domenica 13 ottobre 2019

Hanno tutti ragione? / 3


«Ciambellano del nulla, avanzo di segreteria,
ti ricordi com’eri bello quando cercavi una sistemazione?
Professionista dell’amicizia e della compassione.
Sempre meglio di adesso che vai girando come una sciantosa,
che non sei niente, ma fai di tutto per sembrare qualcosa»
Francesco De Gregori, Vecchi amici (1992)



3. Arrivato neanche a un settimo di quanto avrei da dire su Hanno tutti ragione?, ridò voce alla domanda che Bentham immagina gli ponga il lettore: «Se non metteva conto di occuparsene, perché perderci tanto tempo?». La risposta a chi me la ponesse già dopo i primi due dei quindici paragrafetti previsti – tranquillo, lettore, altri due o tre e anch’io mi annoierò, abbandonando il piano d’opera – è la seguente: il libricino mi ha enormemente irritato per la sua sfacciata malafede, peraltro fieramente esibita in quarta di copertina, dove si legge che «Adinolfi prova a fornire argomenti per ricostruire il rapporto tra verità e democrazia».
Ma quando mai c’è stato, questo rapporto? Se hai una «verità», non hai più bisogno di decidere, basta e avanza conformarti ad essa: in più, se è proprio «verità», cioè eterna, universale e incontestabile, questo non vale solo per te, ma per tutti, e per sempre, rendendo superflui ogni confronto, ogni discussione, ogni decisione messa ai voti: rendendo superflua la democrazia, anzi, di più, rendendola sacrilega, perché è evidente che, per sua natura, la «verità» può essere solo antecedente e superiore alluomo o, tuttal più, intrinseca allordine creaturale in cui luomo è inscritto. Quandanche non si tiri in ballo Dio, la «verità» ne surroga il senso, e dunque chi sostiene di possederla, o anche soltanto di avere gli strumenti per meglio approssimarla, si sente in pieno diritto di governare il mondo, e la pretesa sostanzialmente è di stampo teocratico. Poi, certo, a fronte del fatto che avanzare seriamente la pretesa gli costerebbe l’essere fatto bersaglio di fumanti palle di letame, è costretto a schermirla in modo gigionesco, senza tuttavia riuscire a celare lindispettimento per lo «scomodo» che impone il dover sta lì ad argomentare perché la sua «verità» sia la vera Verità, quando è evidente che non può essere altrimenti per il solo fatto che a profferirla è chi ne ha la «scienza».


Iniziando a parlare di Hanno tutti ragione?, ho detto che il mio intento non voleva essere pedagogico, perché le fallacie di cui trabocca sono talmente scoperte da non aver bisogno di essere segnalate come tali. La più evidente è proprio quella che intende dar ragione del perché sia necessario «ricostruire il rapporto tra verità e democrazia», peraltro subito dopo aver concesso che «è indispensabile, per amore della pace e della concordia sociale, rinunciare a una rivendicazione “assoluta” e accettare che le diverse verità vengano relativizzate» (pag. 14): sarebbe necessario perché, «da un lato, condividiamo la convinzione che il processo democratico lascia ciascuno libero di credere qualunque cosa, e prendiamo anzi precauzioni perché nessuna opinione sia imposta in nome della verità; dallaltro, lamentiamo come oggi la verità stessa non sia tenuta in alcuna considerazione» (pag. 17).
Patetico trucchetto, quello di usare un «noi» che intenderebbe denunciare una contraddizione nellassunzione – insieme – di «condividiamo» e «lamentiamo», ma in realtà chi è che davvero può lamentare che una verità assoluta non splenda indiscussa sulle nostre vite, pur condividendo il principio democratico che di ogni «verità» fa unopinione? Solo chi ritiene inammissibile che la propria «verità» possa risultare opinione minoritaria nel confronto democratico, e dunque lo accetta, per dirsene convinto assertore e sostenitore, se la propria opinione ne esce vincente, pronto però a metterlo in discussione, se dalla conta esce perdente.
Pronto, qui, a metterlo in discussione con un broncio che, ai tempi in cui era ancora un blogger, Massimo Adinolfi dichiarava inutile se non svantaggioso, facendo sua una frase di Robert Musil che campeggiava in homepage («Non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno»): è evidente che deve aver trovato modo di cavarne qualche vantaggio, daltronde in tempi di crisi il Tempio è sempre stato in grado di reclutare qualche «filosofo in missione per conto di Dio» (definizione che Simone Regazzoni ha affibbiato a Maurizio Ferraris, anche lui orfano della verità detronizzata e decapitata dalla inferocita plebe della post-modernità).

Ma cosa ci dovrebbe far rimpiangere i tempi in cui le società erano illuminate dalle verità dei filosofi (niente virgolette, qui, né per l’una, né per gli altri) del tipo che l’«a-tomo» è inscindibile (Democrito), che «per natura» alcuni sono liberi e altri schiavi (Aristotele) e che in quanto privi di ragione e di coscienza gli animali non provano dolore (Cartesio)? Il fatto che oggi un tizio può permettersi di dire che la terra è piatta. Per inciso, come lo diceva Anassimandro, filosofo.
Dovrebbe essere evidente che non può essere il sapere filosofico a fare la differenza tra puttanata e no, salvo a voler mettere un prima e un dopo nella storia della filosofia, sulla falsariga dell’abisso che separa la democrazia degli antichi da quella dei moderni. Ma conviene al filosofo? Mi spiego: fosse possibile farlo, cosa consentirebbe (sulla base della convinzione che «alcuni hanno ragione e alcuni hanno torto») di poter affermare che il modello geocentrico del cielo aristotelico è inservibile e quello della sua metafisica rimane valido? Basta riandare a quello che abbiamo detto circa il dibattito scientifico e quello filosofico nel paragrafo 1., ribadendo che la filosofia, in quanto «scienza della verità», è costretta a ritrarsi sempre più nell’empiricamente indimostrabile per poter salvaguardare il suo peraltro sempre più ristretto dominio.
Detto più prosaicamente: il filosofo può ormai esser sereno solo quando resta nel teoretico, e cioè in quel campo della conoscenza dove lurgenza del veritativo trova soddisfazione nellastrazione metafisica. È per questo che Hanno tutti ragione? non potrebbe muovere un passo oltre lartificioso paradosso costruito su un «noi» che è democratico e – insieme – anela allassoluto della verità, senza servirsi dei trampoli della filosofia teoretica. Sui quali Massimo Adinolfi si muove con grande disinvoltura per una ventina di paginette, ma solo per ritrovarsi nel punto da cui era partito: «Per difendere la democrazia, non occorre che sia istituito un Ufficio Centrale, che metta a disposizione del pubblico un immaginario Catalogo Completo dei Fatti Accertati, così che almeno una certa porzione di verità sia posta fuori discussione [non sia mai detto che il «vero» si riduca all«accertato», significherebbe vincolare la «verità» alla provvisorietà del dato scientificamente desunto]; è invece necessario che sia viva, nelle istituzioni e in capo ai singoli individui, una solida infrastruttura intellettuale che consente la più ampia, e pubblica, circolazione delle idee, che favorisca il confronto e, se necessario, anche il conflitto delle interpretazioni. Non uffici centrali, quindi, ma giornali, scuole, università, teatri, luoghi, insomma, in cui idee e modi di vedere il mondo possano mescolarsi e se è il caso sfidarsi. Una simile cura deve appartenere al singolo individuo, e alla società nel suo insieme. La prima, individuale, comporta una responsabilità di ordine morale; la seconda, collettiva, comporta una responsabilità di ordine politico» (pag. 37).
Ci è consentito un sospiro di sollievo: il filosofo non è intenzionato a governare il mondo a colpi di randello, chiede solo gli sia data la supervisione della «infrastruttura intellettuale» che informa la morale e la politica. Più che un governatore, un tutore.

[segue]

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