domenica 9 febbraio 2020

Bisogna andarci cauti, col denigrare l’odio


Mercoledì 29 gennaio, a Palazzo Chigi, Paola Pisano, Ministro per l’Innovazione Tecnologica, Alfonso Bonafede, Ministro della Giustizia, e Andrea Martella, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, hanno dato vita, con apposito decreto, a qualcosa tra una think tank e una task force che indagherà sull’odio in rete e studierà soluzioni per contrastarlo: lo apprendo da La Verità di venerdì 31 gennaio, cui mi rimanda un post col quale Massimo Mantellini, uno dei chiamati a farne parte, lamenta che «all’annuncio di una simile commissione è seguito l’usuale tiro al bersaglio della stampa di destra (oltre che quello più sotterraneo degli esclusi dall’ambito circoletto) sui nomi degli esperti scelti, quelli che Francesco Borgonovo su La Verità ha definito, non senza una certa fantasia, “psicopoliziotti”, dedicando ad ognuno di noi un agile commento, per altro utilissimo ad identificarci come possibili bersagli».
Ora c’è che l’odio in rete è da qualche tempo oggetto di un dibattito che a me pare impostato nel peggiore dei modi, destinato a consumarsi in un vuoto parlar tra sordi, se tenuto al tavolo dove le opposte opinioni si limitano al confronto, ma pronto a trasformarsi in rissa, laddove una delle due abbia pretesa di tagliar corto, forte della possibilità di imporsi, non importa se con un decreto governativo o con un nodoso randello, soprattutto se in nome di quel bene comune che è sempre proiezione del bene di qualcuno. Anche sullodio in rete, infatti, si dibatte senza quel preliminare accordo su cosa esattamente sia loggetto del dibattere che entrambe le parti danno per superfluo, perché saldamente convinte che non possa essere altro da ciò che ritengono. Cosaltro mai può essere, lodio, se non quello che io chiamo odio? E come può essere altra cosa da ciò che anche gli altri chiamano odio, visto che non sanno dargli un altro nome? Evidente il vizio logico che segna questa certezza, che segna al contempo l’articolo di Borgonovo e il post di Mantellini. So bene che mi beccherò l’accusa di indifferentismo etico e politico per aver messo sullo stesso piano le ragioni delluno e dellaltro, ma, prima di passare a prendere in considerazione le une e le altre, vorrei far presente che la mia opinione sullodio in rete non sta nel mezzo, ma semplicemente alla larga da entrambe.

E dunque. Inizierei con l’esprimere a Mantellini i sensi della mia piena solidarietà, cui mi muovono la tanta stima e il pizzico di affetto che nutro per lui da tempo, a dispetto del raro condividerne gusti e opinioni, ma che qui sarebbe comunque dovuta, e che dunque esprimo anche agli altri quindici «espertoni», come li chiama Borgonovo col manifesto intento di esporli alla canea dei suoi lettori: non ne conosco neppure uno, ma anche a loro l’articolo de La Verità non risparmia un livoroso malanimo, mosso da evidente tendenziosità, che c’è da supporre avrebbe avuto a oggetto chiunque altro fosse entrato a far parte del gruppo di studio voluto dal Governo.
Qui, però, occorre essere onesti: «il gruppo di vigilantes del Governo è composto quasi interamente – come afferma Borgonovo – da uomini e donne di sinistra, alcuni dei quali dichiaratamente ostili alla Destra o almeno alla Lega»? Se sì, mi pare sia evidente che, come è legittimo che un Governo scelga per consulente chi ritiene possa tornargli più utile a un certo scopo, è altrettanto legittimo che chi fa opposizione a quel Governo contesti in quella scelta lo scopo. Giacché lo scopo dichiarato, qui, è quello di combattere «il linguaggio d’odio e la tendenza alla sua esibizione e amplificazione nell’ecosistema digitale» (Andrea Martella), si può concedere alle opposizioni il dubbio che i «vigilantes» possano essere più sensibili a un #boldrinitroia che a un #salvinimerda?
Su Mantellini io non ho dubbi: riterrebbe inaccettabili entrambi gli hashtag, li segnalerebbe entrambi come inquinanti dell’ecosistema digitale. Ma gli è così difficile capire che, per il solo fatto di essere stato scelto da una fazione in campo, l’altra lo avverta come avversario e, alla ricerca di qualcosa che gliene dia conferma, possa esser certo di averla trovata in un «Salvini fa schifo» che ha twittato meno di un mese fa? Non era l’odio a farglielo twittare, mi giocherei un testicolo, ma perché fa tanta fatica a comprendere che, in mancanza di un preliminare accordo su cosa esattamente l’odio sia, Borgonovo è autorizzato a credere che fra i membri della commissione chiamata a bonificare l’ecosistema digitale dall’hate speech sieda pure chi ne fa uso e che dunque lo sia scelto per quel compito, più che per le sue preclare competenze su tutto ciò che è web, per l’essere politicamente fedele a una delle due fazioni in campo?
Ma è probabile che anche altro abbia concorso a dare questa certezza a Borgonovo, lo colgo nel suo tenere a sottolinear il fatto che gli «espertoni» presteranno le loro competenze a gratis. Superfluo dire che questo è molto bello, soprattutto tenuto conto che oggi nessuno fa niente per niente. E tuttavia l’incidentale «e ci mancherebbe altro», che nell’articolo de La Verità vi cade a commento, solleva un problema: se i sedici consulenti non sono organici all’area culturale e politica che trova espressione nelle linee programmatiche del Governo, perché non farsi pagare per quella che in fondo è una prestazione professionale che è sacrosanto abbia un compenso al pari di ogni lavoro? Probabilmente si trattava di una clausola che il decreto governativo poneva a condizione dell’entrare a far parte della commissione: bene, perché accettarla? Non ne sono certo, ma il suddetto «e ci mancherebbe altro» e il cenno che Mantellini fa alle invidie di cui hanno dato segno gli «esclusi dall’ambito circoletto» mi fanno pensare che queste consulenze, ancorché gratuite, o forse proprio perché gratuite, facciano punteggio nel far maturare credito di fedeltà a chi di consulenze vive o di poterne vivere spera: per il ruolo che i partiti continuano ad avere in Italia, anche se solo residuale rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli anni della Prima Repubblica, probabilmente l’apprendistato non retribuito serve ancora a guadagnare il posto fisso alla corte del principe. Nessun rilievo di carattere morale su questo stato di cose, Il lavoro intellettuale come professione di Max Weber ci ha convinto che non può essere diversamente, e noi, che intellettuali di professione non siamo, non abbiamo alcun diritto di metterci il becco: anche nel caso muovessimo una critica a questo stato di cose dalla fiorente rosticceria che ci fa guadagnare il quadruplo di quanto guadagna un intellettuale di primo livello con contratto a tempo indeterminato sotto lala di un mecenate governativo, ci ricaveremmo comunque il sospetto di essere parvenu che ambiscono a intrufolarsi nel circoletto, mercanti che aspirano al titolo nobiliare, e non sia mai. Ma perché stupirsi – perché Mantellini ci tiene a mostrarsi stupito – se qualcuno degli intellettuali schierati in campo avverso osa mettere in discussione la sua imparzialità, insinuando che non sia in missione per conto di Dio, ma per servire un interesse di parte? Ciò che non è lecito a noi, a Borgonovo sì. E allora rissa sia, a noi non resta altro che stare a guardare e, a tempo perso, vergare qualche qualche ozioso pensierino su cosa sia lodio, in generale, e quello in rete, in particolare, sulla carta che abitualmente usiamo per incartare panzarotti e arancini.

Bisogna andarci cauti, col denigrare l’odio, che innanzitutto è cosa umana, e con umana intendo dire cosa di tutti: tutti odiamo e chi lo nega mente, anche se gli si può concedere di farlo in buona fede: odia, ma non avverte che sia odio, mentre invece è sensibilissimo nel coglierlo negli altri, anzi, potremmo dire che solitamente, quanto meno è capace di coglierlo in sé, tanto più è capace di coglierlo negli altri. L’odio, infatti, è espressione di quella aggressività comune a tutto il mondo animale, ma che nell’uomo assume forma di sentimento, ambiguo e multiforme come tutti i sentimenti, sicché è davvero complicato ritagliare un perimetro in cui collocarlo, per tenercelo rinchiuso, evitando torni ad essere rintracciabile anche dove non ci aspetteremmo mai di trovarlo, e cioè dovunque l’aggressività è in gioco nel quotidiano compito di sopravvivere e di procurarci piacere.
Scrive Joan Riviere: «Tutti noi sappiamo, o dovremmo sapere, che in noi stessi e negli altri esistono istinti aggressivi; nondimeno, quest’idea, tutto sommato, non ci piace molto, e così inconsciamente minimizziamo e sottovalutiamo la loro importanza. Non li osserviamo direttamente, ma li teniamo al margine del nostro campo visivo, e non permettiamo che entrino a far parte della nostra concezione globale della vita; mantenendoli un po’ confusi, essi non appaiono più così vividi, così reali, e vitali, e quindi così allarmanti come sarebbero se li vedessimo chiaramente. Naturalmente questo è un metodo molto primitivo di affrontare la nostra paura; difatti in questo modo possiamo solo rassicurare noi stessi, e non ottenere un reale progresso».
E poco oltre: «Vi è una spiegazione evidente, almeno in molti casi, per le emozioni di ostilità: esse si sviluppano in persone scontente, insoddisfatte del proprio destino e delle proprie condizioni. Se cè qualcosa che non riescono ad ottenere, sia esso un bene di prima necessità o semplicemente qualcosa di piacevole, provano un senso di perdita. È evidente che qualsiasi persona (come quasi tutti gli animali) che si veda attaccata, minacciata di un furto o di un danno, sì da subire una perdita, svilupperà una certa dose di aggressività».
Dal piano individuale a quello sociale: «È noto che una mancanza di mezzi di sussistenza nelle persone e nelle classi risveglia aggressività, a meno che non siano in una condizione di irimediabile apatia, di disperazione o di inerzia. In queste circostanze laggressività è un segno di vita; non dico che sia una reazione utile o efficace, ma come manifestazione psicologica è un po più vicina alla soddisfazione del bisogno di quanto non lo sia una vuota disperazione».
Orbene, come si può pensare che una condanna morale dellodio e una censura delle sue manifestazioni possano risolvere i problemi che lo hanno messo in gioco? È domanda che su queste pagine ho posto anche un anno fa, quando, in relazione a qualcosa assai affine allodio, Mantellini lamentava che «l’Italia è oggi una Repubblica fondata sul risentimento». Dopo aver tentato un preliminare accordo su cosa debba intendersi per risentimento, proponendo di dargli la definizione del Sabatini Coletti («sentimento dato da un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustazione subìta, sia essa reale o immaginaria»), chiedevo: «Siamo davanti a un desiderio di rivalsa che ha una qualche legittimità o a quanto fa sintomo di un’estesa patologia di massa, eventualmente ad un connaturato vizio morale che segna il grosso della nazione? Nel primo caso, siamo costretti a fare i conti con l’ingiustizia che ha dato moventi al risentimento, considerare se abbia natura contingente o di sistema, individuarne i responsabili, ipotizzare soluzioni alternative alla violenza per rimuoverla». Che peraltro a me parrebbe pure – tanto per dirla alla carlona – roba di sinistra. Cioè, per meglio dire, roba della sinistra di un tempo. Perché quella che oggi di sinistra continua a conservare il nome, ma sembra essere sempre meno sensibile alla ragioni di chi è risentito per lattacco, il furto, il danno, la perdita, schiera i suoi intellettuali a difesa dello status quo armati della loro potente condanna morale: il risentimento è invidia sociale, poi ci si stupisce che gli operai votino Lega e che l’impoverito ceto medio che fino a venti o trent’anni fa era ancora «società signorile di massa», come ha scritto Luca Ricolfi, oggi sogni l’uomo forte. Così con lodio: poco importa da cosa muova, lodio è brutto, è cattivo, puzza di piscio e vomito: va rimosso. Presto, si chiamino i clercs! Forti del loro potere spirituale, il loro compito inquisitoriale sembrerà santo, il loro engagement non sembrerà trahison.

Fuor dogni sospetto da malpensante, non si capisce che senso abbia la commissione anti-odio voluta dal Governo, né quali innovative soluzioni essa possa partorire per arricchire la già fornita utensileria del nostro codice penale dedicata ai reati che sono concretizzazione dellodio in forma di insulto, minaccia, calunnia, e perfino di malaugurio. Anche laddove essa fosse immaginata come embrione di unauthority che stabilmente vigili sul web, si fa fatica a immaginare possa bypassare la magistratura con funzione di censura. Staremo a vedere, ma limpressione è che nasca come deterrente, e in quanto tale sarà assai poco efficace. Resta che il peggio non sta nellaverla istituita, ma nellaverla ritenuta necessaria, senza riuscire a prevedere che quasi certamente, più che utile, si rivelerà controproducente.

4 commenti:

  1. (piccolotypo: "spiegazione evidene".
    grazie per il post.)

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  2. "Non si capisce che senso abbia la commissione anti-odio voluta dal Governo".
    Orwell l'aveva capito benissimo: lo stesso governo di cui faceva parte il Ministero dell'Amore aveva istituito la Settimana dell'Odio, perché il problema è sempre l'odio degli altri, non il proprio.
    P.S. fossi in lei non mi giocherei un testicolo con tanta leggerezza.
    Shylock

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  3. Caro Malvino, sono molto curioso di leggere le conclusioni e i suggerimenti che la commissione governativa partorirà dopo un adeguato numero di riunioni e riflessioni. Di una cosa però sono certo: sarebbe stato più utile e incisivo un suggerimento di Luigi Castaldi, sia pure di 50 righe vergate in fretta fra una ecografia e un'altra (attività peraltro socialmente utile) piuttosto delle riflessioni pseudofilosofiche dei cosiddetti web-competenti).

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