, le amene chiacchierate di certi talentuosi
intrattenitori), il salto di pagine che è inevitabile nella
consultazione di un lemmario, l’indispensabile
ripetizione a blocchi e sottoblocchi che impone la trattatistica,
saranno mai consentiti da un file audio? Ma neanche a farsi venire la
ialinosi all’abduttore
del pollice tra stop e replay. Sicché è bello sentir dire:
«Dostoevki mi fa tanta compagnia in auto», ma portaci de Saussure,
e poi mi fai sapere.
Non audiolibro si dovrebbe dire, ma
audioracconto, audionovella, audioromanzo: solo la narrazione (ancor più, la poesia) consente di affiancare, senza pericolosi scollamenti, testo e
ascolto, e anche lì non è da escludere che qualcosa possa andar
perso a causa della mediazione tutta arbitraria dell’interpretazione
data dalla voce narrante, che invece la lettura lascia al lettore, a
suo vantaggio o discapito.
Mi si dirà che però con la musica funziona:
c’è uno spartito e c’è l’esecuzione, si può tranquillamente
scegliere il Bach che si ritiene più fedele alla notazione. Certo,
ma quante versioni di Moby Dick abbiamo/avremo in audiolibro per
poter compiere la stessa scelta? Un rischio c’è,
ma – sia chiaro – è giusto venga data a tutti la libertà di correrlo o
meno, e questo rischio è che, dopo aver ascoltato una prima versione
del Moby Dick, sarà difficile venga voglia di ascoltarne una
seconda, e Melville sarà per sempre uguale a se stesso, cioè al
Melville ascoltato la prima volta. Così con il riascolto, che non potrà mai consentire un processo di rielaborazione simile a quello della
rilettura.
Anche qui prevedo un’obiezione:
non accade la stessa cosa con la riduzione di un romanzo in un film?
Certo, ma romanzo e film rimarranno sempre ben distinti, mentre un
audiolibro giocoforza sostituirà il libro da cui è tratto.
E
dunque, sì, ci si accosti a Dostoevski come meglio si creda –
sempre meglio che perderselo – ma non si pretenda di poter dire, dopo
averne ascoltato un audiolibro: «Ho letto I fratelli Karamazov». Non l’hai
letto: te lo sei fatto leggere, risparmiando tempo ma perdendo altro, e di più.
En
passant, sarebbe corretto riconoscere l’antecedente dell’audiolibro nella radionovella brasiliana degli anni Quaranta, dichiaratamente
destinata «para aqueles que não têm tempo para ler».