venerdì 13 marzo 2015

Per affettuosità

Qualche tempo fa, su queste pagine, consumai una polemicuzza con Francesco Maria Colombo, critico musicale del Corriere della Sera, prima, direttore d’orchestra, dopo, in merito alle puttanate che aveva scritto in un «manifesto antiaborto» apparso su Il Foglio del 17 agosto 2011 (1, 2, 3, 4). Come sempre accade in casi analoghi, per affettuosità, affidai a Google alert l’incarico di tenermi informato su sue eventuali e ulteriori puttanate in tema e, giacché son troppo pigro per imparare come si rimuove, lalert è ancora lì, e di tanto in tanto mi fa sapere che Francesco Maria Colombo si è fatto fare dal sarto un frac da dio, che il giorno tot e all’ora tot dirige la tale orchestra, che ha letto con commozione questo o quel libro di autore regolarmente esotico, che una pupa fatale gliel’ha data, che a Kiev il clima è piacevolmente temperato, che è tentato dal lasciare il mondo della musica per quello della fotografia... Robe così, insomma, da dandy un po fuori dal tempo, ma in fondo tanto simpatiche, e poi estremamente riposanti tra le noiose news di licenziati qui e decapitati lì, come tempura di petali di rosa tra una bistecca al sangue e l’altra. Genetica? Bioetica? Mai più sfiorate, e questo è quello che più conta. Di tanto in tanto, questo sì, uno sguardo al mondo di sotto, col sopracciglio alzato, questo sì, ma sempre ben disposto a tirare brioches dal balcone alla plebaglia che strepita di sotto. Così anche ieri, sui ragazzacci che avevano da ridire sulla riforma della scuola, perdindirindina, gli hanno causato uno spiacevolissimo disguido ferroviario impedendogli di andare a Parma. «Ignorantissimi, sgraziati, incapaci di parlare in italiano... però cerco di capire, e mi leggo [sic] sul Corriere online le loro motivazioni, le loro proposte...» E dunque? «Buffonate». Soluzione? «A casa (dopo aver ripulito lo scempio), a fare i compiti, a imparare a memoria l’Adelchi, a impegnarsi a testa bassa, e se non si ottengono risultati si va a letto senza cena, oppure si lascia la scuola e si va a bottega a lavorare. Poi non lamentiamoci se, mentre noi ci balocchiamo con la vernice rosa e le autovalutazioni, il mondo del lavoro verrà monopolizzato dai cinesi». Potrà piacere o non piacere, ma, via, s’intona perfettamente al frac. Nulla da eccepire, se non fosse che il post chiude col consiglio: «leggansi le memorie di Lang Lang, e i metodi didattici che si usavano con lui». E qui sorge il problema. Perché non sappiamo dei metodi didattici che si usavano con Lang Lang, però, a sentire come suona, c’è da supporre siano buoni a formare degli ottimi operai addetti alla pressa, non pianisti. 

5 commenti:

  1. Non ho letto, né leggerò, le memorie di Lang Lang. L'ho però ascoltato e -ahimé- visto dal vero, e mi basta per esprimere un giudizio molto severo. Non sono d'accordo con il paragone con gli operai alle presse, perché anzi, nella foga virtuosistica, il ragazzo spazzola velocemente e superficialmente la tastiera, rinunciando sia allo staccato che (abbastanza di conseguenza) ai forti e fortissimi. A meno che non si parli del pedale di destra: quello sì, è sollecitato come da una pressa di Rivalta.
    Quanto ai metodi dei conservatori cinesi, io penso che, in un certo senso, abbia ragione Colombo. Mi spiego sul senso: massima selettività, finalizzata a produrre un fenomeno e scartare 9999 non-fenomeni. Si potrebbe e dovrebbe discutere sul criterio di selezione (che produce, appunto, i Lang), ma senza mai contrapporre come modello i conservatori italiani, e, allargando la valutazione, le scuole italiane.

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    1. E lei pensa che quel metodo di selezione torni buono a selezionare pianisti?

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    2. Per rispondere occorre sganciarsi dal ragionamento di Colombo, che mi pare strumentale a individuare in una scuola selettiva un asset per la società. En passant, concordo. Per rispondere puntualmente alla domanda, invece, ritengo che il punto di partenza sia: lo studio del pianoforte, strumento solistico, ha due sbocchi: il concertismo e l’insegnamento. Se parliamo di concertismo, molti sono i chiamati e pochi gli eletti. Gli eletti devono lavorare molto duro, e non necessariamente con successo. Passando ai conservatori cinesi, il fenomeno che vi si rileva è simile a quello delle discipline olimpiche: disponendo di una sterminata massa di potenziali campioni, la preselezione avviene dall’alto, con l’intento di arrivare a uno 0,1 per mille di grandi solisti. Il problema, di tipo culturale, è il criterio-guida: virtuosismo e solo virtuosismo. Si tratta di una carenza culturale che deriva, verosimilmente, dall’incrocio di mancanza di tradizione, da un lato, e burocratismo, dall’altro. Per cui no, non penso che quel metodo di selezione torni buono a selezionare pianisti.

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    3. Credo che la cultura musicale che ha selezionato il virtuosismo come unico criterio per il valore del solista ha motivazioni molteplici e molto complesse. Le esecuzioni raffinate, personali e imprevedibili di un secolo fa non hanno più spazio nella vita musicale odierna, tanto più nell'industria di registrazione: una vita prevedibile, ad alto volume e livellata da un continuo confronto tra esecutori.

      Rinfreschiamoci le orecchie con Moriz Rosenthal e Fanny Davies!

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  2. I gusti sono gusti, ma lei se ne sta perdendo parecchi. Mi creda.

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