«Dopo
qualche giorno dall’inizio dell’epidemia di coronavirus –
scrive Giulio Fatti (Dipartimento di Scienze Fisiche, Informatiche e
Matematiche dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)
– ha
iniziato a sembrarmi evidente che la gestione dell’emergenza da
parte delle istituzioni lasciasse alquanto a desiderare, e che
rispondesse a delle esigenze politiche diverse, e probabilmente
incompatibili, sia con un contenimento efficace del contagio, sia con
la limitazione dei suoi effetti. Ho allora iniziato a raccogliere,
giorno per giorno, le dichiarazioni di politici, funzionari, uomini
delle istituzioni, e le misure da loro prese. Ho incluso anche le
dichiarazioni e le note da parte dei rappresentanti delle imprese,
dagli industriali ai negozianti, e dei sindacati, per mettere in
mostra le relazioni tra componenti del corpo sociale e politica. Ho
raccolto anche alcune interviste e dichiarazioni da parte di
virologi, epidemiologi, medici ed esperti in generale, per cogliere
anche il legame che esiste tra discorso scientifico e responsabilità
politica».
Qui trovate
il materiale grezzo, che su fogli di OpenOffice
Writer (dimensione
del carattere 14, interlinea 1,5) occupa 115 pagine
(su Quarantena trovate il testo riordinato in cinque paragrafi: Comparsa
e negazione, Minimizzazione e diffusione, Esplosione, Contenimento e Chiusura e controllo).
Gennaro
Carotenuto
Tra
limitazioni e sorveglianza
Il
Mulino,
23.3.2020
Quasi
come un dettaglio secondario ‒ con un dibattito frettoloso zittito
dalla presunta urgenza e necessità ‒ è passata la restaurazione
(momentanea?) delle frontiere tra gli Stati nazionali. È
la dimensione sognata dai cosiddetti sovranisti. Fino a ieri tale
posizione vedeva un mondo liberal-democratico e progressista
contrapporvisi con vigore.
Oggi, di fronte alla cogenza del morbo, quel mondo ne prende atto,
nella speranza di non essere di fronte a un cambiamento strutturale
del modo di vivere che abbiamo ereditato da Altiero Spinelli.
Da
un giorno all’altro, quello che consideravamo un valore
fondamentale corre il rischio di finire tra parentesi. La
mozione d’ordine sociale che il morbo impone trova consenso
generalizzato nell’opinione pubblica.
È una messa in riga che ricorda quella – epocale, qui non siamo a
tanto – che vide il movimento dei lavoratori, che pure aveva
discusso per settant'anni di internazionalismo proletario, votare i
crediti di guerra non appena la patria chiamò, nel 1914. E così gli
operai francesi andarono a sparare contro i tedeschi e viceversa. La
ricreazione era finita.
L’articolo
16 della nostra Costituzione prevede che la libertà di movimento
valga «salvo le limitazioni che la legge stabilisce per motivi di
sanità o di sicurezza». Oggi è sospeso un diritto così basilare
da non essere mai stato in discussione (per chi ha un passaporto
comunitario). Ancora un mese fa sarebbe stata una distopia che un
italiano non fosse libero di scollinare l’Appennino. Molti hanno
attaccato duramente Giorgio Agamben per la sua preoccupazione sulla
vigenza oggi di uno «stato d'eccezione» e sui rischi per la
democrazia in Europa prodotti dal Coronavirus. Alcune di queste
critiche – penso a un articolo di Paolo Flores D’Arcais su
«Micromega» – sono figlie di una cultura profondamente
autoritaria che, di fronte al nemico esterno, obbliga a stringersi a
coorte. Sui giornali, sui social, nel dibattito pubblico, invale
improvvisamente un linguaggio militaresco. Siamo
in guerra, si dice, e il virus è il nemico. I medici sono eroi (e lo
sono), e chi si sottrae un disertore (ed è opinabile).
Oggi
in Italia è l’opinione pubblica stessa, impaurita giustamente dal
virus, a invocare maggior segregazione, più controlli, ulteriore
coercizione per i presunti trasgressori. L’adesione
di massa al dispositivo disciplinare della quarantena (che
è un succedaneo del dispositivo securitario sull’immigrazione, sul
quale è costruito il consenso delle destre, con le sinistre in
continua difensiva) sta
comportando fenomeni di delazione o di criminalizzazione per chi
starebbe violando il decreto #iorestoacasa.
La stigmatizzazione di quelli che per un motivo o per l’altro
escono di casa, trattati come irresponsabili se non come veri e
propri untori, ha dei tratti che ricordano quella dei sieropositivi
al tempo dell'esplosione dell'Aids. Gli omosessuali, già oggetto di
discriminazione, erano colpevolizzati per il male che era addebitato
alla loro presunta devianza. «Le vite degli altri» sono sotto
scrutinio. Il campione d’atletica Yeman Crippa, speranza olimpica
azzurra, è stato denunciato dai vicini, e la costanza salutista dei
podisti stigmatizzata dai più.
Alcuni
governatori, non solo di destra, hanno preteso l’esercito in
strada, non con funzioni ausiliarie nella lotta al morbo, come
sarebbe ragionevole, ma per controllare i movimenti di una frazione
della popolazione. I
militari in strada, in democrazia, con funzione di ordine pubblico,
restano una patologia della quale preoccuparsi, soprattutto di fronte
alla crisi sociale ed economica,
probabilmente la più grave della Repubblica, che non tarderà a
esplodere e che già coinvolge milioni di precari e lavoratori
informali.
Di
fronte all’epidemia, l’imperativo di sorvegliare, e possibilmente
punire, ottiene un consenso di massa. Sembra sfuggirci che
l'epidemia, l’allarme, l’urgenza, la paura, così posti,
rappresentano la realizzazione di un sogno autoritario, inducendoci a
sottoporci volontariamente a misure coercitive. Di fronte alla
crudeltà del morbo la risposta non può essere che unanime,
immediata, urgente. Ma se non è tempo di pensare, resta solo il
tempo di obbedire, che è sostanzialmente quello che stiamo facendo.
L’ira delle autorità – e, a cascata, l’ira di molti cittadini
– è convogliata contro pochi flâneur (costretti
magari a vivere la quarantena in ambienti malsani), ai quali senza
mezzi termini è addebitata la persistenza del contagio.
Solo
con estrema fatica si è invece fatta strada la coscienza che,
sino a oggi, al centro del cratere, nelle province di Milano, Brescia
e Bergamo, mezzo
milione di lavoratori sono stati costretti a muoversi, infettarsi e
infettare per recarsi in fabbrica,
in omaggio all’ideologia della produzione. Con estremo ritardo, in
assenza di un confronto reale tra capitale e lavoro, da mercoledì 25
qualche fabbrica in più chiuderà. Difficile dire se sia stata una
decisione tardiva del governo presieduto da Giuseppe Conte o una
concessione di Confindustria.
Intanto
tutti crediamo – o forse già solo speriamo – che qui e ora la
quarantena sia necessaria come modo per tornare al più presto
possibile alle nostre vite di prima. Ma come può la quarantena
essere rappresentata come una mera misura di profilassi, che oggi
vige e domani cadrà senza lasciare tracce? La quarantena di massa
per il Covid19 è già ora il singolo evento biopolitico più
importante della storia della Repubblica e non solo.
Domenica
22 marzo un miliardo di persone (né tutte uguali, né tutte sulla
stessa barca) sono costrette nelle loro case, dalla favela della
Rocinha a Río de Janeiro al Bosco verticale di Boeri a Milano. E qui
vengo al punto. Il
Coronavirus è davvero un evento eccezionale? O è solo il primo
episodio tangibile in campo sanitario dell’ecocidio che stiamo già
vivendo, e che in questo momento vede molteplici fenomeni drammatici,
incluso l’inverno appena trascorso più caldo e siccitoso della
storia (a febbraio in Italia +2,8 gradi e -80% di precipitazioni
rispetto alla media), o la drammatica invasione delle locuste in
Africa orientale?
Come
per l’«acqua alta» a Venezia, moltiplicatasi come fenomeno negli
ultimi anni, il Covid19 appare essere più un nuovo cedimento della
biosfera che un evento eccezionale. La pandemia è destinata a durare
molti mesi, secondo molteplici studi anche un paio d’anni. Sappiamo
tutti che misure coercitive come la quarantena non sono sostenibili
socialmente oltre un periodo di poche settimane. In
quanto fenomeno destinato a ripetersi, nella stessa forma pandemica o
in altre forme imprevedibili, è pensabile che le libertà
fondamentali possano coesistere con urgenza, paura, pericolo di
vita? O
quelle libertà saranno vittime sacrificali, con il nostro consenso,
in una nuova temperie storico-ambientale che non saprà più
considerarle intangibili? È la pandemia il male assoluto al quale
tutto è sacrificabile, mentre il modello economico vigente continua
a non essere in discussione? Quanta parte dell’opinione pubblica,
così incline oggi a obbedire (l’obbedienza è
deresponsabilizzante), non considera un gran sacrificio rinunciare a
pezzi di libertà?