«È
più facile resistere all’inizio
che alla fine»Leonardo
da Vinci
I. I
più autorevoli dizionari della lingua italiana danno una definizione
di propaganda
pressoché univoca: (qui riporto quella del Devoto-Oli, ma quelle
dello Zanichelli, del Treccani, del De Mauro, del Palazzi e del
Sabatini Coletti sono sostanzialmente sovrapponibili) è l’«azione
intesa a conquistare il favore o l’adesione
di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo a
influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse»
(l’insieme
delle pratiche finalizzate a qualcosa in più del semplice
reclutamento del consenso, se non letteralmente inteso: adesione di
massa a un sentire che implica la generale condivisione di uno stato
d’animo
e delle pulsioni volitive che esso genera); subito però si avverte
(e a nessuno degli autori citati fa difetto l’avvertenza,
anche da loro presentata come accezione) che «spesso
il termine può polemicamente alludere a grossolane deformazioni o
falsificazioni di notizie o dati, diffuse nel tentativo di
influenzare l’opinione
pubblica».
Ora,
noi sappiamo che le accezioni di un termine altro non sono che il
prodotto della sua articolazione storica, la quale non di rado porta
i significati di volta a volta assunti da un termine a trovarsi anche
assai distanti dal suo significante, come è evidente nel constatare
che talvolta le definizioni delle accezioni posso arrivare anche a
tradire vistosamente l’etimo
del termine, a espressione di un avvenuto degrado, necessitato da una
forzatura dell’adattamento
all’uso (si pensi, per esempio, a sensus,
che è participio passato di sentire,
ma le cui accezioni più comuni arrivano ad essere quanto mai lontane
dalla percezione: modo,
significato,
direzione).
Bene,
suppongo che non sfugga l’affinità
di articolazione storica che lega due termini come retorica
e propaganda,
per quanto attiene al degrado del loro significato originario in
accezione più comunemente intesa. Non sfuggirà, altresì, che
questa affinità trova ragione nella funzione che entrambe svolgono
nel discorso pubblico, quella della persuasione.
Almeno
fino al XVII secolo, infatti, la retorica
rimane l’aristotelica τέχνη
ρητορική,
ma poi di lì comincia a significare sempre più spesso vana
magniloquenza (si
licet,
magna vaniloquenza). Con ciò siamo alla grande crisi di quella che
era stata per secoli, insieme, arte e scienza, precipitato politico
della logica e ragione del discorso pubblico. Sia chiaro: di una
decadenza della retorica si comincia a parlare molto presto (già
Quintiliano parla di una corrupta
eloquentia)
e tuttavia fino al Barocco nessuno mette in discussione che la
materia sia fondamentale in un qualsivoglia cursus
studiorum;
qualche sporadico interesse nel Settecento, poi quasi più nulla. Si
dovrà aspettare la seconda metà dello scorso secolo perché, grazie
a Chaїm Perelman, la retorica torni ad essere oggetto di ricerca e
di studio, riacquistando così dignità di disciplina, riannodando il
suo antico legame con la logica. Oggi, l’accezione
ha il suo gran bel daffare, ma il significato originario del termine
ha trovato recupero e ripristino.
Con
la propaganda
il processo di degrado è analogo, ma arriva assai più tardi: fino
alla II guerra mondiale il termine rimanda esclusivamente al suo
significato originario, che fin lì si è mantenuto intatto per
secoli, nel corso dei quali propagandum
è semplicemente quel che bisogna pro-pagere
(piantare-progressivamente-oltre,
fissare-sempre-più-in-là)
per allargarne e consolidarne la presa.
Nelle epistole di Cicerone, per esempio, non
propagandum
vulgo
è quel che occorre non sia diffuso
fuori dalla ristretta cerchia degli ottimati; e così sarà per tutta
l’antichità, mentre nel Rinascimento (nel Prologo
del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, per esempio) propagandum
sta spesso accanto ad augendum,
per lo più riferito alla natura dell’imperium,
che ha bisogno di consolidamento, non meno che di accrescimento, per
non venir meno. Le cose non cambiano nel XVII secolo (si pensi
all’istituzione della Congregatio
de Propaganda Fide
da parte di Gregorio XV, che diventerà Congregazione
per l’Evangelizzazione dei Popoli
solo nel 1967, quando il termine ha ormai assunto l’accezione che
lo squalifica), né nel XVIII secolo (gli Illuministi non
disdegneranno l’uso di una locuzione come «propagande
philosophique»
per parlare della loro attività), e neppure nel XIX secolo (gli
anarchici insurrezionalisti della seconda metà dell’Ottocento
rivendicheranno con fierezza il valore esemplare dell’attentato
terroristico e dell’omicidio politico come «propagande
par le fait»);
perfino nel corso della I guerra mondiale non si ha difficoltà nel
concedere che propaganda
non sia solo quella nemica (è pienamente operativo dal 1918,
nell’esercito italiano, un Servizio P, dove P sta appunto per
Propaganda).
È
solo dagli anni ’40 del Novecento che a propaganda
si comincia a dare sempre più spesso il significato che implica
l’uso di quelle «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati»
che abbiamo trovato nella voce del Devoto-Oli riportata all’inizio
di questa riflessione. Di lì in poi non troveremo più in nessun
luogo l’espressione
«propaganda
nemica»,
largamente impiegato per esempio nel corso della I guerra mondiale,
giacché ora l’aggettivo
è diventato pleonastico: solo il nemico fa propaganda, solo il
nemico diffonde notizie false, la propria propaganda è altro
(informazione,
comunicazione,
diffusione,
divulgazione,
promozione,
ecc.). È qui che l’accezione
ha preso pieno possesso del termine, ma è qui, al contempo, che
quell’«ogni
mezzo idoneo a influire» che
abbiamo trovato nella definizione del Devoto-Oli ha bisogno di un
distinguo d’ordine
morale rispetto a ciò che è «idoneo»:
è la malvagità del nemico ad implicare l’uso
di mezzi disonesti. L’accezione,
così, prende pieno possesso del termine per stornare con disdegno il
sospetto che il fronte amico faccia impiego di analoga disonestà.
Dicevamo
di un’affinità
di articolazione storica tra retorica
e propaganda,
ma dal veloce excursus qui rappresentato è tuttavia evidente che
tra i due termini il degrado segua un processo manifestamente
diacronico, per la diversa natura dell’uditorio
cui esse si rivolgono. In propagare,
infatti, è implicito che debba esservi una massa ad assorbire quanto
diffonde da una fonte: si ha propaganda,
dunque, quando la persuasione si rivolge a un uditorio inteso come
massa (nessuna corrispondenza in retorica,
dove l’uditorio
è sempre un forum);
e non ha alcuna difficoltà nel dichiararsi tale (chi fa propaganda
non ha alcuna difficoltà ad ammettere che stia facendo propaganda)
fino a quando il suo attore non è costretto a fare i conti con un
competitore che per fine ha il persuadere lo stesso uditorio,
propagare il proprio messaggio nella stessa massa (a lungo, invece,
il retore
non ha alcuna difficoltà nel dichiararsi tale nella competizione che
ingaggia con un suo pari, e che per fine ha la persuazione dello
stesso forum).
È il comparire della massa come nuova forma di uditorio a dar
ragione, di qui in poi, di una propaganda interna e di una propaganda
esterna, il che presuppone che la
massa abbia caratteri simili ovunque essa si rappresenti come
uditorio, di qua e di là dalla linea che separa l’amico dal
nemico: l’«azione
intesa a conquistare il favore o l’adesione»
di
una porzione sempre più ampia delle masse di qua e di là dalla
linea che separa l’amico
dal nemico
presuppone
analoga idoneità di mezzi «a
influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle
masse».
Questo, tuttavia, implica anche altro: il
«tentativo di influenzare l’opinione
pubblica» non
è più tenuto a fare alcuna differenza tra le opinioni pubbliche che
stanno di qua e di là dalla linea sulla quale si gioca il conflitto
per la conquista del consenso, e le «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» tornano
utili allo stesso modo per entrambe, giacché la loro psicologia e il
loro comportamento non differiscono.
Ma
non è dal V sec. a.C. che, con Eschilo, si ripete che «in guerra
la verità è la prima vittima»? Per quale ragione, allora, per
propaganda, il degrado da significato ad accezione non si è
verificato prima? Perché è solo con la II guerra mondiale che una
questione come quella della psicologia delle masse, in verità sorta
già a cavallo dei due secoli, con Le Bon prima e con Freud poi,
acquista un interesse che esorbita da quello accademico, per
diventare un problema di prima grandezza in un evento tanto
importante come quello bellico. Se questo non accade già con la I
guerra mondiale, che non può certo definirsi evento meno rilevante,
e rispetto al quale la propaganda pure svolge un ruolo significativo
(più nel determinare l’evento, occorre dire, che nel sostenerlo),
è per la semplice ragione che nel lustro ’14-’18 la diffusione
di cinema e radio è ancora assai limitata: il medium non è
ancora pronto a propagare; la massa (la società di massa) già
c’è, ma il medium è ancora inadeguato, e l’uditorio,
ancorché esteso, resta per lo più forum; e perciò è ancora
la retorica ad essere impiegata come mezzo per reclutare
consenso, e di retorica, infatti, la I guerra mondiale, non meno che
di sangue, gronda. Ad ammazzare la verità, prima della II guerra
mondiale, ci pensa la retorica; dopo, sarà compito della propaganda.
Può
darsi che l’ipotesi
sia un azzardo, la lascio al giudizio di chi legge questa pagina, ma
oserei affermare che la propaganda diventi tanto più problematica,
con ciò assumendo il carattere di insidiosa minaccia, quanto più i
mezzi coi quali trova diffusione si ampliano al punto da non poter
evitare che opposte propagande si contendano lo stesso uditorio.
Semplifico: fino a quando il propagandum
non teme concorrenza perché l’imperium
o la fides
hanno il monopolio del medium
(oppure:
perché la philosophie
e il fait
ne
scelgono uno che si fa tanto intrinseco al messaggio da sussumerlo),
la propaganda non ha alcunché di problematico; acquista
problematicità, e in misura tanto considerevole da poter assumere
carattere di arma,
quando è nella nostra disponibilità non meno di quanto lo sia in
quella del nostro nemico,
di chi con noi concorre a persuadere un uditorio, per reclutarlo
nella milizia
che combatte in favore del proprio interesse. Non c’è
da stupirsi, allora, se il massimo della problematicità si abbia con
la propaganda bellica, dove arma,
nemico
e milizia
smettono di avere senso figurato. Qui siamo all’allargamento
del campo di battaglia alla società civile e la lezione di Sun Tsu
(«tutte
le operazioni di guerra sono basate sull’inganno»)
diventa valida anche per la propaganda, non caso proprio nel momento
in cui la guerra prende a oggetto, quasi di regola, anche la
popolazione civile.
Avviene,
tuttavia, che con l’acquisire il significato che la degrada a
strumento di inganno e a vettore di menzogna, la propaganda perda
quello originario nel quale invece è sospeso ogni giudizio di merito
sul messaggio che è da diffondere, e accade, così, che propaganda
sia solo quella del nemico, e definirla tale miri innanzitutto
a dissuadere l’uditorio dal prestarvi fede; ne consegue che farsi
persuasi delle ragioni del nemico, espresse dalla sua propaganda,
implichi giocoforza esserne, insieme, vittima e complice. Nasce,
così, l’interdetto implicito alle ragioni del nemico, veicolate
dalla sua propaganda: se esse sono giocoforza menzogne, anche il solo
darvi ascolto implica stoltezza o malvagità, stupidità o
tradimento.
II. Con
quanto fin qui ricostruito riguardo al percorso di un termine come
propaganda, non c’è da stupirsi che i problemi posti dalle
pratiche propagandistiche non abbiano trovato ragione di una
riflessione articolata prima della II guerra mondiale. Ad affrontare
per la prima volta il tema in modo articolato, almeno a quanto mi
risulta, è un articolo apparso nel 1941 sul British Journal of
Medical Psychology (Vol. XIX) a firma di Roger Money-Kyrle (in
italiano, il testo, relativamente breve, è reperibile in Scritti
1927-1977 – Loescher, 1985, col titolo La psicologia della
propaganda). Credo possa tornar utile riportarne qualche stralcio
per aver modo di considerare come viene affrontato il tema.
«La
propaganda è sempre stata il mezzo attraverso cui le diverse
organizzazioni politiche e religiose hanno cercato di imporre la loro
volontà, ma nel passato la sua estensione era limitata e la sua
diffusione relativamente lenta. […] Negli ultimi anni, con
l’avvento di quotidiani poco costosi, del cinema e,
soprattutto, della radio, gli ascoltatori e i lettori, da poche
centinaia, sono improvvisamente diventati milioni. La capavità di
penetrazione della propaganda si estende adesso al mondo intero, e
nessuno, a meno di vivere su un’isola deserta, può
sottrarsi alla sua influenza. Per questa ragione la psicologia della
propaganda, o, ciò che è forse la stessa cosa, la psicologia della
suggestione di massa, ha improvvisamente assunto un’enorme
importanza».
Qui
mi fermerei un istante a considerare due termini che mi paiono
centrali in questa parte dell’articolo: penetrazione e
suggestione. Il primo, credo, dà ragione della modalità di
diffusione del messaggio cui la propaganda è tenuta a far ricorso
per la stessa natura della massa, nel cui corpo la propagazione
può avvenire solo per infiltrazione. Il secondo, invece, dà
ragione della natura che la persuasione assume quando il forum
prende le dimensioni e le caratteristiche della società di massa.
Anche qui, per suggestione, occorre considerare la forzatura
dell’adattamento all’uso che porta l’etimo del termine a
esprimere con la sua accezione un significato che lo contraddice: la
proposta che sta nel suggerimento diventa l’imposizione cui
mira l’insinuazione. Percorso opposto, a ben vedere, con
quello che porta il persuaso (per-suasus, indotto a
fare) a essere convinto (colui che nell’essere persuaso
vince con il persuasore, e con ciò conquista in prima persona
la verità che questi gli offre, senza alcuna indutio
insidiosamente suavis). Ma cosa dà modo alla suggestione di
agire?
«Se
l’uomo fosse completamente razionale e se fosse influenzato
solamente da quella propaganda che dice la verità, tutta la verità
e nient’altro che la verità, non ci sarebbero problemi. Ma,
sfortunatamente, evidenza e giudizio non sono le sole determinanti
delle sue convinzioni e dei suoi sentimenti. L’uomo è sempre stato
un animale credulo che si lascia facilmente convincere e infiammare
dall’oratoria: talvolta può lasciarsi quasi ipnotizzare,
accettando qualsiasi cosa venga asserita con sufficiente forza e
autorità».
Qui
credo occorra appuntare l’attenzione sull’uso di quella che di
fatto è parte della formula di giuramento che il soggetto chiamato a
rendere testimonianza nel corso di un processo è tenuto a recitare
prima della sua deposizione («la verità, tutta la verità e
nient’altro che la verità»). Money-Kyrle vuol farci credere
che, almeno in teoria, sia possibile una propaganda in grado di
essere fedele testimone di come scorranno gli eventi bellici? Sta
mettendo in discussione quanto affermano Eschilo e Sun Tsu? No,
perché, anche volendo, non può: nel corso della I guerra mondiale
ha servito il Regno Unito nella Royal Air Force e, mentre scrive
quanto qui riporto, lavora per il Ministero dell’Aeronautica come
reclutatore di nuove leve. Non c’è bisogno di psicoanalizzare lo
psicoanalista per capire che la sua riflessione debba lasciare spazio
all’almeno teorica possibilità che la propaganda possa diffondere
verità. Un po’ più difficile capire perché per farlo abbia
comunque bisogno della suggestione, che qualche capoverso prima ha
definito intrinseca alle pratiche propagandistiche, ma forse è
quanto segue a sciogliere il nodo del double standard.
«Dire,
come gli psicologi amano fare, che l’uomo è
suggestionabile, è semplicemente dare un nome alla qualità che
stiamo cercando di spiegare. Vogliamo capire perché alcune persone
si lasciano più facilmente suggestionare dalla propaganda di altre,
e perché il livello della loro suggestionabilità dipende sia dalla
loro relazione con chi fa propaganda che dalla natura della
propaganda».
Dichiarati
i fini dell’indagine, Money-Kyrle passa a considerare le
«differenze nella suggestionalità generale», che mette in
relazione a due ordini di fattori: il livello di istruzione («le
persone istruite sono meno influenzabili dalla propaganda delle
persone che non lo sono, poiché hanno maggiori informazioni con cui
confrontare ciò che viene loro raccontato») e quello di
maturità psicologica rapportato al grado di superamento della
dipendenza vissuta da ogni bambino («alcuni crescono e diventano
indipendenti, altri rimangono psicologicamente bambini per tutta la
vita, sempre dipendenti da sostituti delle figure parentali, sia
umani che divini»). Ma, ovviamente, «la suggestionabilità
della propaganda dipende anche dalla fonte di provenienza»,
soprattutto dove essa assuma l’autorità di cui da bambini abbiamo
fatto esperienza nella relazione con le figure parentali: siamo più
suggestionabili a ciò che ci viene detto da qualcuno che riesca a
surrogare il padre o la madre, e dunque la propaganda riesce
maggiormente a suggestionarci se è propaganda patria e corre in
madrelingua, il che implica che, «se siamo suggestionabili da
un’autorità, siamo anche controsuggestionabili dall’autorità
che a essa si oppone», e così «non soltanto ci troviamo in
disaccordo con la parte avversa […] ma non siamo neppure in grado
di credere alla sua buona fede». Le cose, tuttavia, si
complicano, perché con ciò la «parte avversa» arriva ad
assumere il proiettato dei nostri nemici interni: «quando due
gruppi diventano reciprocamente paranoidi in questa maniera, diventa
pressoché impossibile discriminare tra sospetti veri e sospetti
falsi; infatti i falsi sospetti di una parte innescano contromisure
nell’altra, e così si autoconfermano».
III. È
chiaro che la riflessione di Money-Kyrle non può che muovere
dall’assunto freudiano che «la contrapposizione tra psicologia
individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che
a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una
considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità»
(Psicologia delle masse). Anche chi non è troppo addentro
all’edificio della teoria freudiana sa cosa porta a evidenziare,
questa «considerazione più attenta»: la pulsione sociale
non è originaria, né indecomponibile, e gli esordi del suo sviluppo
sono sempre rintracciabili in un ambito più stretto, come quello
della famiglia. Questa non è la sede per discutere questo assunto,
col quale peraltro lo stesso Freud ammette non si risolve per intero
l’«enigma della massa». Di fatto, tuttavia, i suoi
caratteri rimandano senza dubbio a un momento regressivo: «la
mancanza di autonomia e di iniziativa del singolo, il coincidere
della reazione del singolo con quella di tutti gli altri, […]
l’indebolimento delle facoltà intellettuali, il disinibirsi
dell’affettività, l’incapacità di moderarsi o di differire, la
propensione a oltrepassare tutti i limiti nell’espressione del
sentimento che tende a scaricarsi per intero nell’azione»
(ibidem). Questo il substrato su cui la suggestione opera, ma
cos’è, per Freud, la suggestione? «È una manifestazione
parziale dello stato ipnotico, il quale risulta validamente fondato
su una disposizione conservata nell’inconscio sin dalle origini
preistoriche della famiglia umana» (ibidem).
Non
so quanto possa essere ancora convincente, oggi, questa definizione,
con quanto di controverso grava su un termine come ipnosi,
che in fondo è stato largamente impiegato, fino a quando è stato
possibile, per accantonare i problemi posti dalla natura
apparentemente impenetrabile della suggestione.
D’altronde è con lo stesso Freud che la psicologia comincia ad
abbandonare la pratica ipnotica, come dichiarata «rinuncia
alla suggestione».
Con Lacan si arriverà finalmente a decostruire il meccanismo della
suggestione sul piano del linguaggio: se «l’inconscio
è strutturato come linguaggio»,
la suggestione opera su esso in forma di fallacia. Tornando a
Money-Kyrle, allora, l’equivalenza tra la
«psicologia della propaganda» e
«psicologia della suggestione di massa» può
dirsi fondata sull’efficacia persuasiva delle fallacie che più
agevolmente riescono a eludere la logica della retta argomentazione.
Ammesso e non concesso che possa esserci una «propaganda
che dice la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità»,
quella che diffonderà «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» sarà
riconoscibile dal ricorso alle fallacie che più efficacemente sono
in grado di indurre l’individuo
a quello stato regressivo che è proprio della massa; e quelle che
operano sulla controsuggestione (l’argomento
è rigettato o ritenuto confutato, ancorché inadeguatamente, solo
perché prodotto dalla parte avversa: fallacia
ad hominem,
argomento
fantoccio,
colpa
per associazione,
due
torti fanno una ragione,
appello
al caso particolare,
ecc.) non sono meno efficaci di quelle operano sulla suggestione
(l’argomento
è fatto proprio, e spesso riprosto, solo perché prodotto da
autorevoli rappresentanti della parte amica: ricorso
all’autorità,
ricorso
alla tradizione,
fallacia
ad populum,
pressione
dei pari,
petizione
di principio,
ecc.).
Abbiamo
detto che non può esserci una «propaganda
che dice la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità»,
quindi, seppur in varia misura, «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» sono
di regola diffuse dalla propaganda amica e dalla propaganda nemica.
Sul piano della regressione, non riuscire a riconoscere quelle
diffuse dalla propaganda amica equivale a non riuscire ad ammettere
di averle riconosciute tali.
[segue]