Di
solito non ne azzecco mai una, è che la realtà si rivela sempre
peggiore delle mie più pessimistiche previsioni, sarà che non sono
mai abbastanza pessimista, o che vedo nero quel che è rosa, perché si sa che questo è il migliore dei mondi possibili, e sono io che non apprezzo l’eccezionalità italiana, insomma, provo a immaginare come andrà
stavolta, sapendo bene che sarò comunque smentito. L’astensionismo
sarà altissimo, poi invece non lo sarà affatto, perché venti euro
tornano utili a un sacco di poveracci, ma pure questa è una
previsione, e allora è probabile che sarò smentito, e
l’astensionismo
sarà altissimo. De Luca vincerà, poi invece stravincerà, anzi no,
ci sarà la sorpresa di un Cinquestelle alle stelle, ma avendolo
previsto non sarà così, e vincerà Caldoro, anche se solo per due
voti. Sarà un 6 a 1, anzi, un 5 a 2, però non è detto, perché i
veneti non sono migliori dei liguri, e allora il 7 a 0 ha le stesse
probabilità del 3 a 4, e insomma, delle due una, Renzi ne esce come
Eliogabalo, tutt’è
vedere se come l’Eliogabalo
portato sugli scudi o quello fatto a pezzi gettati nella Cloaca
Maxima. Previsioni estreme, dunque è più verosimile che perderà un
pochino, ma terrà, però anche questa è una previsione, dunque è
destinata ad essere smentita. D’altronde
corrono voci, anzi bisbigli, anzi sondaggi, che la base del Pd
prepara un ribaltone, e che quella forzista si rivelerà più in
forze di quanto si possa immaginare, per non parlare della Lega che
sfonderà perfino in Puglia, dove non so neppure se si presenta. Gli impresentabili? Tutti eletti, anzi no, non ne sarà eletto neanche uno, cioè qualcuno sì, qualcuno no. In ogni caso è certo che lunedì ci sarà un terremoto, o un lento e quasi impercettibile bradisismo, sennò tutto tranquillo, e passeremo al calcio e alla cronaca nera, che risaputamente danno più soddisfazioni. Esiti improbabili, perciò possibili, ma, avendoli previsti, chissà, tutti impossibili.
domenica 31 maggio 2015
[...]
«Ieri
visita a Napoli del sottosegretario all’Economia Paola De Micheli
per dare forza alla battaglia elettorale di Vincenzo De Luca. Dice di
lui: “Il candidato governatore del centrosinistra è un politico e
un amministratore di lungo corso, porta a sostegno della sua
candidatura il bilancio positivo della sua città e l’intenzione di
promuovere una nuova classe dirigente pronta a sostenere una
battaglia di sburocratizzazione di tutta la pubblica
amministrazione”»
ilsudonline.it,
28.5.2015
sabato 30 maggio 2015
[...]
«Io
credo che questo non sia un voto che riguardi il governo, ma riguardi
l’Europa...
Non è un referendum sul governo»,
così la Boschi, il 20 maggio dell’anno
scorso (*). Il mese dopo, all’Assemblea
nazionale del Pd, con alle spalle un fondale sul quale c’era
un enorme 40,8%, Renzi diceva che in quel risultato non ci
fosse
solo il buon risultato di un gruppo dirigente e del governo, ma il
rinnovo di un mandato cui allegava l’hashtag
#italiariparte
(*).
Il
voto per il Quirinale? «Non è un referendum su di me o sul governo» (*), ma questo lo scorso 26 gennaio. Poi, quando Mattarella non ha avuto neanche il tempo di prestare il giuramento, ecco che la sua elezione deve leggersi come segno che il Parlamento abbia i numeri per approvare le riforme volute dal governo e il risultato ne rilanci l’azione (*).
Oggi, alla vigilia delle Regionali, «le elezioni locali hanno valenza locale» e «il voto non è un test su di me» (*). Rammentarlo a futura memoria? Ma non diciamo sciocchezze. A un paese di merda, prima di tutto, manca la memoria. Quella a lungo termine, ma anche quella a breve.
venerdì 29 maggio 2015
[...]
Cominciamo
col dire che sono stato condannato per un «reato lessicale»: sopra
c’era un cartello con su scritto «in offerta», ci fosse stato
scritto «prezzo scontato» non l’avrei certo portato via senza pagare. E
questo vogliamo chiamarlo furto? Ma via, parliamo di una cosetta da
due soldi. Ne girano, di ladri, e voi volete farmi pesare una sciocchezza del genere? Diciamocela tutta: la condanna è stata un assurdità.
D’altronde mi sono candidato, e certamente sarò
eletto, e l’elezione equivarrà ad una assoluzione. Come si dice? Vox populi... Certo, nemmeno
mi sarei potuto candidare perché fino a due anni fa il partito di
cui sono il capolista faceva vanto di un codice etico che vietava la
candidatura pure a chi era semplicemente indagato, ma per fortuna il
clima interno è cambiato, ora c’è un segretario che l’ha detto
chiaro e tondo: «Chi vince governa». La legge Severino? È uno
scandalo, è una legge che non sta in piedi. Andava bene per
Berlusconi, che è sempre stato scostumato con la magistratura, ma io
sono per la piena autonomia dei magistrati.
giovedì 28 maggio 2015
[...]
C’è
modo e modo per appellarsi alla tradizione come argomento decisivo,
ma quello più fessacchiotto sta nella pretesa che l’etimo
dia immutabile natura a un termine. È il caso di Claudio Cerasa: «Se
le parole hanno un senso, il matrimonio è quello che viene celebrato
tra un uomo e una donna che si sposano sapendo bene che
sull’etimologia delle parole non si può equivocare: matrimonio
viene da matrimonium, è l’unione tra due parole latine, mater,
madre, e munus, dovere, compito, ed è un’unione che esiste per
sancire l’amore tra due persone che si amano e che desiderano
rendere legittimi e tutelati i figli nati dall’amore tra due
persone di sesso diverso. Il matrimonio è questo, con le parole non
ci si può sbagliare» (Il
Foglio,
27.5.2015).
Questo implicherebbe che il possesso di beni materiali
non sia lecito a una donna, perché il patrimonium
è prerogativa di un pater,
e che un ciao
sia attestato di soggezione, perché viene dal veneto sciao,
che a sua volta viene dal latino sclavus,
che vuol dire schiavo
(vostro).
In tutta evidenza siamo dinanzi all’uso
più infelice della logica che assegna un senso alle parole, ma sarà
che Cerasa
viene da c’è
rasa,
e sottintende tabula.
mercoledì 27 maggio 2015
Voi dovete avere comprensione per il povero Parolin
Voi
dovete avere comprensione per il povero Parolin, perché, col
definire «una
sconfitta per l’umanità»
il risultato del referendum che consente il matrimonio tra due
irlandesi dello stesso sesso, si è preso l’ingrato
compito di dire a nome di Bergoglio quello che Bergoglio ha pensato
bene di non dire di persona, per non guastarsi l’icona che finora è riuscito a rifilare ai cretini.
Pensateci: quando mai si è visto intervenire un Segretario di Stato
a stigmatizzare che in Cile fosse legalizzato il divorzio o in
Uruguay l’aborto?
Roba che spetta alla Conferenza episcopale del paese in cui l’umanità ha accusato la «sconfitta», ai
responsabili delle Congregazioni e dei Pontifici Consigli di
pertinenza, e poi a qualsiasi tonaca abbia voglia di dar aria alla
dentiera, come d’altronde
sta accadendo anche in questa occasione, ma in casi come questi, solitamente, il Segretario di Stato lascia dire, e tace, perché i suoi compiti sono altri, e cioè quelli che trovate elencati nella Costituzione Apostolica «Pastor
Bonus» (39-47), e che in sostanza ne fanno la cinghia di trasmissione tra il
Pontefice e la Curia, verso l’interno,
e il plenipotenziario nel disbrigo delle relazioni internazionali,
verso l’esterno.
Nel decidere che proprio a Parolin spettasse esprimere l’opinione
più severa su quello che è accaduto in Irlanda, con
quanto di irritante potesse provocare in quanti hanno
giudicato positivamente l’esito del referendum, e di consolatorio in quanti
l’hanno
giudicato negativamente, c’era
il chiaro intento di dare a intendere a questi ultimi che «una
sconfitta per l’umanità»
fosse il giudizio di Bergoglio, risparmiando nel contempo una delusione ai primi,
se così cretini da essersi fin qui illusi che questo papa è un libertario che con la copertina del Malleus maleficarum ci fa i filtri per le canne.
martedì 26 maggio 2015
Sull’abolizione della schiavitù (Peter Cited, 26 giugno 1865)
Provo
a parafrasare ciò che Pietro Citati scrive sul Corriere della
Sera di oggi a commento del referendum irlandese. Lascio
pressoché intatto il suo testo (sulla sinistra) apportando solo le
opportune modifiche (sulla destra).
A
me pare che non sia necessario alcun commento.
lunedì 25 maggio 2015
[...]
Solitamente
è raro che un tentativo di persuasione si serva di più di due o tre
fallacie, perciò vale la pena segnalare l’articolo
siglato con un elefantino rosso oggi su Il Foglio, che ne
contiene ben otto, per giunta potenziate da un registro di mestissima
ironia che le mimetizza nella rassegnata posa del saggio dinanzi
all’ennesima vittoria che la
follia ha riportato sulla ragione: parlo delle fallacie cui la scuola
di logica formale di tradizione anglosassone ha dato i nomi di
appeal to authority, appeal to belief, appeal to
consequences of belief, appeal to common practice, appeal
to emotions, appeal to fear, misleading vividness e
slippery slope. Sembra, tuttavia, che l’autore
dell’articolo non abbia alcuna
certezza che tutti questi mezzucci possano ottenere l’effetto
desiderato, perché per l’ultima
delle fallacie alle quali fa ricorso, quella del piano inclinato
lungo il quale il mondo occidentale è destinato a scivolare
consentendo il matrimonio a due individui dello stesso sesso, sente
l’urgenza di piazzare alla fine
del pendio un’immagine che
verosimilmente ritiene dovrebbe risultare decisiva al fine di
persuadere il lettore: «c’è
solo da sperare – dice –
che a correggere noi
sterilizzatori della tradizione non arrivino i ripopolatori islamici
del mondo [che]
lo farebbero con scarsa
grazia». Siamo autorizzati a
leggere questa frase in modo diverso da quello che recita il testo? Dopo essere
stati fatti oggetto di così larga utensileria sofistica, direi di
sì.
È genuina la speranza che non sia l’islam
a rimettere ordine laddove l’occidente
secolarizzato ha fatto disordine, perché avverrebbe senza dubbio in
modo violento, o non è piuttosto giusto ritenere che quella violenza
ci venga prospettata come il giusto prezzo da pagare per aver osato
tanto? Da lettori abituali de Il
Foglio, ci è lecito supporre
che valga la seconda ipotesi, qui avvalorata dall’ennesimo rimando
a quel «nichilismo»
sotto il quale il giornale ha sempre rubricato tutto ciò che era
oggetto delle sue «battaglie
culturali» a
difesa dei «principi
non negoziabili».
Qui allora vale la pena di segnalare il curioso cortocircuito logico
che ci è offerto da quest’articolo, al quale forse abbiamo
dedicato pure troppa attenzione se rapportata allo scarsissimo
rispetto che esso mostra verso il lettore: in sostanza, chi è a favore
del matrimonio tra due individui dello stesso sesso agevola
l’ampliarsi di quel vuoto di valori giudaico-cristiani che
giocoforza sarà destinato ad attrarre – non si argomenta il perché
e il percome, ma siamo tenuti a darlo per scontato – i barbari
dell’islam, i quali – toh, combinazione! – restaureranno
l’eterno ordine del matrimonio tra maschio e femmina sgozzando a
destra e a manca. Come a dire: dove non siamo stati capaci noi a
convincervi con le buone maniere, vi meritate arrivino loro a
convincervi con quelle cattive.
Rozza nel fondo e ipocrita in
superficie, la ratio di questa maledictio ci dà ulteriore prova di
quanto lo «scontro di civiltà» così spesso evocato da una
pubblicistica strabica e ansiogena altro non sia, in realtà, che un
patto non siglato tra due inciviltà contro un comune nemico: la
libertà che si va affrancando da antiche regole, le quali non reggono più
da tempo alle pressanti istanze rappresentate dai bisogni degli
individui. E qui, in quest’articolo scritto all’arrivo della
notizia che in Irlanda il matrimonio gay è legge dello stato,
l’unica differenza che è dato cogliere tra la tradizione difesa da
Giuliano Ferrara e quella difesa dal Califfo è che la prima non ha nemmeno più gli strumenti per imporsi con degli argomenti
convincenti, sicché è costretta a vagheggiare le scimitarre di cui
si serve la seconda. Senza nemmeno potersi permettere di farlo in
modo esplicito, ma dissimulandolo in una profezia di sventura. Siamo davvero messi male, direi.
domenica 24 maggio 2015
Bergo’, non mi fraintendere
Bergo’,
non mi fraintendere, lungi da me la presunzione di impancarmi a
esperto di pastorizia, e poi per far la lezioncina a te, che sei pastore per antonomasia, però, che cazzo, hai il gregge che sta a vomitare bile
pure dalle orecchie, non puoi star lì, patulae
recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena,
e far finta di niente. Non dico scomunicare l’Irlanda in blocco,
ma puoi far finta che non sia accaduto niente?
Oggi belavano
da far pena, e tu? Un pensierino sulla Grande Guerra, tanta apprensione per
chi soffre nel Golfo di Bengala e mezza pippa sul beato Romero.
Questo all’Angelus, ma vogliamo
parlare dell’omelia? Ennesima
tirata contro la corruzione, ok, non guasta mai, fa tanta simpatia, ma almeno un
avverbiuccio che lasciasse intendere che tra i corrotti tu ci metti pure
chi corrompe un istituto come il matrimonio – dico – che ti
costava? Una cosuccia ambigua – dico – che si capisse e non si capisse, e invece? Col massimo rispetto, eh, un cazzo di niente.
Idem coll’ennesimo promo
dell’enciclica ecologica, che sarà sempre troppo tardi quando ti
deciderai a pubblicarla: che ti costava parlare del buco dell’ozono
buttando lì distrattamente un’allusione...? Ok, vabbè, come non
detto, questo sarebbe stato troppo pure per Siani e per Mammucari,
però suppongo avrai capito: far finta che in Irlanda non sia
accaduto niente è stato peggio, molto peggio di un «cazzo
in culo non fa figlio, solo salsa di coniglio», che poi ci avrebbero
pensato Vian, Tarquinio e gli altri a rimediare dicendo che proprio questa sembra essere la più attendibile versione di un papiro di Qumram.
Insomma, fa’ qualcosa, ché, come a Clarice Starling straziava il cuore, tutto ’sto belare a noi laicisti strazia i coglioni.
Il default antropologico non ci preoccupa
Il
default antropologico non ci preoccupa, anzi, riusciamo a farne
motivo di vanto, come di uno specifico che dia destino ad un
carattere, che ormai solo per comodità chiamiamo cattolico. In
realtà, il cattolicesimo – come blocco di potere, come corpo
dottrinario, come sistema culturale, come universo psicologico, come
cazzo vi pare – c’entra, sì,
ma solo fino a un certo punto: quando diciamo cattolico intendiamo
dire italiano, avendone l’idea di una
felice, irripetibile e mai abbastanza apprezzata sintesi di
due sudditanze che ci consentono di sentirci liberi nella permanente
fluttuazione dall’una all’altra.
Se non è chiaro, guardate le reazioni alla notizia che arriva
dall’Irlanda. Lasciate perdere
chi dell’essere nominalmente italiano – in questa occasione, ma non solo – si
vergogna in modo più o meno esplicito, più o meno cosciente, perché
a rigor di logica neanche può dirsi italiano se non va fiero della
merda che gli sta attorno e dentro: guardate gli altri, gli italiani
veri, quelli compresi nello spettro che va dal ritenere che
l’omosessualità sia un peccato,
una disgenesia o una perversione, sennò un mix, al concedere che non
sia niente di tutto questo, ma che comunque il matrimonio non le si attagli, tutt’al
più possa andar bene un surrogatuccio, e per piacere non parliamo di adozioni, ché invece di due babbi o di due mamme è meglio un babbo frocio e una
mamma lesbica, e «questa mica è
omofobia, i gay li trovo assai carini, ho pure un amico che è gay,
nel guardaroba ho pure una giacca di Dolce & Gabbana e riconosco
il genio di Leonardo da Vinci».
Sembra variegato, il blocco, e al punto da far venire pure qualche
scrupolo nel metterci dentro chi alla notizia che arriva dall’Irlanda
reagisce con un «vabbè, si sa che il
mondo va in malora, ma qui – da noi – mai» e chi, vabbè, forse
sarebbe è venuto il momento di pensare a «una legge giusta
ed equilibrata che garantisca pari diritti alle coppie omosessuali
[ma] non c’è bisogno [di usare il] termine “matrimonio”» (il
primo virgolettato riassume alla meglio i tweet di Roberto Formigoni,
il secondo è testuale, di Pierluigi Battista): via ogni scrupolo,
sono solo diverse sfumature dell’essere
italiano nel modo che sul “matrimonio” non ammette sia messo in
discussione chi ne abbia diritto e chi no. Ormai, per come girano
le cose, non ha più senso far distinzione tra un Formigoni e un
Battista più di quanto ne abbia farla tra chi neghi il pane a chi lo chiede e chi proietti dal balcone un ologramma a forma di brioche.
sabato 23 maggio 2015
«Gomblotto!»
La
Consulta sul taglio dell’indicizzazione delle pensioni, Bruxelles
sul reverse charge dell’Iva alla grande distribuzione, ora manca solo
un avvisetto di garanzia e un cazziatone di Avvenire, poi la paranoia
che è tipica d’ogni Ghepensimì potrà finalmente uscire dalla tana. Ne avremo preavviso al primo dei suoi claqueur che urlerà: «Si tratta di un gomblotto!».
Crunch!
«Mi
piacerebbe che si arrivasse a un sindacato unico»
Matteo Renzi (Bersaglio mobile –
La7, 22.5.2015)
«Sa di nuovo, no? Tanto chi lo ricorda più, il sindacato unico del 1926? Dammi retta, Meb, il paese ci
vedrà un’altra semplificazione. In fondo è bastato cambiarle nome e chi si è accorto che abbiamo reintrodotto la legge Acerbo?»
«Ok, capo, però evitiamo di offrire il fianco ai rompiballe. Facciamo come col partito
unico, che a chiamarlo partito della
nazione fa tutto un altro effetto. Invece di sindacato
unico, sindacato della nazione, buonsindacato, chessò, sbloccacontrattazione...»
«Uhm, sboccacontrattazione non è niente male... Tu intanto avverti i ragazzi che, quando avremo un partito unico e
un sindacato unico, a nessuno scappi di chiamarlo corporativismo. Rubrichiamo tutto sotto l’hashtag #cambiaverso, così il verso continua a rimanere nel vago»
«Lo dico a Luca...»
«Bene. Passami le patatine...»
E così il cerchio si chiude
Neanche
candidarli, quelli condannati. Via dalle liste, a ogni tipo di
elezione. Anche se condannati solo in primo grado? Sì, anche quella
era condizione ostativa. Valeva solo per le liste del Pd? No, il Pd
lo pretendeva anche per le liste dei partiti della coalizione che guidava.
Era
ieri, si tratta di quanto recitava il Codice etico in allegato
al programma che il Pd sbandierava alla vigilia delle elezioni
politiche del febbraio 2013. Potevano chiamarlo in altro modo –
chessò, Galateo elettorale – e invece no, quelle
disposizioni volevano avere la cogenza del codice, vantando di trarre
ispirazione da un imperativo morale.
E
allora suppongo mi sia lecito affermare che nel Pd, nel giro di due
anni, dev’esserci stata una profonda
revisione critica di quanto prima era etico e oggi,
palesemente, non lo è più. Palesemente, perché sostenere nel 2013 la candidatura
di De Luca a governatore della Campania avrebbe sollevato un
impedimento di natura morale, non ha importanza se solo nella forma dello scrupolo, mentre oggi, a quanto pare, non lo
solleva più, neppure declassando lo scrupolo a dubbio, a tatto, a ultima premura.
Oggi il Pd sostiene la candidatura di uno che due anni fa sarebbe stato incandidabile, e il sostegno è espresso nel modo più qualificato, dal segretario del partito. Il quale pare non abbia lesinato qualche scrupolo nel tentativo di evitare la candidatura che oggi appoggia senza porsi alcuno scrupolo. E così il cerchio si chiude.
venerdì 22 maggio 2015
[...]
Senza
dubbio attraente, per gli amanti del genere, l’ipotesi
di Sandro Veronesi sul Vangelo di Marco (la Lettura –
Corriere della Sera, 17.5.2015): sostiene che la raccolta di
detti di Gesù nota come fonte «Q»,
trasfusa nei Vangeli di Matteo e di Luca, non fosse ignota a
Marco, come si è sempre creduto, ma che da questi sia stata
deliberatamente espunta, perché poco adatta al pubblico romano, cui
il suo Vangelo sarebbe stato espressamente indirizzato. «Hai
davanti – scrive – il
più grande impero della storia, gente ricca, evoluta, che ha già
l’acqua calda in casa e schiavi a volontà, non puoi dire loro di
porgere l’altra guancia, o convincerli con le altre parole
contenute nel Discorso della Montagna. [...] Marco ha
tagliato delle parti per una questione di composizione: aveva chiaro
che doveva dialogare con l’immaginario epico dei romani. Il Vangelo
di Marco è il Vangelo dell’azione: è lungo la metà delle pagine
degli altri, e che cosa manca? Le parole, non le azioni. Ma i romani
non avevano alcun interesse nelle parole di un popolo che non
significava niente per loro. Le azioni, le guarigioni, i miracoli,
gli esorcismi invece erano entusiasmanti».
Brillante, ma non del tutto convincente, perché il Vangelo di Marco
non è affatto privo di affermazioni che potessero suonare
estremamente fastidiose alle orecchie dei romani, com’è
nel caso di Mc 10, 23 («Quanto
difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di
Dio!»). Basti pensare al modo col quale la società
romana di quei tempi reagisse a discorsi simili, com’è
nel caso di Seneca, che godé sempre di ottima reputazione, anche nei
momenti bui sotto Claudio, prima, e sotto Nerone, dopo, fatta
eccezione per le critiche, anche abbastanza acide, che gli piovvero
addosso quando osò svilire l’attaccamento
ai beni materiali, e che lo costrinsero subito a precisare che essere ricchi non fosse comunque ostacolo alla saggezza (De vita beata, 21). Se il
suo Vangelo mirava eminentemente a un dialogo con i romani, Marco
avrebbe lasciato quel paragrafetto?
[...]
«L’amore
è un’invenzione del XII secolo»
(Charles
Seignobos), già questo basterebbe a scoraggiarci dal porci la
questione di come si possa più appropriatamente immaginare, ai nostri giorni, un
matrimonio plasmato sul modello di amore coniugale che Paolo illustra
nella
Lettera
agli Efesini,
per giunta
liquidandolo
in mezza dozzina di versetti.
Si pensi, dunque, quanto insostenibile avrebbe da essere la fatica di chi volesse farsi
anche soltanto uno straccio di idea sull’armoniosa
corrispondenza di affetti che, in un’intervista
concessa a Lettera
43,
la moglie di Mario Adinolfi ci assicura sia perfetta proprio grazie
all’osservanza
del dettato paolino. Perciò mi scuso con quanti mi hanno chiesto di
commentare quest’intervista,
confessando che non posseggo tutta ’sta
forza. Mi limiterei ad una sola annotazione, a margine del passaggio in cui si legge che, «nella
esegesi dell’Adinolfi
pensiero, i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio
corpo»: chiamate la polizia!
giovedì 21 maggio 2015
[...]
Un
po’
stupisce che Vilfredo Pareto, sempre acutissimo, qui incorra in un incidente argomentativo tanto increscioso. Il brano è tratto dal IV capitolo di Trasformazione
della democrazia
(1921) e a rivelarne il difetto logico non è neanche il fatto che
dia la democrazia in ottima salute praticamente alla vigilia della
Marcia su Roma, per giunta in una stagione in cui è messa in discussione innanzitutto sul piano teorico, quanto invece la confusione tra fede
e religione,
e quindi, mutatis mutandis, tra sostanza e forma della democrazia, che altrove sa peraltro tenere
ben distinte, seppur critico verso entrambe. Riprendendo il suo
esempio dalla novella del Boccaccio, cosa persiste alle male opere
dei prelati romani, la fede
o la religione? E cioè: quale prova di sostanza democratica è data dalla mera forma democratica? Si finge ciò che a molti è ben accetto, è vero,
ma questo non dà alcuna ragione del perché lo sia, né rende conto
di cosa esattamente sia ben accetto. Sempre per tenerci sull’esempio
proposto, Boccaccio può dare una spiegazione della conversione
dell’israelita
prendendo per buono il motivo che da quello gli è offerto (o
attribuendoglielo nella finzione narrativa), ma questo non scioglie
il dilemma se le male opere dei prelati romani indeboliscano e al
contrario rafforzino quella che di fatto non è la reale potenza della
fede, ma la sua mera rappresentazione (υποκρισιη).
martedì 19 maggio 2015
Di quanti avete riso?
Non
ho alcuna intenzione di unirmi ai tanti che pare non riescano a
trovare altro che una ridicola macchietta in Gerardo Bevilacqua,
anzi, vorrei invitare il mio lettore ad una riflessione seria,
pregandolo di astenersi da ogni commento anche solo delicatamente
beffardo. Il video che qui sotto allego, quindi, valga esclusivamente
come materiale dal quale traggo le ragioni della mia riflessione, non
come bersaglio che intendo offrire all’irrisione
o, peggio, all’insulto, che in
ogni caso provvederò a censurare.
Ciò detto, comincio col dire che
devo la scoperta di Gerardo Bevilacqua a un tweet di @makkox e che
questo post è concepito come risposta ai commenti che ha
sollecitato. Bene, visto che chi ha qualche dimestichezza con queste
pagine non dovrebbe essere del tutto all’oscuro
di cosa io pensi della politica che si fa vanto di aver perso la
dimensione ideologica in favore della narrazione di una vicenda
personale, quella del leader carismatico, che è offerta a militanti,
simpatizzanti ed elettori come un genere di consumo, qui potrò tagliar corto limitandomi a porre solo tre domande.
La prima: a quanto assomma
in percentuale il bacino di consensi che va a quei leader che offrono
questo tipo di prodotto? Non meno dell’80%,
forse addirittura il 90%: Renzi (35-37%), Grillo (20-24%), Berlusconi
(12-17%), Salvini (12-14%), Pannella (0,2-0,4%). Dovrebbe esser
chiaro che, se il mercato del consenso politico è contraddistinto da
un certo tipo di domanda, l’offerta
di chi scende in campo non potrà che andarle incontro, e occorre
avere due spesse fettine di salame sugli occhi per non riuscire a
cogliere che i prodotti commerciali sopra citati sono tutti presi a
modello nei dieci minuti di comizio di Bevilacqua. Con risultati
scadenti, mi si dirà, e qui concordo, ma solo per porre la seconda
domanda.
La piazza di Cerignola era stracolma come mai sarebbe riuscito ad ottenere chi vi avesse portato un altro genere di offerta, e a quanto pare, per ciò su cui un po’ tutti ormai convengono, l’importante in democrazia è quanta gente hai sotto il palco. E dunque: che c’è da ridere?
La piazza di Cerignola era stracolma come mai sarebbe riuscito ad ottenere chi vi avesse portato un altro genere di offerta, e a quanto pare, per ciò su cui un po’ tutti ormai convengono, l’importante in democrazia è quanta gente hai sotto il palco. E dunque: che c’è da ridere?
Concordo anche sul
fatto che una cosa sia riempire le piazze e un’altra
le urne, ma allora conviene sospendere ogni giudizio su Bevilacqua,
soprattutto se sarcasticamente liquidatorio, in attesa del risultato
che otterrà. Nel caso sarà buono, non si potrà biasimare chi lo ha
votato, ma solo, eventualmente, chi ha fin qui resi vincenti i modelli cui si ispira. E qui chiudo, con
l’ultima domanda: di quanti avete riso,
perché sembravano patetici buffoni, di cui ora non potete che aver
paura?
lunedì 18 maggio 2015
Siamo alle solite
Siamo
alle solite, Ferrara crede di potere aver la meglio sugli altrui
argomenti distorcendoli a suo piacimento. Vi risulta che fra quanti
sono contrari a un preside che possa scegliersi i docenti che vuole
(e va’ a capire dovendone dar
ragione a chi) ce ne sia uno solo che sollevi l’obiezione
che quello possa essere un coglione? No, eh? E infatti. L’obiezione
è che di questo potere un preside possa facilmente abusare, creando
odiose situazioni in cui capriccio o peculato possano dar vita a
discriminazione o a mobbing. E dunque quale funzione assume il
controargomentare che coglioni possono essere pure gli studenti, i
loro genitori, gli insegnanti, i rappresentanti sindacali della
scuola, eccetera? Ma è di piana evidenza: stornare l’attenzione
dal vero nodo della questione, per ridicolizzare chi la solleva.
Certo, chiunque può essere un coglione, di fatto lo è soltanto chi
si fa infinocchiare da mistificazioni tanto dozzinali, mentre la
differenza che c’è tra una
gestione monocratica ed una collegiale, soprattutto su punto tanto
delicato come il criterio della selezione del corpo docente, resta
immutata. Ma coglione di gran lunga più grosso è chi si beva quel
«crocianesimo di Togliatti», che non
merita nemmeno un commento, ma solo una smorfia che compendi disgusto
e compassione.
«Ah, però, che forza!»
A
voler essere spietato con me stesso, non devo escludere che possa
esserci un fondo d’invidia
nell’indignazione che provo
dinanzi alla sfacciataggine di chi riesce a farsi vanto pure di un
fallimento: mi chiedo quanta di tanta disonestà intellettuale sia
finalizzata a preservare un’autostima
che in questo modo diventa a prova di tutto, e quanta a difendere una
reputazione pubblica che quella stessa autostima non riesce a
figurarsi altrimenti che lusinghiera, ma poi rinuncio a darmi una
risposta, resta lo sdegno, nel quale non mi stanco di scrutare
temendo – realmente temendo, giuro – che affiori un «ah,
però, che forza, più invulnerabile ai rovesci della vita di quanto
lo sia una blatta ai fallout nucleari!».
@FedericaMog
Di
grazia, gentile @FedericaMog,
come verrebbe disrupted
’sto business
che sappiamo
avere numerose basi, delle quali tuttavia in molti casi si sa poco o
niente, ma che è certo siano tutte sulla terraferma,
sparse qua e là su un territorio immenso, che si estende dalla Siria
all’Algeria?
Con una naval operation –
dice – ho letto bene? Do per scontato che l’idea
non sia quella di mandare sul lastrico smugglers
e traffickers
affondando i loro carichi a colpi di cannone, in modo da rovinarne la reputazione di operatori nel settore dei trasporti. E allora? Come si fa a
colpire chi lucra sul traffico di migranti nel Mediterraneo – quella sembrerebbe la mission – con delle
navi, che al massimo potranno entrare in acque libiche o tunisine,
ammesso che sia loro consentito, il che al momento neppure si può dare per scontato? I toni del suo annuncio sembrano
trionfali, ma neanche la sfiora il sospetto che la Ue le abbia
offerto un contentino perché almeno per un po’ non rompa più i coglioni? O lo sa bene
e con questo tweet cerca di rifilarci l’anodino?
Appunti
Un
fondo di giacobinismo è presente in ogni populismo dal basso, ma nel
tratto peculiare che ne fa un modello dei processi di commutazione di
una democrazia in dispotismo è presente anche in quella declinazione
della post-democrazia nota come populismo dall’alto,
che al carattere disgregante del
populismo dal basso somma quello normalizzante del potere
istituzionalizzato, piegando così il malcontento degli oppressi al
disegno degli oppressori, nella logica che è tipica della
rivoluzione restauratrice, sicché potrà apparire grottesco, ma ha
una sua ratio, che in questi casi l’autoritarismo
riesca ad essere ottimamente spacciato come espressione della volontà
popolare finalmente liberata da freni ad essa posti da superflue
procedure di garanzia, che una controriforma riesca ad essere
ottimamente spacciata come riforma, che al vecchio basti un
maquillage nemmeno troppo elaborato per essere ottimamente spacciato
come il nuovo. In entrambi i casi, che il populismo sia dal basso o
dall’alto,
chi si intesta il merito dell’operazione
deve invariabilmente vestire i panni di un uomo in cui siano
rappresentati in sommo grado tutti i tratti caratteriali della platea
dalla quale aspira a raccogliere il consenso, riuscendo a dare forma di virtù a
ogni difetto che in quella cerchi aspirazione ad un avallo, accreditandosi così come mero strumento della volontà
popolare in ogni passaggio che sia contraddistinto da una resistenza
alla sua azione, sicché possa
agevolmente trovar modo di rappresentare ogni conflitto che ne possa
sorgere come il capitolo di un’epopea di liberazione. Ogni diritto
che intenderà negare a una parte della società dovrà assumere
l’aspetto di un privilegio lungamente e ingiustamente goduto da una minoranza a
scapito dell’intera collettività, in modo tale che il più
generale processo di negazione dei diritti acquisiti dall’intera
società venga diffratto in episodi che possano essere narrati come
vittorie contro caste, lobby, corporazioni, categorie che fin lì
erano riuscite a difendere i propri egoistici interessi a danno del
bene comune: ogni volta, contro ciascun settore che si intenderà
colpire si chiamerà a sostegno tutto il resto della società, reclutato contro un nemico pubblico, e non
sarà neppure necessario che la chiamata ottenga un reale sostegno
perché questo sarà sempre dichiarato solido, ancorché surrettizio, per il solo fatto che l’azione isolerà il bersaglio dell’attacco.
Di qui la necessità di non esplicitare mai nel dettaglio il progetto
di società cui si mira, ma di tenerlo invece nel vago di un felice
organicismo che può essere raggiunto solo se saranno espunti i
particolarismi che ne impediscono la realizzazione: un miraggio di
società, quindi, nella quale i conflitti siano annullati in una
generale condiscendenza, dalla quale possa sottrarsi solo chi coltivi
pulsioni antisociali, vuoi nella forma degli estremismi politici di
opposto colore, che si delegittimano per il solo fatto di avere un
colore (ideologismi), vuoi in quella della devianza morale o psichica (gufi, rosiconi, ecc.), comunque a prezzo della condanna di un senso comune incoronato a buonsenso. Giocoforza,
perché il diritto sia inteso come privilegio, il vecchio presentato
come nuovo, la critica liquidata come disfattismo, l’opposizione
come sabotaggio, l’arroganza
promossa a decisionismo, il cinismo e l’opportunismo
a metodi d’alta
politica, è opportuno che venga dispiegato tutto l’armamentario
della mistificazione semantica, che sortirà il miglior esito quanto
più i processi di formazione dell’opinione
pubblica verranno piegati al servizio del disegno populista, con l’acconcio dosaggio di minaccia e di blandizie, di furto e di mancia, di spietato ricatto e di condiscendenza complice. In ciò,
col singolare paradosso di una democrazia formale a paravento di un regime autoritario che si autolegittima come governo di salute pubblica, siamo dinanzi ad un
altro aspetto del giacobinismo: l’affermazione
della legittimità a piegare le leggi, secondo una incontestabile
logica, ad un incontestabile stato di necessità, che sul piano
semantico trova piena rispondenza nel sopruso della distorsione dei
termini più comunemente usati nel dibattito pubblico, per piegarli a
strumento di persuasione occulta. Chiunque si azzardi a segnalare e a denunciare questo sopruso dovrà aspettarsi di essere trattato almeno come con un petulante scassacazzi, se non addirittura come un guastatore della rinascita della nazione.
domenica 17 maggio 2015
E il resto vien da sé
Dunque. Ci abbiamo
messo qualche secolo, ma infine l’abbiam capito: c’è chi è nato per comandare e chi per obbedire, ’sta
stronzata che la sovranità appartiene al popolo in fondo è sempre stato un insulto alla
legge di natura, l’importante è non esagerare pretendendo che i
sudditi offrano a gratis le loro figlie vergini al re e ai nobili,
anzi, sarebbe consigliabile l’evitare di chiamarli a questo modo, così, in cambio, loro rinunceranno a farci pesare l’essere di una razza speciale, e
finalmente potremo godere della tanto agognata concordia sociale, che
è andata a farsi fottere da quando qualche anima bella s’è messa
a predicare che siamo tutti uguali. Stronzate. Certo, dirlo non è
delicato, ma l’importante è darlo per scontato, poi sopra, a mo’ d’addobbo, ci si può mettere pure un po’ di magnanimità. E il resto vien da
sé.
[...]
A
chi devo prestar fede? A Ernesto Galli della Loggia, tanto per dirne
uno, il primo che mi viene in mente fra quanti, un giorno sì e
l’altro
pure, lamenta la
generale
indifferenza
per le vittime della cristianofobia che...? No, aspettate, sarà
meglio che lo citi testualmente. Prendo uno dei suoi articoli
sull’argomento,
uno a caso, tanto sono tutti uguali. Dice che «i
due principali motivi di questa vasta indifferenza sono [il
fatto che] sempre
di più stentiamo a sentirci, e ancor di più a dirci, cristiani [e poi che abbiamo] paura
dell’islam
arabo, del suo potere di ricatto economico, […]
del
[suo]
terrorismo spietato».
Non è tutto, perché dice pure che ad impedirci di correre in
soccorso dei cristiani fatti oggetto in Medio Oriente di odiose persecuzioni e orribili massacri è la nostra «impossibilità
psicologica di avere un “nemico”, [...] che
unita al rifiuto/rimozione della morte – morte che il tramonto
della religione rende ormai impossibile accettare e dunque in qualche
modo esorcizzare – sta a sua volta producendo in occidente una
gigantesca svolta storica: la virtuale impossibilità per noi di
pensare e di fare la guerra».
Robe da far venire dei bei sensi di colpa, come minimo. Eventualmente, per non limitarsi al minimo, da fare un pensierino a una crociata.
Bene, dar credito a lui o a monsignor Antoine Audo, vescovo di Aleppo? Lui dice: «L’allarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista. In certi ambienti c’è una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell’occidente nei confronti dell’islam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa. Dall’altro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l’ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l’idea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono l’una con l’altra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione».
A chi credere? Capirete che, a dar retta a Sua Eccellenza, Ernesto Galli della Loggia mi diventa, ancorché «per paradosso», alleato dei wahhabiti... Oddio, quella barba potrebbe pure far venire un inquietante sospetto... Ma no, via, non voglio crederci.
Bene, dar credito a lui o a monsignor Antoine Audo, vescovo di Aleppo? Lui dice: «L’allarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista. In certi ambienti c’è una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell’occidente nei confronti dell’islam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa. Dall’altro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l’ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l’idea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono l’una con l’altra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione».
A chi credere? Capirete che, a dar retta a Sua Eccellenza, Ernesto Galli della Loggia mi diventa, ancorché «per paradosso», alleato dei wahhabiti... Oddio, quella barba potrebbe pure far venire un inquietante sospetto... Ma no, via, non voglio crederci.
sabato 16 maggio 2015
«Somiglia tremendamente»
«Tu
facevi la terza liceo, io ero ai primi anni di insegnamento... Tutto
per te era occasione di disturbo, ti piaceva creare confusione,
paralizzare l’attività didattica... Non hai mai studiato, per
tutto l’anno... Caro Giuliano, eri così...» (Maurizio
Lichter – il
manifesto,
29.1.2008). Non c’è
da stupirsi che si sia persa pure la lezione sul modello astronomico
cui Dante Alighieri si ispirò per costruire il suo Paradiso, cinquant’anni
dopo avrebbe potuto soccorrerlo il pur vago ricordo che era quello tolemaico: astri incastonati in sfere di cristallo, una dentro l’altra, un universo fatto a cipolla.
Niente, nel tappare le falle lasciate aperte da una gioventù
sprecata a far casino – dopo il Principe
e l’Orlando
furioso
ci tiene a far sapere che ora sta studiando la Divina Commedia, poi probabilmente sarà la volta dei Promessi sposi – è
inevitabile ci finisca dentro roba che non c’entra
un cazzo. Ecco, allora, che a un Ferrara visibilmente eccitato da un picco degli zuccheri sembra che le terzine dantesche possano tornare a fagiolo da didascalia alle foto di galassie e nebulose che
il telescopio Hubble ha scattato nelle abissali lontananze dello
spazio: dalla Nasa, insomma, la prova che l’universo «somiglia tremendamente» a come ce lo si immaginava nel Trecento. Argomentasse, almeno. Macché, nient’altro
che una mistica d’accatto:
«Nelle
foto di frate Hubble vedete i pilastri della Creazione che sono
l’allegoria
dell’Aquila
in non ricordo più quale cielo ma comunque molto in alto, una figura
esoterica della gerarchia angelica e di tanto altro, vedete i diademi
della Madonna incoronata, il manto di Cristo che la raccoglie e se la
porta nell’Empireo,
vedete tutto quello che non avete mai voluto o potuto vedere, tutti
gli ubi in cui consiste la divinità e il luogo da essa attribuita da
sempre e per sempre a tutto e a tutti; cose non viste né pensate per
mancanza di devozione, alla poesia medievale-moderna però, non alla
religione idoleggiata dal secolarismo come Arcinemica della ragione»
(Il
Foglio,
16.5.2015). A non vedercela, tutta ’sta
roba? Che domande, significa che si è insensibili. A Dio, ad Hubble
e a Dante.
[...]
Sono
contro la pena di morte, ma ritengo vi sia barbarie pure
nell’opporvisi argomentando che l’ergastolo sia pena che infligge
una maggiore sofferenza, il che peraltro è vero. Non faccio fatica a
comprendere che con questo argomento si cerchi comunque di evitare
che una vita venga sacrificata al bestiale istinto di vendetta, fatto
sta che lo si placa allettandolo con l’offerta di un sacrificio più
crudele. E questo mi fa perdere facoltà di distinguo tra il profilo
culturale (in prima stesura avevo scritto «morale») di chi è a
favore della pena di morte e di chi le è contro.
venerdì 15 maggio 2015
[...]
«Restituiremo
una parte dei soldi nei prossimi mesi» è come dire «rispetteremo
solo in parte la sentenza della Consulta ma non subito». Per uno che
prima di aprire bocca sulla faccenda ci ha messo una settimana, mandando avanti lacchè e famigli a dire solo «boh», «beh», «bah», è
come dire «sto nella merda ma in fondo somiglia a cioccolata».
E non c’è da stupirsene, perché si tratta di uno di quei tizi che, se gli dici «sì, ma è merda», ti dà del disfattista e ti rinfaccia di avere la puzza al naso.
E non c’è da stupirsene, perché si tratta di uno di quei tizi che, se gli dici «sì, ma è merda», ti dà del disfattista e ti rinfaccia di avere la puzza al naso.
Ma guarda tu la coincidenza
Ma guarda tu la coincidenza. Arriva
un’altra
sentenza della Consulta che sembra fatta apposta per rilanciare la
questione posta di recente da chi lamentava
che «non
c’è praticamente giorno in cui non compaia qualche nuova notizia a
ricordarci come molte decisioni politiche dipendano dalle pronunce di
un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure della Corte
costituzionale»,
e lanciava l’allarme
che ’sta
cazzo di «giustizia
onnipresente indebolisce la politica» (Giovanni
Belardelli – Corriere
della Sera,
11.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per rinnovare la
preoccupazione di chi non arrivava a dire che le sentenze non debbano
ripristinare i diritti violati se questo mette in difficoltà lo
Stato che li ha violati, ma andando per le ellittiche chiedeva
«quanti
diritti possiamo permetterci?» (Luigi
Ferrarella – Corriere
della Sera,
13.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per far girare i
coglioni a chi diceva che, certo, non si discute, «la
legge è legge»,
però, col mondo che gira sempre più veloce, la giustizia non può
essere più «attività
di accertamento della legge come è»,
ma deve diventare «attività
di governo dell’esistente»,
«creazione
della regola caso per caso»,
sensibile alla «necessità
politica» (Giuseppe
Maria Berruti – la
Repubblica,
13.5.2015).
Accade
che, dopo averne già abbattuti altri due nel 2009 e nel 2014, la
Consulta abbatta un terzo pilastro della legge n. 40 del 19.2.2004
(Norme
in materia di procreazione medicalmente assistita),
della quale adesso resta in piedi poco o niente. Legge che fu approvata da
un Parlamento democraticamente eletto. Legge che, peraltro, su
quattro dei suoi punti fu sottoposta al vaglio referendario, che non
ne corresse neanche una virgola. È un caso, insomma, al quale calza
ottimamente il paradigma di una giustizia che indebolisce la politica
(anche qui rivelandone le carenze di cultura giuridica), di diritti
violati il cui ripristino implica un costo alla collettività (qui
non eccessivo, ma comunque a carico del servizio sanitario
nazionale), del sacrificare la necessità politica all’applicazione
della norma costituzionale così com’è
(nel caso di specie, sacrificare all’art.
32 della Costituzione tutto quello che si era guadagnato leccando il
culo al cardinal Ruini).
E dunque? Come avrebbe dovuto comportarsi,
la Consulta, per evitare che chi ha votato la legge 40 rimediasse l’ennesima
figura di merda? Non ne ricava analoga figura anche il Paese che per
tre quarti si astenne quando fu chiamato a esprimersi su quella
legge, così riconfermandola? Ed è delicato che la Corte
costituzionale faccia presente che la volontà popolare, ancorché
espressa con la strafottenza, conta meno di niente quando è in
patente contraddizione con la Carta? È giusto che adesso il
contribuente debba accollarsi anche la spesa della diagnosi
pre-impianto per chi il sistema sanitario nazionale solleva da oneri
perché non abbiente? In fondo, a stabilire che per il diabete e
l’ipertensione
passi, ma per la diagnosi pre-impianto è troppo, non dovrebbe essere
la politica? E la giustizia, recependo l’esigenza posta dai tempi
alla creazione di regole caso per caso, secondo la necessità
politica, prima di stendere la sentenza che rinnova il giudizio della
legge 40 come legge di merda, non avrebbe dovuto chiedere al
Ministero della Sanità se c’era adeguata copertura finanziaria per
consentire ad una coppia di poveracci, per giunta portatori di
talassemia, di avere un figlio sano?
Domande provocatorie, certo, ma
voglio dare per scontato che tali fossero pure le questioni sollevate da Belardelli, Ferrarella e Berruti, sennò neanche ne discutevamo e li mandavamo direttamente a fare in culo.
giovedì 14 maggio 2015
[...]
«Cultura umanista»
invece che «cultura umanistica». «Parliamoci chiari» invece che
«parliamoci chiaro». La riforma della scuola spiegata da un piazzista semianalfabeta.
Croccantini
Il
giovedì pomeriggio – non di regola come una volta, ma abbastanza spesso – mi
capita di bighellonare per le librerie di Port’Alba,
che un tempo assai di più – oggi, ahimè, quasi per niente –
erano pozzi senza fondo di volumi altrimenti introvabili, per giunta
venduti a prezzi davvero irrisori, prime edizioni, annate di riviste
ormai chiuse da decenni, intere librerie svendute in blocco da eredi
allergici alla polvere. Insomma, non è più come una volta che con due
soldi a casa ti portavi mezzo scaffale di delizie mai più
ristampate, ma intanto l’abitudine
m’è
restata, e oggi avrei in programma la solita capatina.
Fatt’è che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea d’area da Port’Alba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta l’ultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano c’è, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – l’enorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.
Fatt’è che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea d’area da Port’Alba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta l’ultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano c’è, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – l’enorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.
mercoledì 13 maggio 2015
Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà
La
questione del se e del quanto la giustizia stia indebolendo la
politica – ne parlavamo ieri commentando l’articolo
di Giovanni Belardelli uscito l’altrieri
sul Corriere
della Sera
(La
giustizia onnipresente che indebolisce la politica)
– merita che si faccia un minimo di chiarezza sui termini in cui si
pone il problema, sennò a discuterne ingarbugliamo inevitabilmente
la matassa.
Senza intrattenerci troppo sui massimi sistemi, direi non
ci sia scandalo nel periodico conflitto tra poteri che lo stato di
diritto vuole separati e indipendenti: legislativo, esecutivo e
giudiziario erano in principio tre funzioni di una sola autorità,
quindi è del tutto naturale che di tanto in tanto ciascuno mostri la
tendenza ad assorbirne almeno in parte gli altri due, non foss’altro
a rammentarci che, se vuol esser mantenuto, lo stato di diritto
necessita di una costante cura e sorveglianza, non è dato una volta
e per sempre in forza di una sua intrinseca capacità di darsi
stabilità nell’equilibrio
tra i tre poteri, che infatti a volte è mantenuta, quando uno dei
tre mostra un indebolimento, con una transitoria azione vicariante di
uno degli altri due, o di entrambi.
È il caso che l’Italia
ha vissuto circa un quarto di secolo fa, quando il sistema politico,
già da decenni afflitto da una grave crisi, collassò sotto il peso
dei suoi errori: fu la magistratura a vicariare il vuoto di potere
lasciato da un ceto politico ampiamente screditato, chiamato
finalmente a render conto del suo fallimento. Era probabilmente
inevitabile che questo favorisse degli eccessi, che infatti non
mancarono, portando in breve a disdicevoli episodi di protagonismo da
parte di alcuni esponenti della magistratura, che cominciò ad
accusare un altrettanto inevitabile calo di consensi dell’opinione
pubblica che fino ad allora non aveva affatto percepito come
prevaricante, anzi, il suo ruolo di supplenza.
Di pari passo, il ceto
politico procedeva ad un riassetto che lo portava con sempre più
insistenza, e coi toni della più aspra polemica, a rivendicare le
sue naturali prerogative, di cui lamentava lo scippo.
Per quanto
abbia cercato di sterilizzarla da ogni umore di lizza, non pretendo
che questa lettura di quanto è accaduto in Italia venga unanimemente
condivisa, anzi, suppongo che sarà oggetto di critica sia da chi
pensa che quello della magistratura fu un colpo di stato, sia da chi
pensa che la sua meritoria opera di bonifica fu resa vana da quel
subdolo «cambiar
tutto perché nulla cambi» che
ridà forze al malaffare. Comunque si voglia leggerla, tuttavia, mi
auguro che questa storia possa vederci d’accordo
almeno su un punto: è la debolezza di uno dei tre poteri che lo
stato di diritto vorrebbe separati e indipendenti a renderne forte un
altro oltre il dovuto. Nel contempo, è inevitabile che il ritorno ad
una condizione di equilibrio, quando e se questa si ottenga, sia
segnato da fluttuazioni di forze di qua e di là dal limite che la
teoria dello stato di diritto fissa per ciascun potere.
E con
l’articolo di Giovanni Belardelli sul Corriere
della Sera
di lunedì 11 maggio, con quello odierno di Luigi Ferrarella, sempre
sul Corriere
della Sera
(Il
malessere delle sentenze),
e con la lettera di Giuseppe Maria Berruti sul numero de la
Repubblica
oggi in edicola (Quando
le sentenze rallentano la politica)
direi che siamo al punto in cui alla giustizia si chiede un po’
troppo, comunque assai di più di quanto spetti alla politica per suo
diritto.
Prima di passare
al commento di questi altri due contributi sul tema, però, mi è
necessaria una precisazione riguardo a un termine che ho usato anche
nel post qui sotto e che ha incontrato un’obiezione da parte di un
lettore. Infatti ho parlato di «giudici»
includendo nel termine sia i togati che nei tribunali amministrativi,
civili e penali provvedono a far rispettare le leggi per come esse
sono, sia quelli che siedono nella Consulta e che invece le
sottopongono al vaglio di costituzionalità: espediente lessicale che
intendeva mantenere la genericità di critica che Belardelli muoveva
alla «giustizia», senza alcuna distinzione
di funzione e di ruolo, per la sentenza della Corte costituzionale
che dichiara l’illegittimità
di un decreto sulle pensioni, per quella di un Tribunale penale che
ordina la
chiusura di una fabbrica responsabile di danni ambientali e alla
salute dei cittadini, per quella con la quale un Tar solleva
eccezione alla sospensione di un sindaco. Per quello che sarà
necessario al commento di ciò che scrivono Ferrarella e Berruti
potrò risparmiarmi la «confusione»
che ho ingenerato col parlare di «giudici», in senso
conseguentemente
lato: entrambi sembrano voler appuntare l’attenzione
in modo pressoché esclusivo sulla decisione della Consulta sul
taglio
delle indicizzazioni delle pensioni che era nel cosiddetto
Salva-Italia del governo Monti, e a buon motivo, perché, da un lato,
pretendere che la politica sia forte al punto da interferire con la
giustizia sull’applicazione
delle leggi era una «fluttuazione»
francamente eccessiva (in
ciò è da segnalare che l’articolo
di Ferrarella sembra voler riaggiustare il tiro di Belardelli) e,
dall’altro,
è il «buco»
che Renzi viene a trovarsi in cassa a costituire un handicap
oggettivo all’autonomia
delle decisioni politiche.
Col rischio di apparire malizioso, la
dozzina di miliardi di euro che dovrebbe andare ai pensionati azzera
il millantato tesoretto col quale il premier intendeva issare un palo
della cuccagna in vista delle elezioni regionali: quando a un premier
che galleggia su una nuvoletta di chiacchiere togli la possibilità
di raccattare consensi elargendo mance (vedi il caso degli ottanta
euro alla vigilia delle scorse elezioni europee), allora sì che la
politica – questo tipo di politica – oggettivamente si
indebolisce. Così riaggiustato il tiro, la questione può avere
anche una sua dignità, e dunque possiamo passare alla lettura di
Ferrarella e di Berruti. Il primo, ammettendo implicitamente (non
saprei dire se si tratti solo di un espediente retorico) che la Corte
costituzionale si è limitata a difendere dei diritti, si chiede
«quanti
diritti ci possiamo permettere», «quale dose di giustizia può
tollerare il nostro assetto sociale ed economico» e, col concedere
che «fino a pochi anni fa una simile domanda sarebbe suonata
bestemmia», sembra farci intendere che sono finiti i tempi in cui
diritti e giustizia erano garantiti dalla Costituzione, perché oggi
sarebbe più opportuno lasciar decidere all’esecutivo
quanto ne ce tocchino di volta in volta. «Cambiano infatti i casi,
ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a
una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane
ingerenze politiche»: in sostanza, con Berlusconi erano «ingerenze
politiche», per giunta «grossolane», con Renzi è «pressione
sociale». Suppongo, infatti, che in questi giorni abbiate visto le
strade piene di gente incazzatissima per la sentenza della Corte
costituzionale. No? Vabbè, sarà che affollava solo Via Solferino.
Come il lettore mi auguro abbia inteso, non riconosco all’articolo
di Ferrarella altro intento che ammorbidire la posizione di
Belardelli, per sottrarre il Corriere
della Sera
all’accusa di aver virato troppo in fretta il giudizio sull’azione
del governo, ieri guidato da un «caudillo maleducato» (De Bortoli)
e oggi impedito nel fare «una determinata scelta di politica
economica e sociale»
(Belardelli). È quella che passa per moderazione.
Di peso
notevolmente maggiore è ciò che scrive Berruti in forma di lettera
al direttore, e per «peso» intendo «grave», tanto più grave se
si tiene conto che il mittente è presidente di una sezione della
Cassazione, a indizio che anche tra i «giudici» (e qui rimando
all’accezione
cui facevo cenno prima) comincia ad esserci chi è sensibile alle
ragioni di un esecutivo che, all’indomani
di una sentenza della Consulta che ripristina dei diritti violati,
già si arrabatta a cercare il modo per aggirarla, lamentandosi
intanto che quella sentenza «fa perdere credibilità al paese in
sede internazionale» (Renzi).
Berruti scrive: «Si può dire: ma la
legge è legge, la Costituzione è nota e i governi debbono sapere i
limiti dei possibili impegni. Risposta ipocrita. I governi operano
nel presente economico e politico. Nell’attimo,
data la velocità dei mercati finanziari che richiedono risposte che
operano sul piano della pura percezione. In realtà, il problema del
contrasto tra la decisione giudiziaria, che opera su un dato di
certezza giuridica e quindi di immutabilità delle posizioni a regole
immutate, e la decisione politica che risponde alla relazione di
forza, esiste».
Sì, senza dubbio esiste, ma come andrebbe risolto?
Non con mutare le regole caso per caso, voglio sperare, né col
performarle in modo che al governo sia concesso di decidere un po’
come cazzo gli pare, sicuro che il principio di forza maggiore
giustifichi la sospensione della norma scritta. No, possiamo tirare
un sospiro di sollievo, neanche Berruti vuole questo, anzi, dice che
lo «preoccupa uno scenario che affidasse al governo poteri decisivi
e non ostacolabili». E allora? Quale sarebbe la soluzione? Non lo
dice. Dice che la democrazia «sta cambiando» (e su questo siamo
d’accordo,
basta constatare – per riprendere Ferrarella – che oggi si lavora
a rendere tollerabile la «bestemmia»), e che dunque «è urgente
una riflessione politica». Penserà mica a una Consulta i cui membri
siano scelti tutti dal governo? Ci guadagneremmo solo in tanto
shabadabadà.
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