lunedì 17 settembre 2018

Siete serviti


In linea di principio, potrei anche rinunciare alla democrazia in favore di una forma di governo in cui il potere sia esercitato da un’élite illuminata, ma è che sul piano pratico vedo ostacoli insormontabili.
Il primo, e il più grosso, sta nel fatto che da un certo punto in poi potrei smettere di considerarla illuminata, ma allo stesso tempo non aver alcun diritto di metterne in discussione il potere, il che di fatto me la trasformerebbe in una dittatura. Infatti, delle due, una: o è sempre illuminata, e non può smettere d’esserlo (non è questo, infatti, che legittima il suo potere in alternativa alla democrazia?), e allora sono io in errore a pensare che non lo sia più (ma questo non implica che potrei essere stato in errore anche quando pensavo che lo fosse?); o è realmente possibile che abbia smesso d’essere illuminata (come è possibile che non lo sia mai stata), e allora non si capisce che bisogno avrei di rinunciare alla democrazia che mi consente di poter rivedere il mio giudizio a scadenze prefissate dopo aver verificato l’operato di chi ho eletto o dopo aver constatato che si trattava di un giudizio errato in partenza.
È che «élite» significa – appunto – «eletta», «scelta», ma il nodo del problema sta nel «da chi», perché, se su quanto sia illuminata, e per ciò legittimata ad esercitare il potere, devono esprimersi quanti in un sistema democratico sono periodicamente chiamati a scegliersi dei rappresentanti, tra élite e rappresentanza scompare ogni differenza, così come smette di esserci alternativa tra due forme di governo che in realtà sono una sola. Si dovrebbe, altrimenti, dar ragione a chi afferma che una democrazia regge solo se riesce a esprimere un’élite illuminata, che però si dà a intendere non possa sortire da un voto. Chi lo afferma, infatti, fa chiara distinzione tra élite ed eletti dal popolo, anche se ammette possano esserci aree di sovrapposizione e coincidenza tra i due insiemi in quelle personalità che riescano ad ottenere un rinnovato mandato elettivo per un lungo periodo. È tuttavia evidente che, se a esprimersi su quanto sia illuminata una cerchia di personalità cui si voglia affidare l’esercizio del potere devono essere chiamati tutti, la qualità in oggetto sarà semplicemente conferita da un consenso maggioritario, che non potrà mai avere peso assoluto, né tanto meno oggettivo: l’élite sarà illuminata del tanto che le sarà riconosciuto dalla maggioranza degli aventi diritto al voto e per la sola durata del mandato, ma allora che senso avrà considerare alternative due forme di governo che in realtà sono una sola?

Sì, confesso, fin qui ho giocato un poco a fare il finto tonto. In realtà so bene che, per definizione (ancorché all’etimo piaccia far confusione), un’élite illuminata non può sortire da un voto popolare: «da chi» dovrebbe essere «scelta», dunque? E soprattutto: come dovrebbe essere legittimata a esercitare il potere? Io qui credo che non ci sia altra soluzione: un’élite illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a quelle medie, come conoscenze e capacità a un alto grado d’eccellenza; non può altrimenti essere legittimata a esercitare il potere, dunque, che autolegittimandosi; né può altrimenti arrivare a esercitarlo se non indipendentemente dal consenso di chi in un sistema democratico sceglie i propri rappresentanti, nel senso che un eventuale consenso popolare potrà facilitarle il fine, con ciò dandole un mandato che si tradurrà in un’investitura d’autorità in tutto coincidente ad un’attribuzione di autorevolezza, ma non precluderglielo, perché c’è da supporre che i mezzi a sua disposizione siano in grado di raggiungerlo comunque, ancorché il buonsenso possa poi consigliare di non renderne manifesto il conseguimento (l’élite illuminata potrebbe decidere sia più opportuno esercitare il potere senza darlo da vedere, semmai condizionando le decisioni di chi il potere lo detiene solo formalmente per averne avuto investitura per suffragio universale).

Finto tonto anche qui? Sì, un pochino, ma era per mettere in evidenza la sostanziale coincidenza tra élite illuminata e oligarchia, dove non è affatto escluso che, nel prendere in mano il potere e nell’esercitarlo, entrambe possano godere del consenso popolare (almeno nella sua espressione maggioritaria, foss’anche nella forma di un’acquiescenza passiva) o della soggezione di chi il popolo ha scelto come suo rappresentante: finto tonto per alzare il velo d’ipocrisia e di mistificazione che sta nell’affermare l’impossibilità di una democrazia senza un’élite illuminata a correggerne gli errori, che sarebbero tutti nel volere degli elettori.
Ci sono due modi per dirlo, e per entrambi ricorrerò a degli esempi. 
Il primo è rozzo, ma assai efficace, quasi a prendere dal bignamino la teoria di Robert Michels: «Una oligarchia bene organizzata somiglia ad una democrazia possibile» (Giuliano Ferrara, Il Foglio, 22.5.2008).
Il secondo è un po’ più articolato, e forse anche perciò meno efficace, perché, quando c’è da affermare un principio sostanzialmente antidemocratico, l’articolazione finisce sempre per essere d’impaccio. Si tratta del rimprovero a chi ha «scarsa consapevolezza del fenomeno democratico quale organizzazione elitaria del potere. Dalla Gloriosa rivoluzione fino ai moti liberali dell’Ottocento, la strada per la democrazia è stata la strada per l’individuazione di una legittimazione del potere che comunque separasse l’élite dal volgo, i capaci dagli incapaci a governare. Le teorie e gli istituti democratici sono nati e si sono sviluppati al servizio di una teoria oligarchica della democrazia che consentisse una legittimazione nuova rispetto al potere assoluto del re, una legittimazione popolare sì, ma per un governo estraneo e riparato dai governati. Nella schizofrenia del continuo appello alla sovranità popolare e alle forme di democrazia diretta e partecipata e, d’altro lato, della contestuale delusione per le sue scelte, pensiamo che il busillis sia nelle soluzioni istituzionali che razionalizzino il principio maggioritario: voto sì ma non su tutto, e persino voto sì ma non per tutti. Ma il punto è molto più delicato dell’ingegneria istituzionale: democrazia non vuol dire necessariamente appello assoluto alla sovranità popolare, come troppo spesso si sente dire da alcuni partiti e movimenti politici e da una certa classe intellettuale, quando le torna comodo. Al contrario, la fortuna della democrazia si è avuta con l’erigersi del voto a illusione politica e col rafforzamento di una teoria del potere e della sovranità diversa dall’assolutismo ma comunque elitaria, che identificasse nella oligarchia degli eletti la legittimazione ad agire e al tempo stesso la garanzia dei talenti. Se questa è la democrazia, è democratico anche un sistema, come quello italiano, dove su certi argomenti il popolo non può esprimersi, o un regime che non fa della trasparenza e della volontà popolare il feticcio del potere legittimo. Se questa precisazione non ci piace, non ci resta che accettare sempre la volontà popolare, anche quando si esprime come non vorremmo» (Serena Sileoni, sempre su Il Foglio [dove sennò?], 5.7.2016). Che poi sarebbe stare al gioco anche quando se ne perde una tornata.

Ecco, direi di essere arrivato al punto cui mi proponevo di arrivare con questo intervento. Dobbiamo concepire la democrazia come «legittimazione popolare» di un «governo estraneo e riparato dai governati»? Dobbiamo credere che la democrazia possa reggere solo sullassunto che il voto sia «illusione politica»? Dobbiamo ritenere che una «sovranità diversa dall’assolutismo» sia possibile, ma solo se «comunque elitaria», consistente in una «oligarchia degli eletti», che già sarebbe tanto, visto che darsi per illuminata può pure essere unélite religiosa o militare?
Già, perché ancora non abbiamo chiarito a chi spetterebbe darle la certificazione di «illuminata». Si trattasse di unélite teocratica, sarebbe tutto facile, e invece chi sostiene che una democrazia è possibile solo a maquillage di unoligarchia professa molto spesso un credo laico, anche se poi altrettanto spesso si tratta di una laicità che sappoggia al «veluti si Deus daretur». Sarebbe tutto facile anche con unélite militare – anche troppo facile, direi, basterebbe contare i bernoccoli invece che le schede che escono dalle urne – ma dopo Julius Evola nessuno più contempla lipotesi. Illuminata, allora, sì, ma certificata tale da chi, se a darle tale certificazione a mezzo di elezioni significherebbe renderla un po meno élite?
Non se ne esce: abbiamo detto che un’élite illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a quelle medie? È evidente allora che solo in tale contesto può darsi legittimità a definire superiori certe qualità. In sostanza, non può essere che unélite illuminata a potersi dire illuminata. Non funziona col pazzo che dice di essere Napoleone, ma con lélite illuminata occorre funzioni.
Trattandosi di élite illuminata, non c’è dubbio che i criteri di cooptazione per entrare a farne parte sarebbero ineccepibili. Non c’è dubbio, per esempio, che l’entrare a farne parte non potrebbe mai essere motivato unicamente dall’esser figlio di chi già ne fa parte, ma da meriti incontestabili. D’altronde, chi mai potrebbe contestarli, questi presunti meriti, se non chi già ne faccia parte? E dunque: chi mi può assicurare che tra i membri di questa élite non si finisca per trovare un seppur tacito accordo del tipo «se chiudi un occhio su mio figlio, io poi ne chiudo uno sul tuo»? I figli so’ piezze ’e core, si sa. Qui in Italia, poi, più che mai. Non cè il rischio che questélite mi diventi anche dinastica?

Basta fare il finto tonto, sta stufando pure me: la sovranità, o appartiene al popolo o non gli appartiene. Deve esercitarla nelle forme e nei limiti prefissati dalla Costituzione che si dà, ma non possiamo dire gli appartenga solo per modo di dire. Sennò è del tutto naturale che si senta preso per il culo. E preso per il culo oggi, preso per il culo domani, finisce che sincazza e dà il peggio di sé. Allora sì che, come dice la Sileoni, diventa «volgo», ma diciamo che diventa difficile capire quanto già lo fosse di suo e quanto lo sia diventato per incazzatura. Che lo diventi potrà rafforzare in qualcuno la convinzione che unélite illuminata sia cosa estremamente necessaria, ma è evidente che quella messa in discussione dal «volgo» non fosse tanto illuminata da riuscire a conservare il potere che fino a un certo punto ha esercitato senza trovare ostacoli. Illuminata fino a un certo punto, diciamo, ma poi non più. Le dinastie decadono, diciamo. E se proprio è necessario che sia unélite a dare anima a una democrazia, ogni tanto un ricambio non guasta. Se al «volgo» spetta solo il ruolo di spettatore, ben venga ogni tanto una guerra per bande. Non si capisce, però, perché non debba vincere il migliore, e cioè loligarchia che meglio riesca a darsi faccia «volgare». Le elezioni dovevano servire unicamente a dare legittimazione a unoligarchia? Bene, siete serviti.

21 commenti:

  1. Mi pare che sia assente la questione dei rapporti sociali, carne e sangue di quelli giuridici e politici; vale a dire la questione delle classi sociali e della loro lotta, che si svolge, almeno nella nostra epoca, in primis sul terreno dell’economia e della politica. Dunque, chi controlla l’economia e in quali forme? Tale questione è essenziale altrimenti la locuzione “la sovranità appartiene al popolo” diventa priva di senso reale.

    A tale riguardo osservava il Vecchio:

    «La "società odierna" è la società capitalistica, che esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera di appendici medioevali, più o meno modificata dallo speciale svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo "Stato odierno," invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in Inghilterra è diverso che negli Stati Uniti. "Lo Stato odierno" è dunque una finzione.

    «Tuttavia i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può parlare di uno "Stato odierno," in contrapposto al futuro, in cui la presente radice dello Stato, la società borghese, sarà perita.

    «Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.»

    Nel mio ultimo post osservavo: «La proprietà privata viene soppressa dal capitale stesso (la proprietà del capitale è ora, nel reale processo di riproduzione, separata dalla funzione del capitale, e questa funzione è separata dalla proprietà del capitale); la soppressione del modo di produzione capitalistico, nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, come osservava il Vecchio, si presenta in prima facie come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Siamo ancora in una fase in cui l’appropriazione della proprietà sociale avviene da parte di pochi individui, laddove il contrasto fra il carattere sociale ed il carattere privato della ricchezza non è stato annullato ma ha assunto nuove forme, tuttavia i prodromi del futuro sono davanti ai nostri occhi.»

    Rosa Luxemburg scriveva molto opportunamente che ogni periodo forgia il suo materiale umano e che se la nostra epoca avesse veramente bisogno di lavori teorici, essa stessa creerebbe le forze necessarie alla sua soddisfazione. È pur vero, soggiungo, che l’epoca attuale può offrire, in generale, un saggio dell’intelligenza ma non un uso delle sue molteplici possibilità, poiché essa è legata alla conservazione fondamentale di un ordine antico. Già su questo terreno c’è da combattere, ognuno nel suo, una piccola battaglia volta innanzitutto a far superare l’apatia e l’indifferenza, che metta l’essenziale davanti agli occhi per una nuova immagine del mondo possibile, e perché la lotta ridiventi tema e sostanza della vita.

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    1. Come già scritto in risposta al commento che hai lasciato a "Detempore barbarico", il Vecchio è ineccepibile nella pars destruens, ma purtroppo è vissuto troppo poco per darci pure un'eccepibile pars construens, sulla quale si mantiene assai sul vago (dimmi tu cosa ci sia di anche lontanamente chiaro nel dire che la "questione" ha sì una risposta scientifica, ma che con i materiali e i metodi a disposizione oggi non abbiamo neppure modo di immaginarcela). Chiunque abbia preteso di trarre ispirazione dalla sua pars destruens - d'accordo con te che tutti l'abbiano frainteso o mistificato: sovietici, cinesi, ecc. - non è comunque riuscito a risolvere il problema dell'élite, che si è riproposto esattamente nei termini che qui ho cercato di configurare, dunque senza sostanziale differenza dal modo in cui si pone nelle morenti democrazie liberali. Nell'iniziare dicendo che, "in linea di principio, potrei anche rinunciare alla democrazia in favore di una forma di governo in cui il potere sia esercitato da un’élite illuminata", intendevo dire: "voglio anche concedere che la democrazia borghese sia una presa per il culo, ma ogni alternativa è in grado di risolvermi il rapporto tra potere e delega?". Accetto ogni tipo di risposta, ma dirmi che anche a scervellarci non ci avviciniamo di una spanna al paradiso in terra di cui l'abbattimento del sistema capitalistico è la premessa mi lascia inquieto.

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    2. Non a caso ho puntato il dito sui rapporti sociali e la lotta di classe. Se ci limitassimo alla questione delle élite, non andremo molto lontani. È sempre il rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti ove noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento.

      Già il giovane Marx osservava:

      «[…] in tutte le rivoluzioni finora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone […].

      Quale che sia la mediazione tra la teoria e la pratica, il comunismo novecentesco ci ha mostrato come un partito leninista sia adatto principalmente a un compito: impadronirsi del potere dello Stato, come conquista del potere politico. Il primo momento, di cui parla Marx, è poi diventato un tempo indefinito, e non poteva essere diversamente dato che non è mai stato toccato il tipo dell’attività (semmai solo una diversa e parziale allocazione dei proventi), e quindi si è trattato soltanto “di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro”. Ed infatti è il lavoro, nelle sue forme e cioè come rapporto sociale, che contiene la contraddizione principale e irrisolta.

      Sempre Marx nell’Ideologia tedesca:

      «Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico, e appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto […] sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi, e inoltre che ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo momento.»

      Quando Marx, molti anni dopo, prefigura una società comunista nella quale ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondo i propri bisogni (Critica al programma di Gotha, 1875), pone come premessa che ciò potrà avvenire solo «dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e manuale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita …».

      Marx non sembra tener conto che vi sarà sempre chi da un lato esegue un lavoro e chi, dall’altro, lo organizza e coordina, e sembra lasciare in ombra, come evidenziava Simone Weil, «i principi generali del meccanismo mediante il quale una forma determinata di oppressione viene sostituita da un'altra». La Weil avvertiva un bisogno di assoluto che nella dialettica del sociale non può trovare realizzazione. Ed era proprio questo che la rendeva inquieta, ed infatti ella rivolgerà infine la sua attenzione alla fede religiosa.

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    3. segue:

      Non esisterà mai la società perfetta, priva di contraddizioni e di conflitto. Ogni realtà, naturale e umana contiene in sé delle contraddizioni. Questo non significa che non sia possibile costruire per l’umanità nel suo insieme condizioni sociali e di vita migliori delle attuali. Non vi è nessuna necessità dei monopoli economici in mano a un manipolo di cinici miliardari, dello sfruttamento dissennato delle risorse, della finanza “creativa”, insomma di un’economia tributaria dei progressi della merce e del lavoro che ne paga il conto.

      Marx è morto a soli 64 anni, ma anche se fosse vissuto fino a cent’anni non avrebbe potuto offrici alcuna “visione” della futura società: non era un profeta, bensì uno scienziato. Eppure ci ha lasciato degli indizi, a volte anche assai particolareggiati, di come sarà risolto in dettaglio il problema della scomparsa della “subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro” e “quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico”, eccetera (vedi p.es.: http://diciottobrumaio.blogspot.com/2013/05/il-carattere-storico-e-transitorio.html).

      Ci ha lasciato il compito di scovare, partendo dalla sua critica del modo di produzione borghese, gli universi possibili del reale che esprimono i rapporti di produzione in gestazione “nel seno della vecchia società”; rapporti di produzione, possibili, potenziali, già maturati e contenuti nella materialità del presente, in attesa di essere tradotti in programma politico.

      Lo so bene che la situazione attuale depone a favore di tutto tranne che a favore di una simile prefigurazione politica. Abbiamo dunque buone ragioni per dirci inquieti, ma per motivi diversi da quelli della Weil.

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    4. In buona sostanza, il Vecchio ci chiede un atto di fede nel progresso. E' quello che, per oltre un anno in cui all'aggiornare queste pagine ho preferito la rilettura dell'Ideologia tedesca e del Capitale (c'entri soprattutto, Olympe: mi facevi sembrare tutto secondario rispetto alla "questione fondamentale", tutto era irrilevante sovrastruttura), mi dicevo ad ogni sosta. Ed era la mia refrattarietà ad ogni fede che acuiva l'inquietudine. Annotavo, lasciando incompito:

      Non fa una previsione, Prezzolini, quando dice – siamo alla fine degli anni Sessanta – che, «se il progressista è l’uomo del domani, il conservatore è l’uomo del dopodomani»: non dice che a una stagione di entusiastica adesione a un moto di rinnovamento ne segue necessariamente una di disillusione e di pentimento (eventualmente di resipiscenza, semmai pure operosa): niente di tutto questo (peraltro tiene a precisare che il «conservatore» – il «vero conservatore», dice – non è un «reazionario», né un «tradizionalista»): no, Prezzolini si limita a evocare l’obiezione che è in radice alla sfiducia nel progresso, quella basata sulla convinzione, espressa in forma di timore saldamente motivato, che da un domani migliore del presente (sospesa la questione se poi lo sarà davvero o no) possa discendere un dopodomani che ne risulti assai peggiore, peraltro dandola come ipotesi altamente probabile, se non certa: è la sfiducia che non fa mistero di trovare ragione in una visione dichiaratamente pessimistica della natura umana, stolta più che malvagia (la via che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni), considerata ineluttabilmente incline a far guai: visione che però implica anche un giudizio di merito sul presente, qualunque esso sia: quand’anche sembri pessimo, perfino al punto da far credere che qualsiasi domani diverso non possa che essere migliore, il peggio è sempre possibile, anzi è così gravemente incombente da essere pressoché sicuro: dal progredire, insomma, si avrebbe sempre qualcosa da perdere e, se pure non si avesse altro da perdere che le proprie catene, se pure questo fosse assicurato per il domani, c’è il caso – probabilità che per il «conservatore» abbiamo visto essere prossima alla certezza – che dopodomani ci si possa ritrovare molto più strettamente avvinti in catene molto più pesanti, e tutto questo – dice il «conservatore» – trova conferma nell’esperienza: l’esperienza – dice – mostra che alla lunga ogni progresso tradisce sempre le sue promesse, e spesso in modo tragico: tanto gli basta per poter vantare merito di una lungimiranza protetta dall’insidiosa minaccia degli entusiasmi che menano a rovina il «progressista», sempre incapace di vedere oltre la punta del proprio naso, e perciò incline all’avventura, fonte d’ogni genere di disastro.

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    5. Marx ha creato molte illusioni, ma con te gli è andata buca.
      Pensa che mi ha fregato per 47 anni e non è ancora finita.

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    6. Non è detto, può darsi mi converta in articulo mortis.

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    7. privazione delle esequie marxiste in mancanza di segni di pentimento (can. 1184-1,1°)

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    8. Ma perché ancora Marx, quale frammento del suo discorso amoroso vi suggestiona così tanto da incaponirvi ancora su quella che rimane pur sempre una congettura, e cioè che la felicità dell'uomo dipenda dalla proprietà comune dei mezzi di produzione? Ci tocca ancora di lavorare? E poi questa idea che esistano davvero le classi come esistono le classi dei numeri primi e dei numeri dispari, bah.

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  2. Buongiorno,
    da sempliciotto quale io sono, trovo che sia tutto scritto nell'art. 1 della carta costituzionale, la quale, giusto prima di informarci del fatto che la sovranità appartiene al popolo, ci avverte che la repubblica democratica è fondata sul lavoro, cioè sul lavoro salariato, cioè sullo sfruttamento del lavoro altrui. Nel momento in cui le fondamenta di una qualsiasi comunità, (perchè non siamo certo i soli) sono costituite su questo granitico rapporto sociale, mi domando come possa perpetuarsi l'immensa struttura politica corrispondente, con tutte le sue ramificazioni e stratificazioni, i suoi conflitti, senza riprodurre nello stesso tempo determinati interessi di classe. Nella sua opera "An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations", Adamo Smith, candidamente rilevava: "Whenever the legislature attempts to regulate the differences between masters and their workmen, its counsellors are always the masters". In fondo, quanto è veramente cambiato da allora? Eccola qui dunque l'élite, non resta che correre a votare i suoi rappresentanti affinchè possano sembrare un po' anche nostri.
    Grazie mille.

    Saluti

    Costantino T.

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    1. Ah, guardi, io sono anche più sempliciotto di lei, ed è per questo che a chiunque mi proponga un'alternativa alla stramaledettamente imperfetta democrazia borghese (feudalesimo, assolutismo, monarchia costituzionale, dittatura, ecc.) chiedo: "Hai una soluzione credibile per risolvermi il problema dell'élite, che, quando ritengo inefficiente e parassitaria, posso più facilmente mandare al diavolo col voto che in altro modo?". In altri termini, e riprendendo la chiusa del tuo commento: c'è modo di far sì che non sembrino solo un po' anche nostri, ma che lo siano davvero? Se la risposta è no, non abbiamo alcun diritto di inorridire dinanzi a derive autoritarie: in fondo la democrazia apre la via al despotismo ogni volta che rinuncia, anche per poco, alla sua automanutenzione.

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    2. Un tempo mi ponevo la stessa domanda (che spero di aver inteso correttamente), mi chiedevo cioè se fosse possibile prima pensare e poi costruire, quasi a tavolino, un nuovo sistema, un sistema che fosse almeno capace di ridurre questa distanza che separa gli eletti dagli elettori. Ad un certo punto però ho capito che questa domanda non aveva senso, e non aveva senso perchè essa veniva dal mio essere umano, cioè dal fatto di avere comunque gli anni contati. Non aveva senso perchè era segnata dalla paura del "salto nel buio", la stessa paura che si ha quando si è in procinto di lanciarsi con un paracadute magari piegato da qualcun altro. Non aveva senso perchè ponendomi questa domanda non riuscivo ancora ad immaginare rapporti sociali diversi sui quali fondare una democrazia. In poche parole: non ero ancora comunista. In realtà il movimento verso una nuova organizzazione sociale è già in corso, proprio in questo momento, ma nonostante questo oggi nessuno è in grado di definire in maniera chiara i tratti "di ciò che sarà". Del resto nemmeno il servo della gleba avrebbe mai potuto immaginare un mondo senza il suo signore...eppure. Ho smesso quindi di pormi le domande che ancora non possono avere risposte e nello stesso tempo ho deciso, e questo posso già farlo, che non voglio più vivere nell'illusione che quello che vivo sia l'unico mondo possibile. Avere già solo coscienza di questo e cercare di trasmettere ad altri tale consapevolezza è quello che posso fare per aiutare coloro che un giorno il problema di definire nel concreto ciò che sarà dovranno affrontarlo nella pratica. Forse sono solo estraneo all'idea della fine della storia, di sicuro non sono un eroe o un gran pensatore di filosofie e di sistemi

      Saluti

      Costantino T.

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  3. Indipendentemente dalla ‘qualità’ dell’élite e della sua individuazione il tema contempla, come descritto in un caso, il principio di rappresentanza e di delega e quello connesso, essenziale e comunque, del controllo. E’ il numero dei soggetti però – e la loro definizione in massa,volgo,ecc. - che ci fa rimanere in considerazioni interessanti di carattere teorico ma in soluzioni ambigue per la loro applicazione pratica.
    Le élites, da qualunque origine sortiscano, devono essere sottoposte ad un controllo continuo che forse è attuabile in forme di organizzazione sociale precapitalistiche con alla base modelli di relazione studiati per evitare le concentrazioni di potere. Difficile modello per esperienze politiche che operano in società di massa a complessità elevata.

    Il futuro economico/politico non capitalista quando sarà, dovrà necessariamente avere in termini attuali una ‘applicazione globalizzata’.

    […] Rosa Luxenburg …. Ogni periodo forgia il suo materiale umano […].
    Osservo dalla mia prospettiva geriatrica una lenta ma costante perdita di memoria semantica e numerica, non vedo così prossima nelle nuove generazioni una transizione mentale anticipatrice della ‘necessità’.

    Saluti

    Laura B.

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  4. Confesso di sentirmi un po' braccato.
    https://youtu.be/Rsk5MEcVbJo

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  5. scusi, Malvino, ma lei da dove trae la certezza che esista un'elite che, all'ombra del potere ufficiale, possa governare un paese ? Non nego che ci siano sempre dei gruppi di potere che, nell'ombra, tentino di influenzare questa o quella scelta politica ma governare significa avere una visione complessiva, ragionevolmente coerente e stabile nel tempo. E un insieme di persone, non formalmente organizzato, dovrebbe essere in grado di esprimere e di far valere una tale visione ? Non credo.

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    1. Io mi sono limitato a prendere in considerazione un'ipotesi di scuola: la democrazia non regge se non c'è un'élite a limitare, a correggere, a indirizzare, eventualmente a opporsi al volere popolare. Ricorda quando, una dozzina d'anni fa, qualcuno affermava che non potessimo non dirci cristiani e che la legislazione corrente dovesse prenderne atto? Una centrale c'era, i mezzi li aveva, i risultati li ottenne. Aveva una visione complessiva, ragionevolmente coerente e stabile nel tempo? Sul piano dottrinario e su quello della strategia politica, sì. E' solo un esempio, ovviamente, e sono disposto a concederle sia un'eccezione, che altre élite - almeno in Italia - non esistano. Ma la mia polemica era più che altro indirizzata a chi sostiene la necessità di un'élite perché una democrazia sia possibile, a chi ogni volta che è frustrato dal risultato delle elezioni paventa una deriva autoritaria, il che è del tutto legittimo, per lamentare la mancanza di un'élite in grado di opporvisi.

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    2. Si può anche pensare che non sia necessario che un singolo o un gruppo abbiano una "visione complessiva", ma che basti un interesse comune per orientare i componenti di un'elite a scelte comuni.
      Sul potere, mi è sempre sembrato illuminante l'aneddoto sui cavalieri ungari raccontato da Antonio Gramsci (lo avrà letto anche Orbàn?) e le riflessioni che ne trae:
      «Non si capisce che in ogni situazione politica la parte attiva è sempre una minoranza, e che se questa, quando è seguita dalle moltitudini, non organizza stabilmente questo seguito, e viene dispersa, per un’occasione qualsiasi propizia alla minoranza avversa, tutto l’apparecchio si sfascia e se ne forma uno nuovo, in cui le vecchie moltitudini non contano nulla e non possono più muoversi e operare. Ciò che si chiamava «massa» è stata polverizzata in tanti atomi senza volontà e orientamento e una nuova «massa» si forma, anche se di volume inferiore alla prima, ma più compatta e resistente, che ha la funzione di impedire che la primitiva massa si riformi e diventi efficiente».
      https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2015/01/01/passato-e-presente-storia-dei-45-cavalieri-ungheresi/

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  6. io penso che il merito principale della democrazia sia quello di garantire l'esistenza di una società organizzata ma allo stesso tempo non governata. Insomma non c'è nessuno al timone ed è meglio così.

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  7. vorrei approfittare dell'occasione e dell'ospitalità per indicare qual è
    il limite filosofico di Marx, la mancata coscienza del quale condanna alcuni
    suoi epigoni (vedi sopra) ad una sorta di strano misticismo materialista con venature millenaristiche. Marx definisce l'uomo come l'animale che lavora e che
    produce. Grave errore antropologico. L'uomo è invece un animale che mangia
    (sfera fisica), che ama (sfera affettiva), che conosce. Tale è la natura umana
    e non c'è ragione di credere (o di augurarsi) che possa cambiare. Il progresso è
    dunque sempre e solo "tecnico". Nessuno conosce il futuro ma ciò che bisogna
    augurarsi è che possa continuare a mangiare ad amare e a conoscere con sempre
    meno rotture di coglioni a far da contorno.

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  8. Nonostante la stima per Malvino e sperando di averlo compreso, io resto invece della vecchia opinione di Churchill: per scegliere i migliori (o illuminati), non esiste ancora qualcosa di meno peggio del metodo democratico. Temo che nè l'esperienza, né l'immaginazione prospettino un tipo di selezione alternativa, che assicuri cioè una briciola di buona politica e di pace sociale in più. Nell’era moderna non si ricorda un'autocrazia (buia, o illuminata se ce n’è mai stata una) che per nascere e mantenersi non sia ricorsa a imposizioni, violenze, iniquità, ecc., tutte cose di cui l’umanità non ha bisogno e che non l’hanno mai illuminata. Ma neanche l’immaginazione aiuta a concepire un'élite illuminata precostituita "da un processo d’intercooptazione tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a quelle medie". Ma poi che significa? Chi, come, quando? E se invece di una se ne formassero due, tre, … cento di queste élite? Se invece si trattasse di cose banalissime, cioè delle élite che al mondo si “precostituiscono” da sempre ad ogni angolo di strada o di web? In fondo, circoli, partiti e sindacati politici di ogni epoca altro non incarnarono che quella velleità, al pari di organizzazioni deteriori come BR, Gladio, P2, Ordine Nuovo, ecc., che forse corrispondono a quella categoria di élite che ritiene “più opportuno esercitare il potere senza darlo da vedere”. Resta inoltre il fatto che, anche solo per definizione, non possiamo mettere sullo stesso piano un’élite illuminata autodefinitasi tale (e sempre che riesca a rimanerlo) e un governo democraticamente eletto da tutti. “Illuminata”, insomma, non significa un cazzo se l’élite non abbia prima chiarito in che senso, dimostrato di esserlo e guadagnato così la fiducia dei più. L’aggettivo, infine, puzza di stantio da un bel pezzo. Sa di concessioni elargite da un potere elitario, risoltosi a non tirare troppo la corda, ai diseredati che di esso e dei suoi lumi farebbero volentieri a meno.
    Ogni élite, non solo BR, Gladio, P2, ecc., ha in comune con le altre proprio una cosa: l’allergia alla democrazia, il rifiuto del giudizio collettivo e una gran passione per il proprio. Teniamone sempre ben conto. Chi poi innalza peana – e non mi riferisco a Malvino – per le “élite illuminate” in genere sottintende di farne parte, lui, e prova un genuino, intimo disprezzo, prima ancora che per la democrazia, per quanti nelle élite non hanno titolo per essere ricompresi, per il resto della gente, interessatamente ritenuta incapace di provvedere a se stessa. Se ci pensate è proprio da questo atteggiamento che deriva la crisi politica dei nostri giorni e non solo dei nostri. Cerchiamo piuttosto di tenercela stretta la democrazia, di non metterla a rischio, per la bella faccia del presuntuoso di turno, per poi doverci ritrovare col culo più in terra di prima.
    Sia chiaro che non potrei immaginare di meglio che essere smentito dal futuro avvento di un’élite illuminata, giusta, capace e onesta come di più non si potrebbe pretendere. Anzi, in quel caso potrei anche fregarmene del come essa possa riuscire a guadagnare il governo. E aggiungo di non essere contrario in modo assoluto all’autocrazia, sia essa espressione di un’élite illuminata, di una consuetudine o di una cerchia di potenti sopraffattori. L’essenziale è che sia io il re o il dittatore.

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