Parliamo
di sardine, vi va? Bene, allora comincerei col dire che ritengo
impropri i termini che sono in uso per indicare l’ordine
(Clupeiformes) e la famiglia (Clupeidae) in cui Walbaum
sistemò la Sardina pilchardus, e questo perché tutte le
fonti antiche che fanno cenno alla clupea (Ennio, Plinio,
Ausonio, ecc.) ce la descrivono come pesce assai simile alla lampreda
(Petromyzon marinus), che ovviamente non ha niente a che
vedere con la sardina. D’altronde c’è da capirlo, povero
Walbaum, ai suoi tempi il Systema naturae di Linneo era una
Bibbia e lì dentro l’aringa, in tutto affine alla sardina fatta
eccezione per la taglia, era Clupea harengus, ordine
Clupeiformes, famiglia Clupeidae, e quindi...
Vi
sto prendendo in giro, penserete. Ma no, vi stavo solo
didascalizzando – in modo grossolano, convengo – uno dei più
comuni infortuni in cui si incorre quando ci si mette a discutere
senza un preliminare accordo sul significato da dare al termine che
designa l’oggetto in discussione, dando per scontato sia superfluo,
quando invece molto spesso non lo è affatto. Molto parlare a vuoto
si consuma proprio in questo modo, non credete?
Qui,
per evitare l’infortunio in cui celiavo di coinvolgervi, bastava
dire Sardine
o «sardine»:
la maiuscola o le virgolette avrebbero fatto capire che non intendevo
parlare dei gustosi pesciolini ricchi di omega-3, ma degli aderenti
alla cosa
che ha preso vita con la manifestazione tenutasi in Piazza Maggiore,
a Bologna, lo scorso 14 novembre. Manifestazione cui i promotori si
limitavano a dare come obiettivo unicamente quello di «dimostrare
che a Bologna siamo più di loro»,
e cioè più dei 5.570 che può ospitare il Paladozza, dove quello
stesso giorno si teneva un comizio elettorale di Salvini: «sardine»,
quindi, perché, tenuto conto della capienza del crescentone di
Piazza Maggiore, in 6.000 ci si poteva stare solo «stretti
come».
Successo
assai superiore alle aspettative, con conseguente decisione di
replicare l’iniziativa in altre piazze (Modena, Sorrento, Genova,
Firenze, Napoli, ecc.), che otteneva risultati ancor più
lusinghieri, con comprensibile interesse dei media, che promuovevano
la cosa
a movimento.
Ed è qui che, tornando a quanto dicevamo prima, direi si corra il
rischio di dare per scontato quello che non lo è, perché in realtà
per movimento
si intende l’«azione
convergente, più o meno organizzata, di più persone che hanno
ideologie e programmi operativi comuni»
(Treccani).
In via preliminare, dunque, decidiamo: possiamo definire movimento,
quello delle «sardine»?
Nessun problema in quanto a convergenza ed organizzazione, ma quale
ideologia, quale programma operativo, hanno in comune i partecipanti
a queste manifestazioni di piazza?
«È
venuto il momento
– si leggeva nell’annuncio
del «primo
flash mob ittico della storia» (così
presentato nel lancio dalle pagine di Facebook)
– di
cambiare l’inerzia della retorica populista, di dimostrare che i
numeri contano più della prepotenza, che la testa viene prima della
pancia e che le persone vengono prima degli account social».
Vederci ideologia mi pare estremamente arduo, ma almeno c’era
traccia di un programma operativo? Se sì, sembrava darsi
nell’effimera
presenza in piazza «dalle
ore 20:30 alle 20:45» di quel
14 novembre, che in coda diventavano «20
minuti oggi per salvare 5 anni del tuo futuro»:
dobbiamo ritenere che in quei 5 minuti di scarto ci fosse in
nuce
il «fenomeno
di aggregazione e mobilitazione di individui che, in seguito a
mutamenti socioeconomici intervenuti, sviluppano la coscienza della
loro identità di gruppo sociale e si impegnano attivamente per
realizzare un mutamento della loro condizione o dello stesso sistema
politico» (ancora
Treccani)?
Non credo si possa arrivare a tanto: le «6.000
sardine contro Salvini» sembrano
limitarsi a esprimere avversione – legittima avversione, peraltro
ampiamente condivisibile, come dimostrano le simpatie di cui son
state prontamente fatte oggetto – a chi in questo paese oggi sta
all’opposizione,
sicché non si capisce a quale «mutamento
del sistema politico» possano
mai aspirare visto che in sostanza scendono in piazza in difesa di
quello che Salvini – si paventa – vorrebbe sovvertire.
Né credo
vada meglio con quella «identità
di gruppo sociale» di
cui dovrebbero avere «coscienza»,
perché, se è a un manifesto che di solito si affida il compito di
chiarire natura e intenti di un movimento, quello delle «sardine»
lo
elude: quello che mobilita, infatti, non è un «gruppo
sociale»,
ma uno stato d’animo,
sicché sarebbe più opportuno parlare di un «manifesto»,
mettendoci le stesse virgolette che abbiamo messo a sardine
e a movimento.
Chi
siete? «Siamo
un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case
e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel
volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione
nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose
divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la
creatività, l’ascolto».
E
questo sarebbe un «gruppo
sociale»?
Non scherziamo, si tratta solo di bellurie
gettate in mare come reti a maglie molto strette per pescare di
tutto, a strascico. Non c’è da meravigliarsi che dentro possa
finirci ogni cosa, una viscida bavosa come la Pascale («Potrei
scendere in piazza con loro»),
una velenosa manta di fondale come Ferrara («Lasciate
nuotare in pace le sardine, fenomeno consolante e nuovo»),
un Cerasa che da pesce cardinale si nutre di quello che a Ferrara è
rimasto incastrato tra i denti («La
bellezza delle sardine è quella di essere non solo un veicolo di
resistenza contro i nazionalismi nemici della libertà ma anche uno
specchio del nostro impegno personale per difenderci dagli amici
delle democrazie illiberali»)
e perfino uno spinoso pesce palla come il Mantellini («Le
piazze piene di sardine, sottolineando gli abissi della destra
populista, rendono palese, in maniera inedita e fragorosa, anche il
vuoto culturale del centro sinistra. Le sardine sono un’occasione»).
Dai
consensi che raccolgono, dalle speranze che nutrono, si ha
l’impressione che si tratti dell’ennesimo «populismo
dall’alto»,
espressione di un «popolo»
che ha la pretesa di rappresentare in esclusiva le ragioni del cuore
e del cervello nella perfetta sintesi di buon senso, buona educazione
e buoni sentimenti, a fronte del montante «populismo
dal basso»,
quello del «popolo»
che sa farsi forte delle ragioni del ventre, che è fegato e stomaco,
acido e bile, e naturalmente merda, ma anche milza, e cioè spleen,
che insieme è inquietudine e tedio, accidia e sordo malumore. Qui suppongo
sia superfluo segnalare quanto in entrambi casi siamo
all’organicismo, che, a dispetto dell’irriducibilità con la
quale rappresenta il conflitto sociale, in tasca ha già in partenza
la ricetta per risolverlo in trattativa e compromesso.
Nessuna
minaccia di guerra civile, dunque, nel fenomeno delle «sardine»,
anche se i toni suonano bellicosi, oltre che ridondanti di una
retorica assai sciatta, in qualche punto francamente ridicola: «Per
troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete
tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio
su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne,
rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo.
Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e
difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare
i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota.
Di quei contenuti non è rimasto più nulla. Per troppo tempo vi
abbiamo lasciato fare. Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti
serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara. Per troppo tempo
avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere
la vita delle persone sulla rete. Per troppo tempo vi abbiamo
lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi
da quanto in basso poteste arrivare. Adesso ci avete risvegliato. E
siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci
siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. È stata energia pura.
Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per
scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi».
Quello
che tuttavia rende evidente la reale natura del fenomeno, che
peraltro non è affatto nuovo (basti pensare a quel che De Magistris
è riuscito a confezionare a Napoli mettendo insieme spezzoni di
borghesia post-bassoliniana, sottoproletariato urbano, e centri
sociali), è l’irrinunciabile aggancio ai potentati partitici che
le «sardine» chiamano
a sostenere l’operazione, ma tenendosene fuori, per evitare il
rischio di delegittimarla come espressione della cosiddetta «società
civile»:
«Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P
maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al
proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti
gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono». E chi sono, di
grazia? Perché non farne i nomi?
In
quanto al «nemico», niente di nuovo, cioè, per meglio dire, di
nuovo c’è che l’«uccidere un fascista non è reato» che le
teste calde mettevano a ciliegina sulla torta del cosiddetto «arco
costituzionale», che i partiti della Prima Repubblica si spartivano
col Manuale Cencelli, qui trova forma soffice (si fa per dire),
perfino rassicurante (si fa per dire), in un democraticissimo (si fa
per dire) «non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad
ascoltare».
Poi, a sigillo, la citazione da una canzonetta,
l’inconfondibile firma di chi con la sensibilità, il gusto e la
cultura è rimasto ai tempi del liceo, quando il ventaglio
psicologico raramente esorbita dal Postalmarket delle emozioni
indossate dai cantautori. Provando a sostituire l’evocazione della
prosaica scatoletta di latta con quella indubbiamente assai più
lirica de Le acciughe [che] fanno il pallone mettendo
in fuga il predone, a Genova sarà la volta di De
André, ma a Bologna il genius loci è Dalla, e dunque:
«È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è
muto come un pesce. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da
bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare».
Resistendo alla tentazione di unirsi al coro, dove sarebbe questo
pensiero che dà fastidio?
Personalmente
sottoscrivo quanto ha detto Buttafuoco: «Sembrano
usciti da una canzone di Jovanotti: da Che Guevara a Madre Teresa,
un’unica chiesa... L’unica salamoia che li tiene è quella del
conformismo, perché non sono forse ascrivibili al Pd, ma di sicuro
lo sono al mainstrem, all’establishment... Sono tutti pronti per
diventare senatori a vita, se non fosse che la piazza degli aspiranti
è troppo affollata... Non fanno altro che lisciare il pelo nel verso
giusto. Se c’è una cosa certa, è che non sono ribelli: non sono
certo “indiani metropolitani”, non sono punk, sono benevolmente
accolti da tutti i giornali più importanti, nelle trasmissioni
fighette sono ospiti d’onore... Sono diventate delle star
funzionali alla perenne ricerca che la sinistra fa del “papa
straniero”, una volta è Saviano, una volta è l’attuale
pontefice, una volta lo vanno a trovare in Carola Rackete...». Parlava a braccio, gli si può scusare qualche sbavatura di stile.