«I
comunisti che stanno in carcere?
Sarebbero
peggio dei fascisti. Perché almeno questi
sono
dei cialtroni e le bestialità che hanno in testa
le
fanno male, mentre quelli sono onesti e rigorosi
e
le bestialità le fanno bene»
Vitaliano
Brancati, Il
bell’Antonio
Anche
se il nostro patrimonio lessicale comprende un numero di voci che il
computo dei linguisti stima tra le 215.000 e le 270.000, raramente ci
si imbatte in chi correntemente ne impiega più di 7.500, mentre in
media se ne usano poco più di un migliaio, e il dato è in calo,
perché negli ultimi decenni è considerevolmente aumentato il numero
di quanti riescono a farsene bastare 300, a dispetto del tanto
digitare sulle tastiere di pc, tablet e smartphone, da cui ci si
poteva attendere che gli italiani traessero un arricchimento del
lemmario personale, come solitamente accade quando la comunicazione
si amplia e diventa più frequente. Attesa vana: si scrive assai più
di un tempo, ma in una lingua sempre più povera, refrattaria alla
scelta del più appropriato sinonimo di cosa, del verbo che
dia precisione al vago fare, dell’aggettivo che chiarisca se
con grande sia da intendere voluminoso o rilevante,
abbondante o importante.
Ai
lemmi d’uso più comune, ridotto a numero tanto esiguo, si
aggiungono, però, di tanto in tanto dei termini che godono di
un’improvvisa ed estesissima ancorché effimera fortuna, per
riaffondare di lì a poco, più o meno lentamente, nelle profondità
dell’inconsueto o del desueto dal quale erano stati pescati. In
questo modo accade che in un discorso pubblico sempre più piatto e
opaco, anonimo e incolore, caschi un termine che fin lì aveva avuto
incidenza solo episodica, per giunta assai datata.
Si
prenda fuffa, per esempio. Fino a vent’anni fa, era ignorata
perfino dal Treccani e dal Sabatini-Coletti. La si
trovava sul Devoto-Oli, dove però se ne contemplavano solo le
accezioni di «merce dozzinale, ciarpame, paccottiglia» e di
«chiacchiera senza alcun fondamento o significato»,
considerandola «voce onomatopeica di origine lombarda», con
ciò disconoscendo il significato originario di «ingarbugliamento
dei fili di una matassa» dal toscano «fuffigno», come
correttamente segnalato solo dal De Mauro. Poi, d’un tratto,
il termine appare in ogni dove, e così per due o tre lustri, mentre
oggi, invece, s’usa assai meno. Diremmo stia lentamente scivolando
nel démodé.
Démodé?
Possiamo sussumere nelle leggi della moda il processo che traccia la
parabola di popolarità di questi termini? Se sì, non è difficile
capire cosa ne decreti il declino: il lemma non ha le caratteristiche
necessarie per diventare un classico e, al pari del capo di
vestiario che non riesce a diventare un must nel guardaroba,
viene dismesso appena ha smesso di esser trendy. Ma cosa ne
decreta il successo? Qui le leggi della moda sono imperscrutabili,
consentono solo di essere intuite. Per fuffa, restando al
nostro esempio, deve aver senza dubbio avuto un peso il fatto che il
lemma suona bene, è insieme buffo e incisivo, dà efficace colore al
suo significato. In tal senso si apparenta alla locuzione francese à
gogo, che ebbe grande popolarità nei primi anni Settanta, basta
sfogliare i quotidiani e le riviste dell’epoca per ritrovarsela
dovunque. Ma cosa decreta il successo di termini che non hanno queste
caratteristiche? Perché d’un tratto escono dall’ombra per vivere
la loro breve stagione di gloria? Se mi si fa passare la metafora,
accade che dal baule degli abiti sotto naftalina ne venga tirato
fuori uno preconfezionato che riserva la piacevole sorpresa della
vestibilità di quello su misura. Fuor di metafora: è la
costellazione dei tratti che fanno il significato a cercare un
significante, e a trovarlo, quasi per caso, scoprendolo
sorprendentemente aderente. In altri termini, la realtà produce un
evento, dà vita a un modello, si struttura in una situazione, che
non riescono a farsi bastare nemmeno in perifrasi i 300 o i 1.000
lemmi più comunemente usati per darsi un’adeguata definizione;
poi, all’improvviso, dal dizionario spunta il lemma che in due o
tre sillabe riesce a darne la sostanza per intero.
Anche
qui non sarà inutile ricorrere a un esempio. Prenderemo il termine
cialtrone
che da alcuni mesi furoreggia dappertutto.
Nella
persona del cialtrone
confluiscono ben sei caratteri, e tutti ben distinti, come è reso
evidente dall’impossibilità
di trovare sovrapposizione o interscambialità tra i relativi
sinomini:
- è
innanzitutto persona che mostra assai poca correttezza nei confronti
del prossimo, e senza farsi scrupolo di arrivare al dolo (è
imbroglione,
mascalzone,
furfante,
lestofante,
ecc.);
- né
si dà cura nel conferire almeno un minimo di plausibilità
all’impostura,
che è lo strumento di cui fa più frequente uso (è impudente,
volgare,
sfacciato,
villano,
ecc.);
- impostura
che è quasi interamente affidata alla sua ciarla (è linguacciuto,
parolaio,
vaniloquente,
ecc.);
- un
ciarlare che per lo più è un millantare (è spaccone,
pallista,
borioso,
spocchioso,
ecc.), e che si rivela tale nella vistosità di due difetti:
- il
cialtrone
è sciatto,
trasandato,
pasticcione,
abborracciatore,
ciabattone,
ecc.;
- ed
è indolente,
fannullone,
poltrone,
scansafatiche,
ecc.
D’etimo
incerto, c’è
chi ipotizza sia un incrocio tra ciarlone
e poltrone
(De
Mauro,
Devoto-Oli,
Casalegno-Goffi),
ma è evidente che la sua persona non possa esaurirsi in questi due
soli aspetti, sicché, se fosse esatta l’ipotesi,
si dovrebbe supporre che la persona del cialtrone
sia venuta a costruirsi attorno a quel nucleo. Cosa le avrebbe
conferito il resto? Dar carriera a quei due vizi morali: da ciarlone
farsi ciarlatano,
riscoprire in poltrone
la variante di paltone
(accattone),
diventare impostura ambulante per il mondo, tra immeritate fortune e
rovinosi rovesci, per guadagnare l’infamia
della persona «di
volgarità sudicia e moralmente vile»
(Tommaseo),
«volgare
e spregevole, priva di serietà e correttezza nei rapporti umani o
che manca di parola negli affari»
(Devoto-Oli),
che «ricorre
a trucchi scoperti per giustificarsi»
(Sabatini-Coletti).
Tanto
scoperti, i suoi trucchi, da rendere di regola la sua impostura assai
irritante, ma talvolta anche divertente. Nel primo caso, il cialtrone
è
sentito come minaccia sociale, perché della risma dei gabbapopoli
(un esempio ne Il
viaggio di un ignorante
di Giovanni Rajberti, del 1854, dove il cialtrone
è per la prima volta accostato al populista,
ovviamente ante
litteram);
nel secondo, la maldestrezza dei suoi mezzucci muove a una sorta di
tenerezza (si pensi al «sofisticato
cialtrone»
affibbiato a Vincino nel necrologio de Il
Foglio).
Diremmo che l’abiezione
che bolla il cialtrone
mira a condannare innanzitutto l’offesa
che ci fa col ritenere di poterci abbindolare con eccessiva facilità:
è un impostore che sottovaluta le nostre capacità di difesa
all’impostura,
e dunque merita due volte il nostro disprezzo.
Qui
possiamo richiamare l’assunto
relativo alle ragioni che decretano l’improvviso
ed enorme successo che un termine inconsueto o desueto viene a
riscuotere in un determinato momento, chiedendoci quale sia l’evento,
il modello, la situazione che trovano in cialtrone
la felice soluzione lessicale. Domanda superflua, basta considerare
in quale contesto si registra la più frequente ricorrenza del
termine: cialtroni sono i grillini: imbroglioni e villani, parolai e
spacconi, fannulloni e pasticcioni.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, potrà dare un senso al brano tratto da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati posto in esergo, chiedersi se la soluzione lessicale, di cui qui si è cercato di spiegare la ragione, non esprima nel profondo un bisogno di «bestialità fatte bene».