lunedì 6 gennaio 2020

La morte di Luigi Calabresi





«La verità sulle questioni cruciali
appare esclusivamente tra le righe»
Leo Strauss



Una premessa alla premessa
Attenzione, il titolo di questa pagina è ingannevole!

Chiarimento della premessa alla premessa
Mettiamo caso andiate a teatro. Danno il Giulio Cesare di William Shakespeare. Ci andate in compagnia di un conoscente che sa tutto della Roma dei tempi di Cesare e dell’Inghilterra dei tempi di Shakespeare, e che a cena, dopo lo spettacolo, vi intrattiene in cento e cento note a pie’ di testo. Dice che, ai tempi di Cesare, la pederastia era ampiamente tollerata e non era affatto raro che il pederasta finisse con l’adottare il ragazzo cui si era affezionato: «Conosciamo i gusti sessuali di Cesare, non è da escludere che l’adozione di Bruto...». Poi passa a Shakespeare, dice che in molti suoi sonetti sono evidenti forti indizi di omosessualità: «Prendi il n. 20, per esempio, con quel “Master Mistress of my passion”...». Mettiamo che torniate a casa, andiate a letto e sogniate di Cesare, e di Bruto, e di Cassio, e di Marco Antonio. Il fatto è che i personaggi della tragedia sono gli stessi che avete visto qualche ora prima, ma nel sogno la vicenda scorre in tutt’altro modo. L’indovino, per esempio, dice a Cesare di guardarsi dalle idi di agosto, e dice proprio «agosto», il che è del tutto inverosimile, perché, ai tempi di Cesare, «agosto» è ancora «sestile» (lo diventerà solo una ventina d’anni dopo la sua morte, in onore di Augusto, che peraltro in quel momento neanche è «Augusto», ma ancora Gaio Ottavio). Cesare, poi, non viene pugnalato, ma freddato con due colpi di pistola. Idem per l’oratio funebris di Marco Antonio: più che aizzare il popolo contro i cospiratori, sembra voler calmar le acque, roba del tipo «vabbè, è andata, e certo non è stata cosa bella, non si fa, ma adesso che vogliamo fare, un’altra guerra civile come quella dei tempi di Mario e Silla?». Non basta, perché su tutta vicenda, nel sogno, sentite che aleggia una pesante ambiguità, come se i moventi dell’assassinio di Cesare fossero tutti passionali, segnati da una sottintesa trama di relazioni omosessuali: perdutamente innamorato di Bruto, Cassio cerca di portarlo via a Cesare; Marco Antonio, che fin lì di Cassio è stato amante, cerca di far capire a Cesare cosa stia accadendo a sua insaputa; Bruto non sa cosa fare, volentieri cederebbe alle attenzioni di Cassio, però i sensi di colpa lo frenano. Quasi un erotic thriller, diciamo, non fosse che tutto è tanto sottinteso da poter passare per allegoria politica.
Non vi è del tutto chiaro, vero? Perfetto, procediamo.
Mettiamo che al risveglio vi venga voglia di annotare da qualche parte il sogno che avete fatto, e che alla pagina decidiate di mettere un titolo, e che La morte di Giulio Cesare vi possa sembrare vada bene, perché in fondo è della sua morte che avete sognato. Però mettetevi nei panni di chi abbia a trovarsi tra le mani quella pagina: il titolo rimanda alla Roma del 44 a.C., ma l’incipit dà voce a un Marullo che rimanda a The Tragedy of Julius Caesar (Atto I, Scena I); è chiaro, dunque, che la pagina rimanda alla trasfigurazione artistica di una vicenda storica, se non fosse che anche quella deve aver subito una trasfigurazione, perché Marullo cita brani da Die Geschäfte des Herrn Julius Cäsar di Brecht; «sarà una fiction», penserà a quel punto chi legge, ma qui sorge un problema, perché in esergo alla pagina c’è una frase tratta da Persecution and the art of writing di Leo Strauss, che parrebbe insinuare che la fiction sta solo nell’aver confezionato la pagina come annotazione di un sogno, che in realtà non avete fatto.
Niente affatto chiaro, vero? Benissimo, procediamo.

Premessa
Quando fu ucciso Luigi Calabresi, avevo quindici anni. A quei tempi ero iscritto alla Fgci e, fra i sei o sette quotidiani cui la sezione del Pci che ci ospitava era abbonata, c’era pure Lotta Continua (non stupisca, c’era pure Il Secolo d’Italia, in ossequio al principio che «il nemico va studiato»), sulla quale, qualche giorno dopo quell’omicidio, lessi che doveva essere inteso come «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». La cosa mi colpì particolarmente (si tenga conto ai quei tempi ancora non s’era inaugurata la stagione di caccia al servitore dello Stato, che di lì a poco avrebbe visto in gara estremisti di destra e di sinistra a chi di più riempiva il carniere), perché, in buona sostanza, ci leggevo la fierezza del boia. Un boia molto sui generis, ovviamente, perché quando ti senti avanguardia degli «sfruttati», fai tua la loro «volontà di giustizia», additi in un tizio il loro «nemico», e scrivi «gli siamo alle costole», «dovrà rispondere di tutto», «di questi nemici del popolo vogliamo la morte» (Lotta Continua, 6.6.1970), non cè bisogno che tu lo sia materialmente.
Impressione, questa, che non sono mai più riuscito a rimuovere nei decenni trascorsi fin qui, e che, pur nella convinzione che le responsabilità penali di quellomicidio siano state attribuite a Sofri, Pietrostefani e Bompressi in modo assai opinabile, quelle morali e politiche, una volta tanto coincidenti, fossero tutte da ascrivere a Lotta Continua, come daltronde, seppur decenni dopo, gli stessi dirigenti della formazione politica si dichiararono disposti a concedere. Che Calabresi avesse ucciso Pinelli, sia chiaro, era un fatto che a quei tempi non era solo Lotta Continua a dar per certo – a tratteggiare il contesto basta pensare a un film come Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) e a una commedia come Morte accidentale di un anarchico (Dario Fo, 1970) – e tuttavia nessun altro in quella vicenda ebbe ad arrogarsi, insieme, il ruolo di pubblico accusatore, di giudice e, se non proprio di boia per quanto già detto, di suo mandante. Da un quindicenne, però, capirete, non si può pretendere troppa finezza di distinguo.
Uscito da quegli anni, teatro di mille altre nefandezze, quella rimaneva un chiodo fisso, al quale appendevo via via tutto ciò che se ne diceva e scriveva. Poi, un giorno, quando già da un pezzo Sofri e Bompressi erano in carcere e Pietrostefani in Francia, mi ritrovai a parlarne con Bordin, uno che della sinistra extraparlamentare degli anni 70 era più esperto di quanto Mommsen lo fosse della Roma del 44 a.C., però con quel di più di conoscenza «minuta» sulla quale la storiografia ha saputo darci lumi solo da Bloch in poi. Nella Römische Geschichte, infatti, non troverete traccia di cosa usassero i romani al posto della carta igienica, né ne L’orda d’oro di Balestrini e Moroni chi fosse il miglior pokerista dell’avanguardia proletaria. Bordin, invece, sapeva tutto di tutti, e alla terza grappa era un fiume in piena. Il fesso che sta a sentinella del buonsenso li avrebbe definiti pettegolezzi, fatto sta che quegli incredibili ritratti umani e quelle ancor più incredibili vicende personali davano modo di comprendere il «method» di tutta quella «madness», sicché sembrava di poter cogliere il cosiddetto «fattore umano» dei cosiddetti «anni di piombo», e – voilà! – perdeva senso chiedersi se Barbone avesse ucciso Tobagi perché manovrato da qualcuno che lavorava al Corriere della Sera o perché pensava che quell’omicidio gli avrebbe fatto maturare credito per diventare un capocolonna delle Br: «Lasci da parte il “perché”, Castaldi, e guardi il “chi”: si “pente” due minuti dopo l’arresto».
Così sullomicidio Calabresi. Sarà stato nel 2005 o nel 2006, non lho annotato, ma di certo era estate, perché nella bella stagione uno dei ristoranti dove eravamo soliti pranzare piazzava una mezza dozzina di tavoli nel suo cortile interno coperto da un bel pergolato, dove era possibile fumare, e ho ben chiaro il ricordo che in quelloccasione fossimo allaperto. Poi cè che ogni volta che ci incontravamo ero solito portargli in dono un libro, ma solo per imbarazzarlo, perché di regola erano del tutto astrusi ai suoi interessi ed era delizioso vedere la sua reazione al mio «è un classico, ma sono certo che le manca». Giacché la volta prima, al Momo di Leon Battista Alberti, mi aveva detto: «Questi non sono doni, sono accuse di ignoranza», quel giorno gli porsi lopera omnia di Spinoza dicendo: «Guardi come la copertina di questo Meridiano si intona bene alla sua giacca». Una delle sue peggiori giacche, occorre dire, però dun celestino decisamente estivo. E visto che fu proprio da Spinoza che partì la discussione, cioè, per meglio dire, la sua lectio magistralis sul caso Sofri, sì, si era in estate o sarà stato tuttal più maggio o settembre, agosto certamente no, perché ad agosto non ci incontravamo mai.
Mi sto perdendo nei dettagli, vero? Ok, salto Spinoza e arrivo subito a quelle nove o dieci frasi dette nello stile terso e vivace che lo rendevano tanto amabile.
«È un errore pensare che gli omicidi degli Anni di piombo siano stati ideati da menti diaboliche. Rammenta cosa ha scritto Massimo Fini poco tempo fa in quell’articolo che ha fatto tanto incazzare Oreste Scalzone? Riuscita l’analisi del contesto, ma il fatto che anche lui creda a Leonardo Marino... Inconcepibile! Delitti come quello di Calabresi si spiegano in modo assai più semplice. E direi che è proprio questa semplicità che li fa tragici. La cosa non deve essere stata poi tanto diversa dall’omicidio Pecorelli, solo che in quel caso Andreotti può aver detto “O.P. sta a ròmpe er cazzo”, mentre Lotta Continua ha scritto “Calabresi è un assassino e pagherà”. Un cretino, uno zelota, un picciotto che vuole diventare capomandamento – non ha importa cosa – si sente investito di un mandato, e Andreotti e Sofri di botto diventano mandanti? Cazzate. A mio modesto avviso, a uccidere Calabresi è stato un militante di Lotta Continua che faceva parte del servizio d’ordine, ma non a Milano...».
E qui fece un nome, ma, subito pentito daverlo fatto, aggiunse: «Si tratta solo di un’ipotesi, ovviamente». E non sembrò bastasse, perché seguì: «Conto sul fatto che lei dimentichi quel che ho detto». Risposi: «Proverò. In caso contrario potrà sempre dire che me lo son sognato: lei gode di ottima reputazione, io no».

Materiali e metodo
«La persecuzione dà luogo a una particolare tecnica letteraria, in cui la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe. Questa letteratura è indirizzata non già al lettore qualunque, bensì esclusivamente al lettore fidato e intelligente. Ha tutti i vantaggi della comunicazione privata (di raggiungere, cioè, soltanto i conoscenti dell’autore); gode i vantaggi della comunicazione pubblica, senza sottostare al suo svantaggio più rimarchevole (cioè, la pena capitale per l’autore). Ma come è possibile inverare, pubblicando i propri scritti, un tale miracolo: quello, cioè, di parlare a una minoranza restando però muti per la maggioranza dei lettori? […] Tono tranquillo, senza dare spettacolo e, anzi, perfino un po’ annoiato, in modo tale da ottenere un effetto di assoluta naturalezza […] Abbonderebbe in citazioni e attribuirebbe una importanza spropositata a dettagli insignificanti […] Ma una volta arrivato al cuore dell’argomentazione, allora scriverebbe tre o quattro frasi in quello stile terso e vivace che è in grado di attrarre l’attenzione di chi ama pensare» (Leo Strauss – Persecution and the art of writing).
«Nella copia che Bach inviò al re, sulla pagina che precede il primo foglio di musica, c’era la seguente scritta: “Regis Iussu Cantio Et Reliquia Canonica Arte Resoluta”» (Douglas Hofstader – Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante).

Sviluppo
Lultimo scorcio del 2019 ci ha offerto su Il Foglio un interessante battibecco tra Adriano Sofri e Giampiero Mughini sul dettaglio che ha avuto ruolo centrale lungo tutto liter processuale esitato in via definitiva con la condanna di Sofri e Pietrostefani come mandanti e di Bompressi come esecutore, in concorso con Marino: il 13 maggio 1972, al comizio in conclusione al quale sarebbe stato mandato a Marino, piovve, non piovve o prima piovve e poi spiovve? Interessante per modo di dire, perché, con tutte le incongruità di cui son state infarcite le versioni date da Marino, è incredibile che sia ancora questo il punto ritenuto decisivo, a fronte del fatto che Pietrostefani non era a Pisa il 13 maggio, come invece a lungo sostenuto da Marino, e molto probabilmente Bompressi neppure era a Milano il 17 maggio, tanto più che alla guida dellauto con la quale il riccioluto Marino affermava di aver condotto Bompressi in via Cherubini più dun testimone riferiva di aver visto un tizio dai capelli lunghi e lisci, forse una donna, mentre al posto di un Bompressi dai capelli scuri, dalla pelle olivastra e alto quasi un metro e novanta cera un sempronio dalla carnagione chiara, coi capelli di color castano chiaro, alto intorno al metro e settantacinque. Anche in questa occasione, d’altronde, Sofri ribadisce che «la pioggia non era affatto un motivo per sostenere che io non avessi incontrato il mio accusatore»: poteva averlo incontrato, certo, ma questo non provava che gli avesse conferito il mandato di uccidere Calabresi.
Un processo costruito tutto sulle dichiarazioni di un pentito manifestamente inattendibile, costretto a rettificare di continuo le innumerevoli contraddizioni della sua versione iniziale con aggiustamenti ancor più contraddittori, senza mai riuscire a offrire dati di riscontro certi, sennò offrendone di risibili. E questo a voler sorvolare sulla genuinità degli scrupoli morali che egli diceva fossero ragione del suo pentimento, e ancor più su come i suoi ricordi furono rappezzati alla meno peggio in una caserma dei carabinieri a confezionare unipotesi accusatoria che poteva reggere solo a volergli credere comunque, qualsiasi cosa dicesse. Non era il caso di invocare lo stato di diritto, bastava appoggiarsi alla sola logica e i tre andavano assolti. E invece furono condannati.
Come fu possibile? Qui un accanito anticomplottista come Bordin ipotizzava un complotto. Semplifico, ovviamente, perché lui era in grado di porgere lipotesi in modo assai più elegante: Sofri era vicinissimo al Psi, in particolare a Martelli; tra Pci e Psi si andava a preparare uno scontro senza esclusioni di colpi che avrebbe visto il culmine in Mani pulite; la magistratura era schierata quasi tutta col Pci; e poi Sofri era una pedina da sacrificare senza farsi troppo scrupoli perché «antipatico», come finì per farsi scappar di bocca pure il pm che sosteneva laccusa al processo dappello del 1990. Dellipotesi di Bordin solo questultimo punto mi è sempre sembrato solido e – so bene che sto per fare unaffermazione scandalosa – perfino sufficiente, qui in Italia, a maldisporre un giudice alle ragioni della difesa. Quindi, di là dal fatto che a qualcuno Sofri sarà simpatico e a qualcuno no, non sarà superfluo porsi il problema di quali fossero gli elementi che potessero generare questa fatale antipatia. Qui torna utile larticolo di Fini cui faceva cenno Bordin.
«Negli anni Settanta tutta l’“intellighentia” italiana si era spostata allestrema sinistra. Non cera intellettuale, scrittore, giornalista (con leccezione di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da terza pagina del Corriere, mondana, mignottina da salotto che non si dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali, aveva seguito londa. Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande maggioranza, “figli di famiglia”, erano figli suoi e se li coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo […] Del resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una vittima al giorno e altre ne “gambizzava” come si diceva allora con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono “né con lo Stato né con le Br”. [...] La magistratura non poteva indagare nella galassia dellestremismo extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dallunanime coro della “montatura”, della “provocazione”, del “complotto”. Le piste dovevano essere sempre e solo “nere”. […] Persino per lomicidio Calabresi si preferì imboccare la strada delle “piste nere” e perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente, lassassinio e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da tutto lambiente di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio, aveva un “livello illegale” che si occupava quantomeno di far delle rapine, per finanziare, oltre che con gli “espropri proletari”, il gruppo. [...] Ma al processo Sofri, Pietrostefani e Bompressi negarono anche lesistenza del “livello illegale”, anche levidenza, e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti».
Si può essere daccordo o no con questo spaccato sociologico, di fatto, dopo la Marcia dei Quarantamila del 1980 e dopo il referendum sulla scala mobile del 1985, il clima cambia di colpo, lanelito rivoluzionario accusa un repentino riflusso, e – prosegue Fini – «questi rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a telefonare alle loro amiche per organizzare feste in qualche bella villa, [...] non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori, i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente distribuiti fra destra e sinistra».
Comprensibile che questo fosse intollerabile per chi non poteva digerirli prima, ma ancor più comprensibile che questo generasse risentimento, per esempio, in un Marino, che non era riuscito a riciclarsi come un Liguori, un Panella, un Deaglio, un Guarini, un Capuozzo, un Miccichè, un Vincino, tutti un tempo lottacontinuisti come lui. Ben lungi da essere un dato di riscontro oggettivabile, dunque, l«antipatia» di Sofri bastava e avanzava per chiamarlo a pagare in nome e per conto di tutti quelli che lo avevano avuto a leader carismatico. Può far orrore, anzi, deve, ma, al pari della «giustizia proletaria» che non riuscì a trovare altra forma che quella della vendetta per chiudere i conti con la morte di Pinelli, floppando, anche la «giustizia borghese» non trovò di meglio per chiudere i conti con la morte di Calabresi, con un altro flop: la responsabilità morale e quella politica dovevano coincidere con quella penale, Marino dove esser creduto, perché, seppure quel 17 maggio 1972 in via Cherubini non cerano stati lui e Bompressi, qualcun altro cera stato, e il mandato non gli era stato dato a Pisa quattro giorni prima, ma comunque da Sofri, dalle pagine di Lotta Continua. Ma ripeto: può far orrore, anzi, deve.

Annotazione di un sogno
Tornato a Napoli, quella notte sognai. E sognai chi a pranzo Bordin mi aveva detto fosse per lui il vero assassino di Calabresi. Mi fissò coi suoi occhi azzurri e disse: «Gli hai creduto? Sbagli».