lunedì 30 maggio 2016

Interpretare / 1

Non ho ancora acquistato il libro scritto a quattro mani da Mario Brunello e Gustavo Zagrebelsky (Interpretare, Il Mulino 2016), di cui oggi Il Fatto Quotidiano ha mandato in pagina uno stralcio, nel quale mi pare venga riproposta in modo più che esplicito una questione che probabilmente non sarà mai chiusa con un accordo tra le parti in causa, cioè tra il legislatore e il magistrato giudicante. Nei prossimi giorni mi procurerò il volume e vi saprò dire se mi ha offerto spunti di riflessione, ma fin d’ora, a mo’ di premessa, ritengo utile far sgombro il campo da possibili equivoci su un tema che è estremamente delicato e che costituisce un capitolo centrale della discussione sui rapporti tra politica e giustizia, già affrontato su queste pagine nel commentare in modo critico – aspramente critico – gli interventi di chi muoveva alla magistratura l’accusa di esorbitare dalle sue prerogative per riempire i vuoti lasciati dalla politica o addirittura per usurparne ruolo e funzione. Come mi auguro sarà evidente dalla lettura di quanto segue, io ritengo che la separazione dei poteri implichi necessariamente che il legislatore perda ogni facoltà di controllo sul testo di legge dopo che lo ha licenziato, e che, laddove le sue intenzioni non siano fatte esplicite dal testo, la sua interpretazione è giocoforza nella disponibilità di chi applica la norma, ovviamente nei limiti posti dalla giurisdizione costituzionale. Ma su questo tornerò nelle conclusioni in coda alla serie di post di cui questo è il primo.



1. I problemi posti dall’«interpretazione» sono già tutti impliciti nellincertezza che a tuttoggi resta sul suo etimo. Se è chiaro, infatti, che «inter-» stia per «tra», a intendere una relazione tra cosa e cosa, è controverso cosa la stabilisca, visto che per alcuni la «-pretazione» sarebbe «negoziazione» o «permuta» (per significato estensivo dato a περαω, che sta per «vado a vendere»), mentre per altri sarebbe «esposizione» o «spiegazione» (da φραζω, che sta per «mostro», «indico», «dichiaro», ma che ha molti altri significati, non meno pertinenti in questo caso, come «scorgo», «medito», «delibero»). Probabilmente è questo che dà ragione della notevole plasticità che assume il significato dell’«interpretare», al pari di ciò che accade col «tradurre», termine che gli è affine sia nell’accezione che fa dell’«interprete» colui cui spetta «trans-ducere» un testo da una lingua a un’altra, sia in quella che ne fa l’intermediario tra l’autore e chi è destinato a fruirne, com’è nel caso di una commedia o di un brano musicale. Questaffinità tra «interpretazione» e «traduzione» spiega perché all’«interprete» e al «traduttore» venga spesso mossa la stessa accusa, quella di aver «tradito», per colpa o per dolo, il testo che erano stati chiamati a «interpretare» e a «tradurre». È accusa che non di rado è assai difficile stabilire se fondata, perché il presunto «tradimento» è spesso ai danni di chi solo avrebbe pieno diritto di lamentarlo, ma non ne ha la possibilità: Johann Sebastian Bach è morto da troppo tempo per dirci quanto possa sentirsi soddisfatto dell’«interpretazione» che Ramin Bahrami dà delle sue composizioni; per la stessa ragione, Herman Melville non può dirci se si ritenga più «tradito» da Cesare Pavese o da Ottavio Fatica (laddove potesse, daltra parte, sarebbe necessario avesse una buona conoscenza della lingua italiana); e così accade pure per la Costituzione degli Stati Uniti d’America, perché ad ogni sentenza della Suprema Corte che ne richiama questo o quellarticolo manca il visto di approvazione da parte di George Washington, Thomas Jefferson, Benjamin Franklin, ecc. In generale, potremmo dire che per provare il «tradimento» di un testo siamo spesso costretti a ricorrere ad un’autorità di provata competenza alla quale affidiamo il compito di «interpretare» le reali intenzioni dell’autore, quando questi non abbia modo di farlo di persona. Nel caso di una legge, per esempio, quest’autorità è affidata alla magistratura giudicante, tenuta a rispettare il criterio di «interpretazione», indispensabile allapplicazione della norma, che le è imposto dall’art. 12 delle Preleggi: «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». Tutto sembrerebbe essere predisposto per non dar luogo ad alcun contenzioso, se non fosse che anche qui siamo dinanzi a un testo da «interpretare», per giunta relativamente ambiguo. L’«intenzione del legislatore», infatti, sembrerebbe doversi ritenere evidente nel testo stesso della norma, «fatta palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», e tuttavia non è affatto raro che le parole usate lascino ampio margine a «interpretazioni» diverse, perfino opposte, per non parlare di come la «connessione» delle parole stesse sia spesso ulteriore fonte di dubbio. Il suddetto art. 12 sembra farsi carico di questa evenienza, perché recita che, «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe», e, «se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato», che però sono espressi da parole, il cui «significato proprio», «secondo la connessione di esse», può risultare non univoco. A ciò il testo della norma sembra spesso voler porre rimedio col ricorso a perifrasi che tolgano ogni possibile ambiguità a parole che consentirebbero più d’una «interpretazione», ma non sempre questo è sufficiente, né risolve la questione il connetterle in proposizioni che costringano a una lettura inequivoca, perché il caso al quale la legge va applicata ha uno specifico che rende sempre necessaria una trasposizione del principio astratto nella realtà fattuale. In conclusione, potremmo dire che non si può applicare una legge senza interpretarla, né si può interpretarla senza attribuirle un senso che spesso non è fatto così inequivocabilmente palese dal testo, come invece chi lha scritto avrebbe preteso fosse. 

[segue]

5 commenti:

  1. Beh già i latini col "summum ius, summa iniuria" negavano la possibilità che una norma, per quanto ben scritta e assolutamente cristallina, venisse interpretata in maniera letterale e non secondo i principi che ne avevano portato la stesura. Figurarsi quando è un po' fumosa.

    Un caso 'buono' è quello della stepchild adoption: i magistrati se ne sbattono le palle di Alfano e di Adinolfi, se l'interesse è quello del bambino interpretano le norme come meglio credono. Un caso 'cattivo' è il matrimonio tra persone dello stesso sesso: nonostante sulla Costituzione ci sia scritto "coniugi" senza nominare moglie o marito, la Cassazione, se non sbaglio qualche anno fa, ha stabilito che siccome ai tempi della stesura la parola 'matrimonio' indicava senza dubbio un'unione eterosessuale, così deve intendersi fino all'intervento del legislatore (e questo intervento l'hanno anche richiesto più volte).

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  2. "Ritengo – commenta l'avvocato Luigi Castaldi, difensore dei fratelli Vicedomini - che il Giudice abbia pienamente individuato i fatti storici per come si sono verificati. C'è poco da dire sulla formula delle assoluzioni".
    Omonimia?

    LB

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  3. In pratica il legislatore dovrebbe idealmente essere quallo che Umberto Eco chiama l'Autore Modello: il testo della legge dovrebbe essere organizzato in modo da sollecitare solo alcune interpretazioni fra tutte quelle possibili. E il magistrato dovrebbe identificarsi con il Lettore Modello: quello che sa dare l'interpretazione corretta raccogliendo gli indizi disseminati nel testo dall'Autore Modello, confrontandoli e organizzandoli in un sistema coerente. L'alternativa è il decostruzionismo: non esiste un significato oggettivo di un testo, ogni interpretazione è fraintendimento.

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  4. È lo stesso problema di quando due omosessuali si vogliono sposare

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