venerdì 21 settembre 2018

De causis corruptae eloquentiae


Incredibile, lo so, ma ve la racconto lo stesso.
Leggevo l’articolo di un tizio che lamentava il degrado della comunicazione pubblica: brutali volgarità, laide menzogne, diffusa aggressività e, soprattutto, ignoranza, tanta ignoranza. Bel pezzo, devo dire, non si poteva fare a meno di annuire ogni tre righe.
Costretto ad annuire di continuo, era possibile accadesse, e infatti è accaduto: annuendo mentre accostavo alle labbra il mio tazzone di caffè, me n’è caduto un po’ sul giornale.
D’istinto ho tamponato con un kleenex, ma ho fatto peggio: un pezzo del giornale è venuto via, lasciando un buco nella pagina. E qui viene il bello, perché attraverso il buco vedo che sotto c’è la ruvida superficie di un papiro sul quale sono impressi caratteri che compongono parole inconfutabilmente latine: «-ata peroratio atque pro- / -ptum in quo rata- / -ibi bene cecid- / …».
Trasalisco, ovviamente, e prima grattando con l’unghia, poi strappando a brani tutta la pagina del giornale, davanti a cosa mi trovo? Al De causis corruptae eloquentiae di Quintiliano, per tutti andato perduto. In realtà non si trattava dell’opera completa, ma solo del proemio, per giunta mutilo del finale.
Non vi dico con quale eccitazione mi fiondo a leggere. È lui, è lui, non c’è dubbio che sia proprio lui: periodo faticoso, frequenti ripetizioni, ogni concetto espresso sempre in due o tre modi diversi, ciascuno aperto a dare aggancio a uno sviluppo diverso. Da estenuare chi oggi non concepisce un saggio che non sia innanzitutto una sequenza di aneddoti, citazioni, citazioni di citazioni, carinerie e rimandi a ciò che si dà scontato si sia già letto, e che poi semmai non ha letto neppure chi scrive, ma di cui, a onor del vero, ha sentito parlare.
Quintiliano, no. Quintiliano procede per proposizioni che sono squadrate con pazienza dal granito, che vanno a costruire edifici resistenti pure ai terremoti di magnitudo 9, nei cui meandri a volte ci si perde, ma solo per tornare da dove si è partiti.
È con piacere che offro al mio lettore il proemio del De causis corruptae eloquentiae. Tradotto con qualche libertà, ovviamente, per non tediare troppo chi è abituato ad argomentazioni non più lunghe di 280 battute.
Superfluo dire, com’è d’obbligo per tutto ciò che è vecchio di secoli: di strabiliante attualità.


Non è obbligatorio scendere nel foro in cui l’uditorio sia manifestamente refrattario alla retta argomentazione per cercare di persuaderlo alle proprie ragioni. Se lo si fa, però, non ci si può lamentare che la retta argomentazione non ottenga il risultato voluto. D’altronde, se si sente irrinunciabile persuaderlo alle proprie ragioni, la retta argomentazione non è l’unico strumento a disposizione: ve ne sono di scorretti, ma assai efficaci, anzi, tanto più efficaci quanto più scorretti, perché la refrattarietà alla logica che informa la proposizione valida rende solitamente estremamente ricettivi a sofismi, paralogismi, antinomie, fallacie.
Usare strumenti scorretti potrà far sorgere qualche scrupolo, che però non sarà difficile soffocare nella convinzione che il fine giustifichi ogni mezzo, soprattutto se si sente indispensabile ottenerlo in fretta. Se non si è dominati da questa urgenza e, ancor più, se non si è disposti a usare un mezzo scorretto per ottenere il proprio fine, rimangono due sole alternative: non scendere affatto in quel foro; oppure scendervi, ma armati di coraggio e pazienza, disposti a spendere tutte le proprie energie in uno sforzo che in buona sostanza è tutto e solo pedagogico, avendo ben presente, però, che, anche se instancabilmente operoso, non è affatto detto sia destinato a trovare successo, tanto meno in tempi brevi.
Ciò premesso, a nessuno sfuggirà che lo spazio di comunicazione pubblica sia un foro; che il motivo per il quale solitamente vi si scende è sempre (in senso stretto o in senso lato) politico; che in quest’ambito relazionale la persuasione si traduce in consenso; che, quando questo sia maggioritario, darà legittimità al governo della cosa pubblica; che chi aspira al governo della cosa pubblica lo considera quasi sempre un fine irrinunciabile.
Non credo sia necessario tradurre nei termini che sono propri della lotta politica quanto si è poc’anzi detto: se il discorso pubblico è, al pari di ogni altra forma di comunicazione, l’articolazione di proposizioni che possono rispondere o meno alle norme della retta argomentazione, data una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%, c’è da attendersi che il ricorso a strumenti scorretti possa senz’alcun dubbio dare risultati assai migliori, e in tempi assai più brevi.
Cosa può dissuadere dal farlo? Nulla, in realtà. In teoria potrebb’esserci il sapere che un buon fine difficilmente resta tale quando è ottenuto con mezzi disonesti; sta di fatto che, quando il fine è considerato irrinunciabile, difficilmente si riuscirà a valutarne la bontà lungo l’iter necessario a conseguirlo, e questo a voler dar per certo che fosse buono all’inizio. Sempre in teoria potrebb’esserci il sapere che la persuasione ottenuta in tempi troppo brevi e con metodi scorretti è estremamente labile, perché su basi poco salde; in pratica, tuttavia, si finisce quasi sempre per credere, e anche a ragione, che a un consenso ottenuto con argomenti invalidi si possa dare continuità con nuovi argomenti, altrettanto invalidi, ma altrettanto efficaci.
Direi sia veramente difficile rinunciare a strumenti retorici disonesti quando si ha la certezza, fondata sull’esperienza, che una platea in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75% risponde meglio a questi che a quelli onesti. È del tutto naturale, dunque, che anche chi scenda in un tal foro armato delle migliori intenzioni sia costretto a scegliere: un consenso facile e immediato, largo ancorché labile, ottenuto in modo disonesto, o un’onesta, lunga e faticosa missione pedagogica che miri ad un consenso che c’è attendersi comunque assai limitato? Solo scrupoli di natura morale possono scoraggiare dallo scegliere la prima opzione, ma non s’è sempre detto che politica e morale non hanno nulla da spartire? Come si può continuare a dirlo sostenendo nel contempo che è lecito acquistare consenso solo usando mezzi onesti? Che c’entra l’onestà con una pratica i cui risultati devono essere giudicati solo sul piano della capacità? E da cosa è dato, il giudizio, se non dalla misura del consenso? È dato dalla sua misura, non già da come lo si è ottenuto. E dunque si sia seri: chi ha fede nella retta argomentazione non può e non deve attendersi consenso nel foro in cui gli analfabeti funzionali siano oltre il 75%.
Non a caso parlo di fede. Se alla logica, infatti, attribuiamo le qualità che il credente attribuisce a Dio (ve n’è evidente corrispondenza quando questi lo chiama Logos), occorre rassegnarsi al fatto che il suo regno – il regno in cui la logica detta le norme al dire e al fare – non è di questo mondo; che, se decide di incarnarsi, la logica, deve essere disposta ad esser crocifissa, dopo essere stata offesa e derisa; che eventualmente può risorgere, ma solo per tornarsene da dov’è venuta, dopo una fugace Pentecoste che serve solo a lasciare a evangelisti, apostoli e discepoli il mandato al martirio; che può darsi tornerà alla fine dei tempi, ma solo per trovare sulla terra una sparuta manciata di giusti.
Si scherza, ovviamente, sappiamo che la logica non ha nulla di divino: è una tecnica, oppure, per meglio dire, è una disciplina, e ha regole ferree, inderogabili. Possiamo a buon diritto ribaltare quanto detto, com’è per tutto ciò che è divino: non è la logica ad aver creato l’uomo, ma viceversa; non apparve sulla terra così come la vediamo oggi, ma nel tempo, a dispetto del ritenerla anteriore e superiore ai tempi, ha subìto una profonda trasformazione, tanto profonda da farle perdere la primigenia natura; ha pretese universalistiche, ma deve fare i conti con le condizioni che incontra e non di rado l’inculturazione le riesce male, trovando resistenze che sembrano più biologiche che culturali; i suoi sacerdoti predicano bene, ma spesso sono sorpresi a razzolare male, e in più vestono insegne di casta; la fede in lei può facilmente trasformarsi nella vuota celebrazione di rituali astrusi, in un arido sistema di precetti algebrici che la vita quotidiana s’incarica di dimostrare inapplicabili.
Si fa torto al presente pensando che questo non sia accaduto sempre...


Nota al testo

Al lettore che si stupisse di trovare in un testo del I secolo la locuzione «analfabeti funzionali» occorre far presente che nelloriginale essa era resa dalla perifrasi «stulti qui vivunt, cogitant et loquuntur ad mentulam canis».

50 commenti:

  1. Io mi stavo chiedendo gli originali anche di "75%" e di "precetti algebrici".

    RispondiElimina
    Risposte
    1. "... tria quarteria stultorum, etc."
      in quanto all'algebra, ho detto che si trattava di traduzione assai libera: nel testo originale c'era "praecepta symbolis expressa".

      Elimina
    2. In altre parole mancava il vocabolo, ma il concetto di sistema simbolico era cosa trita. Convincerebbe molti stulti etc...
      Comunque giù il cappello di fronte all'autore, che sia o non sia Quintiliano... (ome proprio o aggettivo)

      Elimina
  2. "...data una platea in cui gli..."

    data da giove in persona, ovviamente, o almeno da minerva. sono (quasi) certo che quintiliano non oserebbe un mezzuccio così.

    RispondiElimina
  3. il post sembra implicitamente sostenere
    che se uno usa un'argomentazione logicamente inoppugnabile, rivolgendosi ad un uditore ideale, cioè bendisposto e amante a sua volta della retta argomentazione, dovrebbe di necessità convincere l'altro della propria tesi.
    Ma proprio questa inferenza io credo non sia corretta, perché per convincere un altro non è sufficiente argomentare bene ma è anche necessario che si concordi su tutta una serie di principi primi di ordine metafisico. O mi sbaglio ?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. I principi primi, a qualsivoglia ordine appartengano, devono avere premesse valide e autoevidenti. La retta argomentazione decide anche della loro validità. In quanto a quelli "di ordine metafisico", non hanno premesse autoevidenti, e dunque non sono in grado di dar luogo a rette argomentazioni (cfr. Carnap). Brutalmente: la metafisica è fallacia fino a prova contraria, che per lo stesso statuto della metafisica non può esser data. E dunque, sì, sbagli, ma perché implicitamente ammetti che nell'agorà i pregiudizi (quelli che definisci "principi primi") abbiano piena legittimità. In realtà, nell'agorà tutto può e deve essere messo in discussione, a cominciare proprio da ciò che si dà per scontato. Lo si fa col perdere ogni volta un po' di tempo nel mettersi d'accordo sulla definizione dell'oggetto della discussione, espungendo tutto ciò che non è pianamente dimostrabile.

      Elimina
    2. è vero che i principi metafisici non hanno premesse autoevidenti ma non per questo uno non ha il diritto di averne. Per esempio io penso che la natura umana sia immodificabile e che il progresso esista solo in senso tecnico e questo principio mi permette, di per sé, di rigettare ogni idea di comunismo inteso come millenarismo laico. Oppure, io penso che lo stato debba garantire a tutti un piatto di minestra e quindi sono a favore del reddito di cittadinanza. In entrambi i casi faccio valere due principi non autoevidenti che però hanno tutto il diritto di fungere da premesse per le mie argomentazioni.

      Elimina
    3. Il fatto è - ripeto - che nell'agorà tutto può e deve essere messo in discussione per saggiarne la validità sul piano logico, comprese le premesse, anzi direi proprio a partire dalle premesse, perché è proprio sulla loro validità che un argomento può dirsi retto. Poi, certo, tu puoi pensare che 2+2 sia uguale a 5, e puoi non essere disposto a ricrederti perché di 2+2=5 fai articolo di fede, ma questo non ti consente di pretendere il bollino di qualità sui tuoi argomenti. Naturalmente sei legittimato a raccogliere consenso, ed effettivamente l'otterrai se l'agorà è sprovvista degli strumenti per saggiare la tenuta logica dei tuoi argomenti, ma questo cambierà nemmeno di uno 0,0000000001 il fatto che 2+2=4. Insomma, credo che tu faccia un po' di confusione tra l'aver ragione per il riuscire ad averla e l'aver ragione indipendentemente dal riuscirci. In altri termini: le leggi che normano la logica sono indiscutibili.

      Elimina
    4. mi permetta però di specificare che
      Il fatto che 2+2 = 5 è dimostrabile come falso mentre la questione se lo stato debba essere tenuto o meno a garantire a tutti un piatto di minestra è indecidibile con gli strumenti della logica. Cmq, io sono un seguace di Schopenhauer il quale sosteneva che la ragione non può autofondarsi ma che deve essere al servizio della volontà, che indimostrata e indimostrabile è il fondamento del mondo.

      Elimina
    5. Ma la logica non si incarica di decidere circa il piatto di minestra: sta a disposizione di chi voglia argomentare sul fatto che sia garantito a tutti o no, in sostanza sul se si arriva a dimostrare validamente che sia garantito a tutti o non lo sia. Comunque mi pare ci sia contraddizione tra l'affermare che "2+2=5 è dimostrabile come falso" e poi sostenere che "la ragione non può autofondarsi", perché "al servizio della volontà": posso fortemente volere che 2+2=5, infatti, e mettervi al servizio la ragione, che però non sarà in grado di dimostrarlo vero. Per esempio, potrò volerne dare dimostrazione affermando che, operando a virgola fissa e arrotondando i valori all'intero più vicino, 2,4 + 2,4 fa 4,8: la logica verrà a dirmi di ficcarmi su per il culo la premessa "operando a virgola fissa e arrotondando i valori all'intero più vicino", perché dimostrabilmente capziosa.

      Elimina
    6. beh, la volontà ha il diritto di volere cose false o impossibili, la ragione poi sì incaricherà di dimostrare che sono tali oppure, al contrario, dimostrerà che sono vere o aiuterà a conseguire.

      Elimina
    7. Mi confondi, sai? Prima parli di una volontà che è "fondamento del mondo", e poi mi parli di "diritto di volere" (e già qui, sul parlare di un "diritto", vedo contraddizione: se la volontà fonda il mondo, può prendersi quel che le pare in forza della stessa ratio che lo informa), peraltro anche "cose false e impossibili" (sarebbe come dire che due volontà diverse fanno a pugni per contendersi la fondazione del mondo, ma poi a decidere a chi va la vittoria è la ragione, che manco è autofondata, ma deve "servire la volontà" (quale delle due?).

      Elimina
    8. è vero, "diritto di volere" non ha senso, però che esistano due volontà contrastanti non fa problema, potendosi considerare ambedue espressioni diverse della medesima cosa: la volontà che fonda il mondo e che ha come caratteristica non il volere questa o quella cosa specifica ma il volere in se stesso.

      Elimina
    9. Mi devi scusare, ma ho dei limiti enormi riguardo a tutto ciò che è "in se stesso": rimanda all'assoluto, di là da ogni relazionabilità che lo contestualizza e, in sostanza, lo determina. Sull'assoluto, sulla "cosa in se stessa", che guarda caso pretende di fuggire ad ogni pretesa di rilevabilità empirica e scientifica, ti do qui in sintesi la mia posizione:
      https://www.youtube.com/watch?v=0TIozfgs364

      Elimina

    10. ahah gustosissimo, mi ha fatto ridere. Cmq io ho passato l'estate a
      leggere Schopenhauer il quale non perde occasione ad ogni piè sospinto
      di insultare pesantemente Hegel. Non confutare, proprio insultare.
      Meritatamente, d'altronde. La "cosa in sé" kantiana a cui si rifà Schopenhauer e l' Assoluto di Hegel sono due cose molto diverse. Hegel
      il suo Assoluto non si capisce da dove lo tiri fuori mentre la "cosa in sé" kantiana e schopenhauriana non è affatto irrilevabile empiricamente e ha sempre un certo rapporto col soggetto. La cosa in sé è per esempio quello che rimane di un oggetto se astraiamo da tutte le sue qualità osservabili e misurabili (che sono l'oggetto di studio della fisica): peso, temperatura, composizione chimica etc. Qualcosa "deve" rimanere. Con una certa approssimazione si può dire che il concetto di cosa in sé in Schopenhauer è assimilabile a quello di materia.

      Elimina
    11. ...segue. Solo che per Schopenhauer il concetto di materia è già un concetto metafisico e infatti irride i materialisti che rifiutano la
      metafisica e poi fanno di un concetto eminentemente metafisico quale
      quello di materia la loro bandiera. Che c'entra la materia con la volontà ? C'entra nel senso che sempre secondo Schopenhauer la materia è il grado di oggettivazione più basso della volontà, il più alto essendo l'uomo.

      Elimina
    12. Mi hai frainteso, non volevo ridurre il tuo Schopenhauer a un qualsiasi Kant o a un qualsiasi Hegel. Intendevo solo sostenere che molta filosofia, anche quella d'un certo prestigio - e tu qui me ne dai un esempio illuminante - procede per proposizioni assai indimostrabili, quando non assurde. La materia, per esempio, è cosa eminentemente fisica, no? Voilà, il suo concetto è metafisico. Fisoloficamente regge? Logicamente no. Altro esempio: cosa rimane dalla materia, togliendole ciò che le è dato dalla composizione chimica? Ecco, io credo che il foro in cui la filosofia scende per cercare consenso, trovandolo, sia, al contrario di quello in cui l'uditorio sia analfabeta funzionale al 75%, zeppo di colti che ritengono superfluo saggiare le proposizioni che lì raccolgono consenso sul piano della retta argomentazione. So bene che la mia è posizione radicale, ma credo che dopo il Carnap della Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache si possa rubricare molta bella filosofia sullo scaffale della letteratura di evasione.

      Elimina
    13. Sono disposto a concedere che empiricamente sia impossibile giungere sempre a formulare premesse condivise, almeno nelle discussioni che si muovano sul piano sociale: vuoi che sia perché occorre invocare postulati morali, oppure per via della finitezza della conoscenza dell'uomo. D'altronde è la retta argomentazione, e non altri, che può ripulire ogni premessa dalle fronde e, se non altro, si potrà essere d'accordo sugli elementi che consentano, o meno, di accettare una data premessa.
      Prendiamo l'affermazione che la natura dell'uomo è immutabile per verificare di poterla promuovere a premessa inconfutabile. Non la ritengo né metafisica né morale, questa è un'affermazione scientifica. Tra individui ci sarà una variabilità longitudinale (nel tempo) e trasversale (tra diversi individui coabitanti). A me sembra che qui vi sia prima di tutto una limitatezza delle conoscenze scientifiche: non è ancora dato sapere con esattezza e completezza il ruolo dell'interazione tra tutti i geni, né per dare una risposta in positivo in senso longitudinale né trasversale. Rilevato ciò, ci si può mettere d'accordo sul margine di variabilità che si sia disposti ad accettare che sia compatibile con l'assunto concetto di "immutabilità", e potrà benissimo essere che le conoscenze scientifiche siano sufficienti per informarci se siamo entro i confini tracciati da tali margini.
      A mio avviso tutto ciò non può che avvenire con la retta argomentazione, se il dibattito coinvolge individui che accettano le regole di essa.
      Inoltre non vedo come decisivo il fatto che alcune premesse possano essere di ordine morale (tendo a rifiutare l'idea di premessa metafisica in un dibattito soggetto a regole di buona argomentazione). Semplicemente, ciò che avverrà sarà che la retta argomentazione sarà convincente per tutti, ma sarà considerata irrilevante da quanti non abbiano condiviso le premesse (una volta ridotte ai loro elementi primi costitutivi). Ci sarà un tratto, tra quanti sostengano le necessità di un reddito di cittadinanza, nel quale tanto chi abbia accettato la premessa, quanto chi non l'abbia accettata si troveranno d'accordo che un risparmio di milioni non consenta una spesa di miliardi, che 2+2=4 e non 2+2=5.

      Elimina
    14. "Prendiamo l'affermazione che la natura dell'uomo è immutabile per verificare di poterla promuovere a premessa inconfutabile. Non la ritengo né metafisica né morale, questa è un'affermazione scientifica. "

      ma io non intendevo affatto promuoverla a premessa inconfutabile. Questo è ciò che penso io ma non mi sogno di pretendere che sia una
      premessa condivisa. Mi limitavo a far notare che chiunque parta da una premessa opposta non riuscirà mai a convincermi della sua tesi qualunque sia il suo tipo di argomentazione. Era per dire che non sempre una retta argomentazione riesce a convincere un interlocutore, per quanto questo sia bendisposto e sensibile alle regole della retta argomentazione.

      "Non la ritengo né metafisica né morale, questa è un'affermazione scientifica."

      è un'affermazione scientifica se si riduce la natura umana al corredo genetico dell'uomo. Non era per niente il mio caso. Con natura umana intendevo il sistema fondamentale dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo.

      "Ci sarà un tratto, tra quanti sostengano le necessità di un reddito di cittadinanza, nel quale tanto chi abbia accettato la premessa, quanto chi non l'abbia accettata si troveranno d'accordo che un risparmio di milioni non consenta una spesa di miliardi, che 2+2=4 e non 2+2=5."

      il disaccordo non è su questo ma se sia o no opportuno fare deficit e in che misura. E anche quest'ultima non è questione che si possa risolvere con i soli strumenti della logica.

      Elimina
    15. Effettivamente l'ho promossa io l'immutabilità della natura umana a premessa inconfutabile, o avrei fatto meglio a scrivere: “condivisa in un consesso di individui dediti alla retta argomentazione”. Mi era espediente necessario per valutare se sarebbe "decidibile" in un tale contesto. Come prima e necessaria cosa dovrebbe essere vera geneticamente, altrimenti non reggerebbe il primo assalto. Potremmo in questo caso dire che in prima approssimazione, dal punto di vista genetico, è all'incirca vera: non siamo molto diversi tra noi e non siamo molto diversi da duemila anni fa (ma dipenderebbe poi tutto dalla tesi che si voglia sostenere, se questa approssimazione sia soddisfacente). Quando lei introduce "il sistema fondamentale dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo" non ritengo che stia affrancando l'affermazione da una falsificabilità scientifica: al più, non abbiamo ancora sviluppato tutte le conoscenze per sottoporla a test. Concordassimo sulla validità dell'affermazione su base genetica, l'unico elemento restante infatti sarebbe la storia di esperienze che determinano le strutture neuronali di ognuno ed il conseguente impatto sui bisogni. Ma i bisogni e le aspirazioni di un individuo cresciuto in una famiglia violenta saranno irrimediabilmente, biologicamente diversi da quelli di un altro cresciuto in una famiglia armoniosa: questa distinzione diviene hard wired nel nostro cervello, per il resto della vita. Discorso simile per individui cresciuti in contesti di contiguità sociale nettamente distinti tra loro, negli usi, costumi e pratiche.

      Volevo solo sottolineare che a mio parere non è un esempio eccellente di premessa soggettivamente valutabile e quindi estranea ad una risoluzione per retta argomentazione.
      Potremmo, certamente, in attesa di maturare sufficienti conoscenze scientifiche, assumere la sua verità o, al contrario, la sua falsità e procedere con gli strumenti (solo formali) della retta argomentazione. Ma questa sarebbe operazione illogica comunque, se mirante a stabilire delle verità oggettive, precise, deterministiche. Avrebbe casomai una certa validità, come migliore approssimazione, oppure riconoscessimo a posteriori la veridicità o falsità della sua posizione dall’analisi delle sue conseguenze. Esempio classico: se ci trovassimo di fronte ad una deduzione assurda, saremo costretti a rigettare la premessa (reduction ad absurdum).

      Non concordo nemmeno che sia medesima la situazione nello stabilire “se sia o no opportuno fare deficit e in che misura”. E nemmeno che “anche quest'ultima non è questione che si possa risolvere con i soli strumenti della logica”. Ritengo al contrario che lo si possa fare, in qualche misura almeno, andando ad analizzare i dati storici monumentali di centinaia e centinaia di amministrazioni in tutto il mondo e verificare quali decisioni abbiano con più probabilità sortito un effetto positivo per l’economia, supportati dalla teoria per capirne meglio i nessi causa ed effetto. Ciò che conta nella retta argomentazione è essere d’accordo prima sui limiti di validità della premessa e poi sulle deduzioni conseguenti. Come scrive in risposta Castaldi, che citerò malissimo e spero però senza fraintendere, c’è ampio margine di argomentazione anche sulle premesse che possono essere concordate.

      Ribadisco che sono consapevole che in materia di scelte sociali si sia spesso obbligati ad accettare (o rigettare) premesse con notevole grado di approssimazione. Non lo vedo come un ostacolo insormontabile a giungere a conclusioni condivise. Si tratterà di accettare che anche le deduzioni conservino un grado di indeterminazione: l’importante è che questo non si propaghi arbitrariamente.

      Elimina

    16. scusi se per mancanza di tempo riprendo solo a questa sua affermazione
      (che per altro condivido):

      "...Come scrive in risposta Castaldi, che citerò malissimo e spero però senza fraintendere, c’è ampio margine di argomentazione anche sulle premesse che possono essere concordate..."

      sono assolutamente d'accordo, le premesse possono essere concordate e
      sono d'accordo sul fatto che se concordiamo sulle premesse è molto probabile che concorderemo sulle conseguenze che da quelle traiamo con
      retta argomentazione. Mi sembra altresì pacifico che la retta argomentazione, di per sé, (senza un preventivo concordare sulle premesse) non assicura affatto un concordare sulle conseguenze, neanche
      tra interlocutori sommamente bendisposti e amanti della retta argomentazione. Ora, la questione interessante mi sembra questa: si possono accettare solo premesse auto evidenti (come mi pare sostenga Castaldi) o si possono invece accettare premesse di ogni tipo, incluse quelle di ordine metafisico ? Io non vedo il motivo di negare a queste
      ultime diritto di cittadinanza nell'agorà (purché esplicitamente dichiarate) e penso che sia molto difficile , se non impossibile,
      trarre, partendo solo dalle prime, significative conseguenze sul
      sociale o politico.

      Elimina
    17. Potremmo in astratto ridurci sempre ad un nucleo di premesse autoevidenti, tipo: esiste una realtà; noi esistiamo in questa realtà; esistono delle regole deduttive ed esse sono conoscibili; con l'osservazione e la deduzione l'uomo può inferire fatti riguardanti la realtà (e riguardanti anche l'uomo che ne è parte). La fatica per dedurre tutto il resto sarebbe a mio parere quasi improba (basti pensare alla mole di lavoro assiomatico e deduttivo necessario per stabilire nella geometria euclidea che per due punti passa una e una sola retta, figuriamoci se volessimo dalle premesse di cui sopra stabilire regole sociali).

      Io sono della schiera (sparuta) che ritiene che autoevidenti possano essere anche giudizi di buonsenso sulla realtà che ci circonda, purché siamo pronti ad abbandonare anche quelli, o a confinarli in precisi campi di applicazione (è di buonsenso ritenere che il tempo sia oggettivo, ma esso dipende dal nostro moto, ma per quanto concerne il tempo di cottura della pasta a casa mia e a casa sua possiamo considerarlo approssimativamente oggettivo). Quante assunzioni di buonsenso circa la nostra natura (di cui lei parlava) sono state modificate a causa del progresso legato alla conoscenza dei geni e dei neuroni?

      Come vede, io concordo con Castaldi sul principio, ma tendo a pensare che in un dibattito pubblico sia non del tutto realistico sperare di arrivare a concordare su un nucleo primo di assiomi in numero limitato. Dobbiamo accettare, per motivi meramente pragmatici, un numero un po' più ampio di premesse di quelle realmente necessarie e talvolta anche tra relatori dediti alla retta argomentazione ci si potrà non trovare del tutto d'accordo.

      Non concordo però che questo implichi di poter accettare premesse di ordine metafisico, chiamerei questo assunto la metaphysics of the gaps (da God of the gaps). L'esempio sulla "natura umana" che facevo si muoveva in questo senso, poiché non la considero affatto premessa metafisica ma scientifica: ritengo che si invochi la metafisica per difetto di conoscenza o per prigrizia intellettuale (costa fatica destrutturare una premessa metafisica semplice in cento premesse atomiche materiali) ed in tal senso essa potrebbe essere invocata arbitrariamente quante volte lo si voglia, ogni volta che si abbia inconsciamente una conclusione che si intenda pretendere di dimostrare deduttivamente.

      In sintesi, il buonsenso materialista è una cosa (posso indagare ciò che ha conseguenze misurabili o rilevabili sulla realtà), il piano metafisico un'altra cosa. Il primo consente un progresso cumulativo della conoscenza, il secondo può oscillare arbitrariamente.

      Detto ciò, non nego di sospettare che io stesso faccia ricorso alla metafisica. Per esempio, io separo la sfera morale da quella metafisica, forse però a torto: ho bisogno di una generica premessa non del tutto evidente per introdurre nel dibattito i diritti dell’individuo. Taluni si appellano al concetto di utile, io tendo a premettere che l’essere senzienti e consapevoli della realtà comporta la soggettivizzazione dell’esperienza del dolore, che per il senziente rappresenta (quando essa occorre) l’universo dell’esperienza materiale. Questo mi induce a ritenere che sia possibile introdurre una sfera morale, seppur causata dall’osservazione della realtà. Non escludo che io semplicemente sia spaventato dalle conseguenze deduttive di premesse più strettamente utilitaristiche ed in questo senso, come nel caso metafisico, il mio non sarebbe un retto argomentare.

      Elimina
    18. "...Detto ciò, non nego di sospettare che io stesso faccia ricorso alla metafisica..."

      Se liberarsi della religione è abbastanza facile con la metafisica è tutt'altra questione. La questione dell'esistenza di una natura umana intesa come concetto metafisico, non riducibile al corredo genetico della specie umana, è centrale sotto diversi aspetti. Non si capisce in che modo per esempio si possano giustificare i diritti umani universali e l'uguaglianza formale tra gli uomini solo sulla base dell'appartenenza alla stessa specie biologica. Ma se non assumessimo che tutti gli uomini hanno qualcosa in comune che va al di là del corredo genetico non si potrebbe giustificare non dico il senso ma neanche l'esistenza stessa della politica. Certo bisogna intendersi sul significato di metafisica, che non è necessariamente, come comunemente si crede, un modalità di pensiero a priori ma che può essere anche una
      modalità di pensiero a posteriori. Per esempio, partendo dall'osservazione empirica degli uomini, io posso assumere (non dedurre, né dimostrare) che essi abbiano tutti gli stessi miei bisogni fisici e psichici fondamentali e che possano in linea di principio soffrire e gioire allo stesso modo e con la stessa intensità con cui soffro e gioisco io. Tu dirai: vabbé ma questo si può evincere a grandi linee dalla semplice appartenenza alla stessa specie biologica. In astratto forse sì ma rimane il fatto che il semplice sapere che un altro essere vivente condivide con me molti più geni di quanto ne condivida un moscerino non mi induce in nessuna maniera a trattarlo diversamente da quest'ultimo. Né mi indurrebbe a trattarlo diversamente da un moscerino il semplice fatto di sapere che condivide con me l'uso della ragione e le regole della logica. Tu poni una netta separazione ione tra principi morali ( che tolleri) e principi metafisici (che non tolleri ), io penso invece che ogni principio morale derivi esplicitamente o implicitamente da qualche principio metafisico e che ogni principio metafisico abbia la sua origine nel tentativo (sempre rinnovabile, ma sempre necessario) di definire che cos'è
      che hanno veramente in comune tutti gli esseri umani di tutte le epoche. A parte ovviamente un insieme di geni, di cui però non frega niente a nessuno.

      Elimina
    19. So di avere il difetto della tendenza alla prolissità, ma sistematicamente se prediligo la sintesi tendo a non sapermi spiegare. Non ritengo che la genetica esaurisca ciò che definisce la natura umana: ho scritto in seconda battuta che determinanti sono anche le esperienze dirette che modellano le connessioni neuronali. Parlavo poi di una condizione necessaria, non una sufficiente: se il mio e il tuo patrimonio genetico fossero molto distanti, affermare che abbiamo gli stessi bisogni e aspirazioni sarebbe un bell'azzardo. Inoltre l'affermazione cui replicavo era quella di una coincidenza assoluta di questi, cosa ben diversa dal sostenere che ci sia una tendenza maggioritaria e molto approssimativa ad assomigliarsi (nel qual caso, sì, saremmo costretti a demarcare dove finisce il moscerino e dove inizia l'uomo).

      Questo per quanto concerne l'affermazione che tutti gli uomini abbiano gli stessi bisogni fisici e materiali. Per "stessi" avevo erroneamente inteso una approssimativa equivalenza, ma se parliamo di congruenza, beh, mi basta il corredo genetico per confutarla. Poi troverò altre mille osservazioni, ma mi basta quella più elementare.

      Assumere invece che gli altri uomini abbiano bisogni fisici e psichici simili ai miei (qui uso la parola simili che devia in maniera netta a decisiva dalla assoluta coincidenza, supposta inizialmente) non necessita a mio avviso di metafisica: è sufficiente il buonsenso ci sui parlavo, unito all'osservazione. Gli elementi per sostenerla sono: la somiglianza biologica, la somiglianza di esperienza, l'osservazione delle azioni, l'ascolto delle pulsioni. Se io vedo un animale diverso da me essere in tutto e per tutto simile a me, in quello che fa, in quello che dice, in quello di cui afferma aver bisogno, in quello che mostra di apprezzare con piacere o respingere con sofferenze, e tanti altri articoli che non sto qui ad elencare, beh, mi è più facile assumere che condivida in una certa misura i miei bisogni, piuttosto che assumere che sia un alieno impostore, biologicamente distante da me, che stia imitando le mie azioni, le mie richieste, le mie grida di dolore, i miei slanci di eccitazione, provando in realtà l'opposto. Mi viene in mente il discorso complesso sulla coscienza: io non avrò mai prova inconfutabile della tua coscienza: non potrò che assumerla per similitudine con la mia esperienza individuale e dalla tua affermazione di esserne fornito, ma per farlo dovrò comunque annotare una lunga serie di coincidenze. Supporre che io sia l'unico essere umano dotato di coscienza, premessa che nessuno mi potrà mai dimostrare essere falsa, mi crea più problemi logici e osservazionali di quanti me ne risolva il supporre diversamente. Allo stesso modo supporre che gli altri esseri umani impersonino animali simili a me nei loro bisogni, avendone in realtà tutt'altri, mi crea più problemi che altro.

      Infine non è vero che io pongo una netta separazione tra principio morale e metafisico, tanto che mi sono chiesto se non siano la stessa cosa. Ma se lo fossero, sarebbe il principio morale ad essere erroneo. Il mio tentativo invece è di ricondurre il principio morale ad un principio materiale di reciprocazione. Non dico di aver avuto successo.

      Elimina
    20. Notevoli spunti di riflessione in questo vostro scambio, sarà il caso ch'io ne tragga occasione appena troverò tempo.

      Elimina

    21. no, ti sei spiegato benissimo, io piuttosto forse non ho fatto altrettanto. Io non mi riferivo ad una generica similitudine tra tutti
      gli uomini ma ad una precisa identità ontologica tra tutti gli uomini.
      Chiarisco attraverso una similitudine fisica. Due elettroni, in qualunque parte dell'universo si trovino, sono "la stessa cosa" (ontologicamente identici) sebbene fenomenicamente possano differire in molti modi, in base alla velocità, alla posizione, allo spin etc.
      Tu vedi che se assumiamo questo principio dell'identità ontologica di tutti gli uomini si risolvono in un sol colpo tutti i difficili problemi legati al tentativo di ricondurre il principio morale ad un principio materiale di reciprocazione (uso le tue parole). Infatti se due uomini sono sostanzialmente la stessa cosa, segue, per necessità logica, che la medesima azione compiuta nelle medesime circostanze (circostanze estrinseche relative al contesto e circostanze intrinseche relative ad un insieme di caratteristiche individuali fenomenicamente rilevabili. ) verso l'uno deve avere lo stesso significato morale che avrebbe se compiuta verso l'altro. Qualunque sia il significato morale o il giudizio che di questa azione intendiamo dare. Non è un'idea mia ma di Schopenhauer, ti ringrazio per avermi dato l'opportunità di esporla, spero in maniera non troppo pedestre.

      Elimina
    22. Allora non sono d'accordo che si possa fare una premessa di tal fatta. Un tizio, marito e padre buono, premuroso, coscienzioso, generoso, un giorno, gradualmente, cominciò ad avere prima atteggiamenti ambigui e via via sempre più inappropriati con la propria figlia appena adolescente. Fu denunciato e allontanato. Presto gli trovarono un piccolo tumore che stava crescendo in una piccola ma precisa area del cervello. Fu curato dal tumore e tornò quello di prima (con minimi strascichi), senza più biosgni e aspirazioni particolari. Rimase sempre ontologicamente uomo, ma i suoi bisogni cambiarono e ricambiarono in base a eventi biologici.

      Questa accezione di premessa metafisica è del tipo che io trovo congruente con la religione. Se la assumiamo, non possiamo considerarla consequenziale, poiché è osservazione diretta che i bisogni e le aspirazioni cambino tra individui, anche a parità di qualità ontologica. Come facciamo a stabilire il modello di riferimento per tutti gli uomini? Possiamo assumere che siamo tutti identici ad un masochista e quindi bisogna che ci sia reciprocazione di violenza? Perché no?

      Elimina

    23. certo, non possiamo costruire nessun modello di riferimento, ma fare questa assunzione ci permette di giustificare più facilmente il fatto che, malgrado il comportamento temporaneamente deviante di quell'uomo, noi gli abbiamo fornito (per ipotesi) assistenza medica gratuita, protezione legale etc.

      Elimina
    24. Si chiama effetto placebo quello tale per cui la convinzione di assumere un agente produce in una qualche misura gli effetti che l’assunzione concreta produrrebbe. Non mi crea particolare turbamento riconoscere che la convinzione di un’ontologia metafisica dell’uomo pervada la maggioranza e possa avere (per ipotesi) effetti positivi sulla società. Non vedo come questo dimostri che sia un retto argomentare. Scrivevo tra paraentesi -per ipotesi - perché per secoli questa ontologia metafisica universale dell’uomo ha riguardato spesso e sovente non l’essere umano, ma separati gruppi di appartenenza, che in premessa non riconoscevano ad altri uomini la medesima natura e li valutavano inferiori. E non mi pare che uscire da visioni metafisiche non abbia avuto un peso per scardinare questa impostazione.

      Elimina

    25. non è un retto argomentare se si pretende che ogni retto argomentare abbia premesse auto evidenti. Ma consiglierei di non essere troppo drastici con questa pretesa. Le ragioni (non auto evidenti) di questo mio consiglio sono tante. Adesso mi viene in mente questa. In matematica esiste la congettura di Riemann che, appunto, è solo una congettura non dimostrata e dunque tutt'altro che auto evidente. Tuttavia esistono molti importanti teoremi matematici pubblicati in riviste accademiche che la pongono come premessa. Del tipo: se è vero Riemann allora....E' ovvio che tali teoremi non sono considerati dimostrati, non per questo però viene disconosciuta la loro importanza e il valore dei matematici che li hanno prodotti.

      Elimina
    26. E perché mai i matematici perdono tempo che teoremi che non sono considerati dimostrati? A parte che sono teoremi a tutti gli effetti, essendo tutti della forma R => X (ma non è dimostrata la loro verità).
      Ci sono mille ragioni e ne illustro solo qualcuna.
      L'ipotesi di Riemann (R) implica:
      A, B, C, D, E, F, ...
      Ce ne saranno cento. Una ragione mondana per perderci tempo: l'ipotesi di Riemann è vera almeno per i primi diecimila miliardi di zeri. Quindi A, B, C,… saranno vere se non altro per numeri non estremamente grandi (che magari non interessano un fisico, tanto per dire).

      Ragioni più profonde: a ben vedere, A è molto più interessante di R, perché riguarda una proprietà dei numeri primi. Il senso quindi di tutti questi teoremi (sono teoremi) della forma R => X (se, allora) è che un domani, se venisse dimostrato che R è vera, non avrai dimostrato le verità di una sola proposizione (R è vera): ne avrai dimostrate 100 in un solo colpo (nel tuo linguaggio, avrai dimostrato 100 teoremi in un colpo solo invece che uno solo). Tra cui A.

      Non solo, alcuni di questi teoremi sono in realtà nella forma R <=> X (se e solo se). Mettiamo che siano 50 di quei 100. Allora se dimostri ~R (R è falsa), in quel caso avrai comunque dimostrato in un sol colpo non la falsità di una sola proposizione, ma di 50 proposizioni (tutte false).

      Infine il botto. Per via di A, R è considerata una domanda fondamentale della matematica. Beh, sai perché allora è utile aver dimostrato:
      R => B;
      R => C;
      R => D;
      ...
      ?
      Beh, semplicemente perché qualcuno un giorno potrebbe accorgersi che è molto facile dimostrare ~B (B è falsa), oppure ~C, oppure ~Z. E cosa implica se ci riesci? Che hai dimostrato che R è falsa.
      Questo segue dalla reductio ad absurdum ed è in realtà una delle cose che accade più spesso in matematica: se R è falsa, dimostrarlo può essere complicatissimo, ma può rivelarsi molto più semplice dimostrare che B, implicato da R, è falso, e quindi anche R è falso.

      Più su l'avevo scritto:
      "[Assumere] la sua verità o falsità [avrebbe senso se] riconoscessimo a posteriori la veridicità o falsità della sua posizione dall’analisi delle sue conseguenze".
      È solo che io ritengo di aver già dimostrato, dopo, che una implicazione della premessa proposta è falsa, senza ottenere il suo ritiro. Il problema delle premesse metafisiche è che di norma non vengono dichiarate false quando dimostrate tali, con la riposta che essendo metafisiche non possono essere smentite dall'osservazione.

      Elimina

    27. beh, davo per scontato che la ragione per cui si facciano teoremi su la congettura di Riemann fosse quella che hai espresso tu. Questo non toglie che in ambito accademico matematico sia prassi normale argomentare su premesse non auto evidenti. Bisogna anche notare il fatto che non è per niente certo che la congettura venga un giorno dimostrata, né, in effetti, è certo che sia dimostrabile. Per il poco che capisco io di tali questioni potrebbe anche essere indecidibile.
      Non ti seguo quando affermi che:
      "io ritengo di aver già dimostrato, dopo, che una implicazione della premessa proposta è falsa"
      scusa, ma non riesco a capire quale implicazione avresti dimostrato essere falsa e in che modo. Inoltre:
      "Il problema delle premesse metafisiche è che di norma non vengono dichiarate false quando dimostrate tali, con la riposta che essendo metafisiche non possono essere smentite dall'osservazione."

      infatti una premessa metafisica non può mai essere dimostrata falsa.

      Elimina
    28. In matematica è prassi, in rari casi come nel caso di un'ipotesi centrale come quella di Riemann, dedurre le conseguenze di una congettura. Ma il minuto stesso in cui venisse dimostrata falsa una sola delle innumerevoli proposizioni implicate dall'ipotesi di Riemann, tutti i matematici del mondo istantaneamente concorderebbero che essa è falsa. Questo è un retto argomentare, che tu stesso indichi come diametralmente opposto a chi postula premesse metafisiche che ritiene non dimostrabili false. Su questo possono trovarsi d'accordo solo soggetti che rifiutano la retta argomentazione e quindi avrebbe ragione Castaldi.

      L'esempio della matematica, come si vede, qui non aiuta proprio.

      Dico di più: che affermare che una premessa metafisica non può essere dimostrata falsa è congruente ad affermare che da questa premessa non può discendere nessuna specfica conseguenza, men che meno quindi una prescrizione. Infatti dire che non può essere dimostrata falsa vuole dire che una realtà in cui essa è vera ed un'altra in cui essa è falsa sono in tutto e per tutto indistinguibili tra loro, a tutti gli effetti pratici e morali. In quale realtà viviamo noi? In quella in cui è vera, o in quella in cui è falsa? E perché dovremmo dedurre azioni dalla sua suppsta verità, se per tua stessa ammissione la sua verità non ha riverberi tangibili?

      Tanto per dovere di completezza. Con l'esempio del papà ritenevo di aver dimostrato che non può essere vera l'immutabilità della natura dei bisogni e aspirazioni umani. Più semplicemente avrei potuto chiedere che bisogni e aspirazioni abbia io in comune con un tale che per soddisfare la propria brama sconfinata di potere (o in nome di non so quale premessa metafisica) ritenga di dover sterminare tranquillamente intere popolazioni, a milionate. Mi chiedo, per essere all'altezza della sua natura, cosa dovrei fare se mi irrita che un commerciante non mi batta lo scontrino. Come minimo, per essere alla pari di quel tizio e dimostrare che la premessa è buona, dovrei sterminargli la famiglia.

      Elimina


    29. "Dico di più: che affermare che una premessa metafisica non può essere dimostrata falsa è congruente ad affermare che da questa premessa non può discendere nessuna specfica conseguenza, men che meno quindi una prescrizione."

      questo è falso per le conseguenze (ognuno agisce in base anche alle premesse metafisiche che accetta), vero per le prescrizioni (è ovvio infatti che essendo l'accettazione di una premessa metafisica sempre libera la sua semplice esposizione non può avere nessuna valenza prescrittiva per altri). Ma c'è un punto fondamentale che vorrei notassi. La stessa identica cosa si può dire per ogni proposizione auto evidente. La scienza non potrà mai "prescriverci" cosa fare, potrà al massimo suggerirci il modo migliore per fare quello che abbiamo deciso di fare.

      "Con l'esempio del papà ritenevo di aver dimostrato che non può essere vera l'immutabilità della natura dei bisogni e aspirazioni umani."

      bisogna distinguere tra idendità ontologica e similitudine fenomenica.
      Due enti ontologicamente identici possono benissimo essere fenomenicamente dissimili. Ripropongo l'esempio degli elettroni.
      Due elettroni qualunque dell'universo saranno in generale fenomenicamente dissimili (per velocità, posizione etc) tuttavia essi conserveranno sempre la stessa massa e la stessa carica. Inoltre, sempre in linea di principio, e spesso anche in pratica, è possibile fare in modo da rendere 2 elettroni qualunque fenomenicamente indistinguibili. E siccome il concetto di elettrone implica una determinata massa e una determinata carica ma non implica una determinata velocità o posizione, segue che due qualunque elettroni si possono considerare ontologicamente identici, cioè essere "la stessa cosa." L'uomo di cui parlavi ha subito un cambiamento, sono mutati i suoi desideri, tuttavia tu sostieni di parlare di un uomo non di due. Dunque, se un uomo che nel corso della sua vita cambi i suoi desideri rimane lo stesso uomo (con desideri diversi) non si vede come dal fatto
      che tu hai desideri diversi da un altro uomo puoi dedurre che siete ontologicamente diversi. Il che ovviamente non significa che sei costretto ad ammettere questa identità, significa che non puoi dimostrare che essa è falsa. Tutto ciò deriva in ultima analisi dal fatto che io rifiuto di ridurre l' uomo al suo corredo genetico. D'altronte, an passant, ti faccio notare che se tu insisti a farlo dovresti spiegare perché consideri due gemelli omozigoti due uomini diversi e non un solo uomo.
      In ogni caso ammetto che la mia affermazione che tutti gli uomini di tutte le epoche hanno le stesse aspirazioni profonde non era chiarissima. Essa va intesa in questo modo:

      1) tutti gli uomini sono ontologicamente identici

      2) segue dal punto 1 che l'uomo può essere definito solo dalle proprie aspirazioni e dai propri bisogni profondi. Profondi va inteso non nel senso che due qualunque uomini esprimono sempre gli stessi desideri ma che in linea di principio potrebbero farlo.

      3) Essendo il punto uno una premessa metafisica essa, per quanto mi riguarda, può essere rigettata (ma potrebbe pure essere semplicemente ignorata ) solo in 2 modi:

      a) in quanto contraddetta da una diversa premessa metafisica

      b) in quanto premessa non auto evidente. Ma in questo caso chi la rifiuta dovrebbe motivare il suo rifiuto con un'argomentazione costituita solo da proposizioni auto evidenti.


      Infine propongo di terminare questa amichevole disputa in questo modo: si dividano tutte le possibili proposizioni in tre classi: quella delle proposizioni verificabili empiricamente, quella delle proposizioni verificabili a priori (2+2 =4 ), quella delle proposizioni non verificabili né nel primo né nel secondo modo (che chiameremo per semplicità metafisiche). Ognuno usi e accetti le proposizioni che vuole, con una regola: ognuno, qualora richiesto, motivi il rifiuto di una determinata classe di proposizioni con un'argomentazione che non comprenda proposizioni della classe rifiutata.

      Elimina

    30. scusa, dimenticavo la cosa più importante. Tu in
      comune con quel dittatore hai probabilmente tre cose: l'aspirazione/bisogno della salute fisica, l'aspirazione/bisogno di una vita sessuale/affettiva, l'aspirazione/bisogno della conoscenza. Mi sembra ragionevole assumere che queste tre siano aspirazioni/bisogni universali e su di essi basare una definizione della natura umana come immutabile. Può sembrare scontato e banale ma non lo è affatto. Per esempio Smith definisce l'uomo come l'animale che scambia, Marx definisce l'uomo come l'animale che lavora e che produce. E' difficile sostenere che queste loro assunzioni di base abbiano avuto conseguenze
      trascurabili nello sviluppo del loro pensiero e in fondo nella storia del mondo. Ai nostri giorni si assume frequentissimamente (tanto che non ce ne si rende neanche conto) che l'uomo sia un animale che vuole possedere più merci possibile. E infatti si ritiene scontato che lo stato debba far di tutto per incrementare la crescita economica. A me fanno appunto paura tutte le assunzioni metafisiche implicite che, proprie perché non dichiarate come tali, vengono sottratte al diritto di rigetto. Cmq ho 2 notizie: una buona e una cattiva. Quella buona è che forse Riemann è stato dimostrato, quella cattiva è che siamo al 2,4 %. Simpaticamente...

      Elimina
    31. Una piccola provocazione per chissacosera: alla fin fine, la metafisica cos'altro è se non una passata di lustro sull'arbitrio?

      Oddio, per vendere vende; ma, tolto il lustro, resta sempre da valutare la sostanza dell'arbitrio.

      Elimina
    32. "ti faccio notare che se tu insisti a farlo dovresti spiegare perché consideri due gemelli omozigoti due uomini diversi e non un solo uomo"

      Mi permetto di osservare che questo è uno straw man argument nei miei confronti in piena regola. Ho precisato in lungo e in largo che la congruenza genetica per me è una condizione necessaria, ma non sufficiente per decretare che due individui hanno una natura coincidente. Se i due gemelli avessero avuto le stesse malattie, vissuto negli stessi luoghi, mangiato le stesse cose, ricevuto le stesse attenzioni, sperimentato le stesse esperienze, nessuna esclusa, potremmo supporre che abbiano gli stessi identici bisogni e le stesse identiche aspirazioni.

      Per quanto riguarda gli elettroni: non esiste virtualmente un singolo esperimento moderno in cui un elettrone possa essere scambiato per un protone, un neutrone, un neutrino, un fotone, un bosone di Higgs e via dicendo. Esistono invece numerosi esperimenti sociali in cui non sapremmo distinguere un essere umano da un primate, persino da un mammifero o addirittura altro animale.
      Non esiste poi esperimento concepibile in cui sia possibile stabilire se l'elettrone passato dentro al mio strumento sia Tizio, Caio, Sempronio o Schopenahauer. Viceversa ho la netta sensazione che se togliessimo le nostre firme, Castaldi indovinerebbe seduta stante se un commento lo abbia scritto io o tu.

      Quando dico che la premessa metafisica deve essere ritenuta priva di conseguenze dal punto di vista delle prescrizioni, intendo più semplicemente dire che se nessuna osservazione può e potrà mai falsificarla, allora necessariamente essa non produce effetti in alcun modo percepibili sulla realtà. E quindi è un controsenso in piena regola pretendere che determini delle conseguenze sulle nostre scelte.

      Dire che io ho in comune con un dittatore tre cose e dedurre che perciò abbiamo la totalità di bisogni e aspirazioni in comune mi sembra non poco arbitrario, oltre che sproporzionato. Poi, sulla terza, bisogno di conoscenza, ahimè, temo che a voler dire che ce li abbiamo congruenti io e quel tale si debba sgonfiare a tal punto l’accezione di questo termine che finirei per non riconoscermi più nella categoria umana.

      Infine, attenderei senza patemi la conferma della dimostrazione dell'ipotesi di Riemann: non ci scommetterei un gran capitale.

      Elimina
  4. grazie Luigi. Con te il livello è sempre alto

    RispondiElimina
  5. comunque non esiste alcun proemio al De causis corruptae eloquentiae.
    Congratulazioni per la creatività

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Se è per questo, non abbiamo neppure il De causis corruptae eloquentiae, che è andato perduto. Molto probabile invece che, al pari di altre opere coeve, avesse un proemio. Comunque, uomo di poca fede, se passi per Napoli fammi un colpo di telefono ché ti mostro il papiro, rinvenuto sotto un editoriale di EGdL.

      Elimina
    2. a metà lettura mi sembrava di aver riconosciuto l'influenza aviaria, ovviamente intesa come stile del Galli non come malattia dei polli.

      Elimina
  6. Alcune considerazioni, a margine del post e di quanto nei commenti.

    I "diritti umani universali" esistono solo in quanto esista una forza in grado di garantirne il rispetto a chi si trovi ad invocarli e ritorsioni a chi li voglia violare, o semplicemente si ponga ad ostacolo. Non per nulla sono oggetto di una "Dichiarazione" e non il risultato di una ricerca.

    Questo vale per qualsiasi "diritto", anche più particolare o soggettivo.

    Non è con la metafisica (salvo che esistano realmente esseri metafisici al di fuori della letteratura religiosa, e che si manifestino con spirito interventistico) che si costruiscono politica e diritto, ma con il confronto (di argomenti e forze) tra le diverse volontà degli individui che partecipano in vario modo (anche nel senso di quantità) alla formazione della volontà collettiva. La "retta argomentazione" ha un ruolo in questo confronto; ma, quando va a toccare le motivazioni profonde, questo ruolo attiene più alla retorica che alla razionalità (e c'è pure chi reagisce negativamente a qualsiasi argomentazione contraddittoria).

    RispondiElimina

  7. è che immaginare che esista qualcosa come una "volontà collettiva" mi crea molti più problemi che immaginare (parlo per assurdo) un essere onnipotente e trascendente che vegli sul risultato delle elezioni. Nel secondo caso, infatti, non ci sarebbe nessuna contraddizione con l'esperienza e il sentire comune, uno si rassegna all'insondabilità del volere divino e la cosa non ha nessuna conseguenza. Nel primo caso, invece, chiamare "volontà collettiva" il risultato di elezioni inquinate magari da brogli elettorali, violenza politica oppure semplicemente vinte con una maggioranza risicata, è qualcosa che proprio non riesco a fare.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Intendo "volontà collettiva" semplicemente come la risultante complessiva delle forze individuali.

      Essa ha in certa misura le caratteristiche di una volontà individuale, nella misura in cui la società nel suo complesso e i suoi aggregati parziali manifestano qualità che siamo soliti associare agli individui; ma non è una persona è non ha senso giudicarla come tale, è una delle tante forze naturali cui dobbiamo adattarci e, al tempo stesso, cerchiamo di controllare.

      In una situazione ideale, c'è anche la possibilità di "cambiare cielo" alla ricerca di una situazione più confacente. Idealmente bisognerebbe salvaguardare l'esistenza di una pluralità di contesti sociali, dagli Stati fin giù alle compagnie amicali, perché non c'è verso di avere una misura per tutti e per ciascuno.

      Elimina
  8. Malvino, ho trovato un ragionamento che dimostra, sotto condizioni secondo me ragionevoli, in maniera secondo me inconfutabile, che l'assunzione almeno implicita di qualche principio metafisico è condizione necessaria
    per il concreto esplicarsi della retta argomentazione, ogni volta che tale retta argomentazione riguarda una proposta politica, rivolta ad un insieme di destinatari sufficientemente eterogeneo, e implicante una scelta tra diverse alternative. In pratica quindi per ogni proposta politica.

    - Assumiamo che ogni proposta politica miri al conseguimento di un utile per tutti o per un sottoinsieme dei destinatari a cui è rivolta.

    - Assumiamo che ogni destinatario sia in grado di decidere autonomamente ciò che è utile per lui

    - Assumiamo che individui diversi trovino il loro utile in cose diverse.

    - Assumiamo che ogni individuo cerchi sempre di ricavare un utile o di evitare
    un disutile da ogni attività a cui partecipa.

    - Assumiamo che per nessun individuo esistono proposte politiche "neutre", cioè ogni proposta politica è per ciascun individuo o utile o disutile.

    - Bisogna evitare che in democrazia un individuo non partecipi, volendolo fare, ad una discussione pubblica dall'esito della quale potrebbe derivargli,
    a suo giudizio, un utile o un disutile.





    Questo è il ragionamento:

    l'esistenza di una retta argomentazione che abbia come oggetto una proposta che miri al conseguimento di un utile non può non consistere in un ragionamento che dimostri che i mezzi ipotizzati (cioè il contenuto della proposta) siano
    idonei al conseguimento di quel determinato utile. Ma dato che ogni destinatario ha un utile diverso, ecco che presto ci troviamo di fronte ad una contraddizione.

    Supponiamo infatti ci sia un destinatario che ritenga una certa proposta disutile per lui ma adeguata a conseguire gli obiettivi di utilità dichiarati per altri.

    Se partecipa alla discussione pubblica usando le regole della retta argomentazione da un contributo all'approvazione di una proposta che gli sarà disutile (e questo

    contraddice il punto 3 ), se non partecipa alla discussione pubblica questo contraddirebbe il punto 6. Si deve notare che questo individuo non potrebbe dire semplicemente: non mi piace perché sarebbe per me dannosa, non essendo questo, credo, un argomento accettabile secondo le regole della retta argomentazione.

    L'unico modo per uscire dall'impasse è presumere che l'utile che si vuole conseguire sia comune a tutti i destinatari della proposta e riservare alla discussione l'esame circa il fatto se sia adeguata a conseguirlo.

    E infatti nella pratica tutte le proposte politiche si vogliono utili a tutti i loro destinatari. Ma per stabilire che un qualcosa sia utile a tutti i componenti un gruppo sufficientemente eterogeneo per condizioni e caratteristiche, si deve necessariamente partire da qualche assunto di tipo metafisico circa la natura umana.

    Al contrario, se c'è una proposta proposta politica che, sulla base di determinati dichiarati presupposti metafisici, si vuole sia utile per tutti e che invece un individuo ritenga invece per lui disutile, questi non ha che dichiararsi non convinto di tali presupposti e, su questa base, rigettarla.


    Credo che l'unica delle 6 assunzioni preliminari che possa essere controversa sia l'ultima. Però penso sia utile aver chiaro che se noi neghiamo ogni cittadinanza alle premesse metafisiche nelle discussioni pubbliche e, nello stesso tempo, pretendiamo la retta argomentazione, di fatto stiamo chiedendo alle persone di non partecipare a discussioni politiche che potrebbero anche avere notevoli ripercussioni nella loro vita. In democrazia non è una richiesta da poco.





    RispondiElimina