domenica 5 aprile 2020

«nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima» (6)


6. Più che del Covid-19, qui ho discusso di come se n’è discusso. La cosa era nuova, se ne sapeva poco o niente, era prevedibile che offrisse i suoi aspetti oscuri alle interpretazioni, che per loro natura sono bellicose, e di fronte al nuovo si bipolarizzano, scendendo in campo intenzionate a vincere o a morire, e dunque non ammettono di essere indebolite da dubbi o critiche: ciò che è nuovo, e oscuro, è in sé e per sé fatale, e dunque, quando arriva, «nulla sarà più come prima» (nulla deve essere come prima), perché ogni destinazione è destino; oppure no, perché il fatale è solo l’artefatto della sorpresa dinanzi all’imprevisto, che a posteriori risulta sempre prevedibile, perché, dimentica del passato, la storia procede di sorpresa in sorpresa e dunque «tutto sarà come prima» (tutto deve essere come prima). Armate dei loro più taglienti argomenti e chiuse nelle loro più luccicanti corazze etico-estetiche, abbiamo visto queste due posizioni, referenti dei rispettivi umori, menarsi di brutto.
Al momento, è la prima che sembra avere la meglio, ma d’altronde va sempre a questo modo, all’inizio. E ve n’era indizio prim’ancora che si venisse alle mani, perché, quando i morti da Covid-19 erano ancor meno di 1.000, già serpeggiava nei talk show la vulgata del fatale come destino sociale: non tutto verrà per nuocere – si mormorava fuori dai denti – la competenza riprenderà la persa autorità, l’emergenza ripristinerà la sacrosanta catena di comando, le plebi torneranno a chiedere pane senza pretendere anche rose, e la guerra ci farà riscoprire l’amor patrio, avremo qualche eroe che illustrerà le smarrite virtù, e «nulla sarà più come prima», nel senso che tutto sarà com’era prima del prima. Cionondimeno, come d’altronde regolarmente segue, il prima del prima fa fatica a diventare il dopo, e alla fetecchia che ci consigliava di leggere le pagine che il Manzoni dedica alla peste già s’appresta la fetecchia che ci consiglia di passare alle pagine che il Manzoni dedica all’assalto dei forni.
Quando non si hanno interessi in gioco in questo genere di guerre (e non parlo solo di interessi materiali, ma anche di quelli psicologici, quelli che lo psicologo pudicamente chiama fattori motivazionali), non si può scendere in campo senza casacca, perché ogni schieramento ti considera far parte di quello opposto, e in più vilmente camuffato da neutrale. A nulla vale esordire, come ho fatto con un tweet del 5 marzo: «State esagerando. Tutti. State esagerando». Guai, poi, a far presente allo schieramento che prende l’iniziale sopravvento che, col trattare il Covid-19 come qualcosa di mai visto prima, «la soluzione diventa problema» (tweet dell’8 marzo). Peggio ancora chiedersi ad alta voce, come ho fatto col primo dei post di questa serie, «perché il Covid-19 sta godendo di una copertura mediatica tanto spropositata?».
Domanda posta male, convengo, perché col crescere del numero dei contagiati (noti) e dei morti (da/con), e ancor più col farne oggetto di unica questione degna di attenzione, era inevitabile offrire il fianco all’obiezione cui qui do voce con le parole di un amico che lascio nell’anonimato: «Continui a credere che sia poco più di un’influenza?». Gli amici sono amici e non si possono mandare a fare in culo, occorre un minimo di gentilezza anche quando ti mettono in bocca cose che non hai mai detto: «E dove l’ho mai scritto? Io mi son chiesto solo perché 8.000 morti per/con influenza ogni anno non abbiamo mai avuto tanta attenzione. E poi, con Dawkins, con Debord, con Jenkins, con Perniola e con Rothkopf, ho cercato di capire le ragioni del perché, ma soprattutto del come, l’attenzione sul Covid-19 si stia prendendo più vite del Covid-19 stesso».
Così dove, riguardo al punto in cui dicevo che il Covid-19 impone(sse) misure di contenimento, sì, ma non autorizza(sse) all’isteria, né a provvedimenti che, per evitare 5-10-20-30.000 morti, possono far morire di fame mezza Italia, un altro amico mi scriveva: «Potevi dirlo in un altro modo, vedrai che quel “morire di fame” ti procurerà noie». Ma sai quanto me ne fotte, caro mio, mai stato sul mercato delle idee, mai avuto bisogno di rendere appetibili le mie e, quando supero i 5.000 lettori a post, comincio a sospettare di aver scritto cazzate.
Tanto stia a premessa di quanto, in questo e nel successivo paragrafo, starà a tentativo di tirare i fili e chiudere col Covid-19 (conto di dedicarmi al saggio su Messerschmidt che sta a stagionare nelle bozze da dieci anni). Qui affronterò due o tre questioni marginali, ma poi nemmeno tanto, relative a termini che userò del settimo e ultimo paragrafo, e sui quali non vorrei passasse qualche fraintendimento. E dunque.

La catastrofe come disegno Nel «complottista», che è «chi tende a interpretare ogni evento come un complotto o parte di un complotto» (Devoto-Oli), v’è un’implicita professione di fede nell’esistenza di intelligenze umane in grado di ordine piani che, nel caso dei «complotti» (da «complicitum» «complictum», che alla lettera è «viluppo», e in senso figurato rimanda a ciò che è «oscuro»), sono sempre assai «complessi» (da «complexum», che alla lettera è «intreccio», ed estensivamente «trama»), come d’altronde si rileva dal considerare che nell’avvolgere di «cum-plico» e nell’intrecciare di «cum-plecto» sta un gran bel togliere linearità a ciò che è «planum». Avrei potuto chiamarla convinzione, ma, se ho preferito parlare di fede, è per la stretta parentela che v’è tra il complottista e il credente. Per entrambi, infatti, tutto ciò che accade («ogni evento») non sarebbe altro che la realizzazione di un disegno destinato a rimanere imperscrutabile a chiunque neghi lesistenza dellintelligenza che lo ha concepito. Intelligenza superiore (poco importa se superiore a quella umana, nel caso del credente, o alla gran parte degli umani, nel caso del complottista), perché in entrambi i casi si tratta di unintelligenza in grado di veder sempre realizzato il suo disegno (in virtù della sua onnipotenza, in un caso, o di un potere comunque efficace, nellaltro).
Si obietterà, e a ragione, che il buon fine cui mira chi ordisce un complotto non ha nulla a che vedere col «buono» che Dio vede in quel che ha creato (per sette volte, nel Genesi, «e vide che era cosa buona»), il che non toglie, tuttavia, che il complottista e il credente vivono entrambi in una realtà che si sono costruiti («ogni evento», l’uno, il Creato, l’altro), ma che ritengono sia stata costruita per loro, e che in entrambi i casi (paranoia, in uno, fede, nell’altro) è inattaccabile. Costruzioni in tutto simili, fatta eccezione per una differenza che però non è da poco: «paranoia is faith with a minus sign in front» (Derick Parsons, Cognitive Behavioral Therapy vs Neurolinguistic Programming, 2019). Nella fede ci si sente sempre al sicuro; nella paranoia, mai. Su Dio puoi fare affidamento sempre (volendo, ovviamente), anche quando ti sottopone a prove tremende; sospetto e diffidenza, invece, non devono mai abbandonarti dentro la trama in cui ti muovi, anche quando in apparenza non mostra pericoli (meno ne mostra, più ne ha: non si ha complotto senza una vittima). E tuttavia il delirio persecutorio non è esclusivo della paranoia del complottista: se alteri l’ordine del suo Creato, Dio ti punisce con diluvi, carestie, cavallette e peste. È il meme della catastrofe naturale per punizione divina, di cui parlavo nel terzo paragrafo. Se, però, il complottista non è stato in grado di offrirci un disegno in cui la pandemia fosse decisa da una Spectre del terrore (non è riuscito ad andare oltre l’incidente del virus costruito in laboratorio per essere impiegato in una guerra batteriologica), il credente (qui inteso come chi allo status quo conferisce gli attributi di Dio e/o della Natura) è stato in grado imporre la vulgata del Covid-19 come evento metasanitario, come polmonite virale che ci parlasse di tutti i nostri mali, e in primo luogo di quelli sociali.

Lo spettacolo della catastrofe Anche senza voler far propria l’ipotesi debordiana dello spettacolo come «Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta», «visione del mondo che si è oggettivata», «momento storico che ci contiene», non sfuggirà a nessuno che la rappresentazione del Covid-19 ha sembrato tendervi fin dallinizio, e in buona sostanza vi è riuscita.
Infatti, il virus c’è; e c’è un’enorme quantità di contagiati (cosa ragionevolmente desumibile fin dall’inizio, ma per fortuna arriva un Imperial College per dirci con estrema precisione che i positivi, in Italia, sono tra il 3,2% e il 26%, tra 1.850.000 e 15.500.000, e ora la desunzione ha solidità scientifica – sì, bravi, è sarcasmo); e ovviamente questo implica che la stragrande maggioranza sia asintomatica, e mai saprà se è positiva o meno al Sars-coV-2 (pochi tamponi, servivano ai calciatori e alle loro signore – sì, bravi, sto insistendo col sarcasmo); e però ci sono i morti, e tanti, ancorché in stragrande maggioranza molto anziani e molto malati (niente sarcasmo, qui, perché bisogna pur morire di qualcosa, ma che si muoia di vecchiaia passi, e passi pure che si muoia di diabete, di acciacchi cardiovascolari e di insufficienza polmonare cronica, ma di vecchiaia, diabete, acciacchi cardiovascolari, insufficienza polmonare e Covid-19 dispiace assai di più; poi, bel bello, arriva il presidente dellIstat e ci dice che le morti per malattie respiratorie «nel marzo 2019 sono state 15.189 e l’anno prima erano state 16.220» e che «incidentalmente si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020», che francamente si poteva pure dire prima); e per evitare che gli asintomatici, che non sanno di essere positivi, vadano in giro ad ungere, aumentando il numero dei morti, sono necessarie misure di contenimento, a pareggiare i conti con quelli che si sono beccati il virus nel pronto soccorso preso d’assalto al primo serpeggiar del panico; e per tappare i buchi di una sanità pubblica, fatti dai tagli dei passati governi di centrodestra e di centrosinistra, qualsiasi governo – di centrodestra, di centrosinistra o di-a-da-in-con-su-per-tra-fra – può solo minacciare lanciafiamme e multe da 3.000 euro a chi passeggia in solitudine, ma senza valido motivo; e tutto questo offre notevoli spunti anche al più sfessato degli sceneggiatori; se tutto questo, insomma, è nei fatti, è naturale che la sua rappresentazione prenda, includa, assorba, ci faccia partecipi come platea, ci chiami in scena a guardare lo spettacolo in cui siamo comparse mute o tutt’al più rumoreggianti sui social, basso continuo della colonna sonora che scorre sotto gli scazzi tra il Burioni e la Gismondi, sotto l’annuncio dell’Apocalisse di don Fanzaga e la speranza di Francesco che il picco della curva si abbia al Venerdì Santo e a Pasqua abbia un miracoloso crollo ad accenderci in testa una pentecostale fiammella di conoscenza.
Un bel nastro di Moebius, non c’è che dire: fatti e interpretazioni hanno la stessa faccia, siamo lo spettacolo che guardiamo, omogeneo a dispetto delle sue contraddizioni interne, perché tutte funzionali al teatro del terrorismo (Jenkins) e allinfodemia del fatale (Rothkopf). Quanto di questo spettacolo non siamo spettatori, ma comparse che per giunta lavorano a gratis, ce lo illustra la famosa circolare aziendale in video di Urbano Cairo, che dello spettacolo non è il regista, ma attore, perché mera rotellina del sistema che embrica informazione-intrattenimento, con pubblicità-consumo e con produzione-capitale. Guardando quel video dovrebbe esser chiaro: cè una tv che, risparmiando in spese per lustrini, può vivere 24 ore al giorno di giornalisti che intervistano giornalisti sulla questione che ha maggiore appeal.

Mia moglie mi sfotte Mia moglie mi sfotte, dice: «Se ti becchi il virus, e muori, sicuramente arriveranno un sacco di prese per il culo a commento dellultimo pippone che avrai postato: che faccio, le cestino o le edito?». Hai voglia a dirle che non sono Don Ferrante, che la peste cè, e la vedo (e dico proprio «peste», così le mostro tutta la mia comprensione per la sua astinenza da coiffeur e pilates).

E ora – come dicevo – cerchiamo di tirare i fili e chiudere.

21 commenti:

  1. Sono sicuro che sua moglie apprezzerà la frase sul coiffeur e il pilates.
    D'altronde ammetto che aveva iniziato lei con "pippone".

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  2. Vostra moglie è donna saggia assai, Dottò.

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  3. 30.000 morti max come li ha calcolati?

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    1. Non ho scritto che 30.000 sarebbe il massimo numero di morti attese, e dunque non è un numero che nasce da un calcolo. D'altra parte, chi ha fatto questo calcolo non riesce ad essere molto più preciso, e questo per la semplice ragione che il risultato varia al variare delle misure di contenimento prese in considerazione e al momento in cui esse cominciano ad essere messe in atto sulla curva di crescita dei contagi, sicché il numero varia da 50.000 a 100.000, ma comunque si tratta di stime che non mettono in conto un'enorme quantità di fattori, non ultimo la reale efficacia della profilassi a fronte di un'infezione che ha grande pleomorfismo clinico, anche laddove si sia per scontato che il virus agisca sempre nello stesso modo a parità di fascia d'età, pregresse condizioni cliniche, ecc. In definitiva, direi che i calcoli sono certi quando non contengono troppe incognite.

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  4. Allora non capisco il riferimento ad un provvedimento che ha evitato 5-10...30.000 morti. A che morti faceva riferimento?

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    1. Il riferimento è a qualsiasi provvedimento che miri, pur efficacemente, a risparmiare morti da/con Covid-19, ma causando più morti da/con crisi economica. Chessò, faccio un esempio, lei sa che dall'arrivo della Troika in Grecia la mortalità infantile è aumentata del 43%?

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    2. Mi scusi, l'ultima domanda è retorica: non c'erano tg a informarla delle loro morti giorno per giorno, lei non ha colpa ad ignorare che anche la povertà uccide.

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  5. non lo ignoro affatto, grazie tante. Al contrario, sono così convinta della necessità di calcolare il trade-off che mi interessava capire come l'avesse calcolato lei.

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    1. Io non mi azzardo a calcolare niente, non è il mio mestiere, e infatti le ho già detto che il mio "5-10-20-30.000 morti" faceva riferimento al numero che invece chi fa il mestiere di calcolare con precisione millimetrica calcola tra i 50.000 e i 100.000 (sì, anche questo è sarcasmo). In più, come avrà certamente notato all'incipit di questo post, che col primo capoverso mira proprio a respingere affermazioni attribuitemi, ma mai fatte, "più che del Covid-19, qui ho discusso di come se n’è discusso". In particolar modo, parlavo di chi solo quest'anno si è accorto che soggetti vecchi e malati solitamente muoiono, qualche anno meno (e anche molto meno) e qualche anno di più (anche molto di più): si tratta di persone la cui attenzione è attivata solo dal numero, soprattutto se divulgato con tempi e modi che trasformazione l'attenzione in panico. Sia chiaro che la società deve occuparsi soprattutto dei più deboli, e cioè dei vecchi e dei malati, guai a far passare la logica benthamiana del "maggior benessere (o felicità) per il maggior numero di persone", sennò scatta subito l'imputazione di tatcherismo, che nega la società e prende in considerazione solo l'individuo. E tuttavia, le faccio notare, è proprio l'individuo che vuole vivere in eterno o almeno 100-120-150 anni, a dispetto della media di 81-84 anni che, con o senza il Covid-19, è la vita media attesa ai nostri giorni, in Italia. Non si sa bene, insomma, questa benedetta società cosa sia: se il luogo in cui si decide il bene comune a parziale discapito di quello di alcuni o la mera somma di interessi egoistici che talvolta generano contraddizioni in grado di far esplodere il luogo di cui prima. Una cosa è certa, però: dire che bisogna pur morire di qualcosa è tabù, la morte non è rimossa solo dall'orizzonte temporale di ciascuno, ma anche dalla mera possibilità che ci tocchi perché l'occasione (etim.--> ob-cidere) capita al momento in cui non c'è un vaccino per evitarla.

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    2. dì la verità, descrivendo le cose così bene e in chiaro l'eternità un po' te la vai cercando (se non ti becchi 'o virus).

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    3. Nulla da eccepire sul tema della morte come tabù.

      Molto da eccepire sul fatto che dietro il resto del ragionamento non vi sia - o non vi debba essere - un calcolo.
      Come facciamo, senza un calcolo, a valutare se la soluzione diventa problema?
      Contro quale metro valutiamo il danno economico di un lockdown (il morire di fame, appunto) rispetto a provvedimenti meno stringenti?

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    4. Non saprei dirle. Io, come ha visto, vado a spanne, ma gli esperti di calcolo dicono che, in assenza di misure di contenimento, i morti si sarebbero contati tra i 50.000 e i 100.000. Non resta che attendere per constatare quanti ne farà, direttamente e indirettamente, un calo del Pil che anche nelle migliori delle proiezioni sta attorno al -10%. Sta di fatto che per le fasce maggiormente colpite dal Covid-19 oltre il 95% delle morti si sarebbe avuto a carico di soggetti improduttivi. Ohi, sia chiaro, non legga alcun feroce cinismo in queste mie considerazioni: parlo di un'ipotesi, quella dello zero-contenimento, che considero inammissibile sul piano politico, prim'ancora che su quello etico.

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    5. 1) può fornire una fonte per quei numeri? mi paiono terribilmente ottimistici. Mi paiono anche molto simili ad alcuni numeri - relativi all'italia - contenuti nel paper che cita nel post, ma in tal caso mi duole dirle che ha preso una cantonata.

      2) e questo è il punto più importante, sono in fondamentale disaccordo con l'idea che ciò che ci impedisce di optare per lo zero-contenimento sia (solo) un imperativo etico/politico.
      Questa idea assume che, se si fosse cinici e si lasciasse fare alla natura il proprio corso, l'economia non ne risentirebbe.
      Il 10% di ospedalizzati dove li mettiamo? I costi di danni a lungo termine - per nulla esclusi - in chi sopravvive? La disruption pandemica, insomma, c'è, e non è legittimo, in tal senso, paragonare i costi del lockdown allo status quo.
      Per dirla breve, siamo di fronte a due alternative di merda, e come tali vanno comparate.

      Considerazioni, anche queste, un po' a spanne, vero, per questo insisto servano analisi quantitative serie, prima di buttare lì considerazioni (e numeri) a casaccio.

      E tali analisi, pur scarse, esistono:

      https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3561560

      https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3561934

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    6. Il secondo paper citato da Luciana è, almeno metodologicamente, la cosa più interessante che ho visto. Peccato che i dati con cui si alimentano i modelli siano fortemente aleatori. Poiché scrivo alle 4:38 del mattino, mi riservo successive analisi. Per ora, dico solo che le alternative risentono soprattutto del valore dato al VSL (value of statistical life) ossia, per dirlo con imprecisa ma chiara approssimazione, il valore che viene dato alla perdita di una vita umana. Così, alle 4:38, mi pare che 10 milioni, sia pure di dollari, siano una cifra che ha sull’analisi l’effetto di una spada di Brenno.

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  6. The fool or the scholar?lunedì, 06 aprile, 2020

    In Cina, o a Singapore, il concetto di castigo divino non è certamente qualcosa di rilevante. Non c'è neanche un'opinione pubblica eccitabile che si pasce dello spettacolo drammatico (forse in Cina non esiste nemmeno, un'opinione pubblica). Eppure, hanno chiuso tutto lo stesso.

    In India e in altri paesi in via di sviluppo il rapporto con la morte è culturalmente ben diverso, nessuno si illude di vivere fino a 150 anni e di pandemie ne hanno viste parecchie, ma anche lì stanno cercando di mettere in quarantena miliardi di persone.

    Posso concedere che abbia un impatto l'interconnessione con i sistemi economici occidentali, ma se il modello teorico che le viene spesso contestato prevede che la risposta dei governi sia stata anche influenzata dall'interfaccia con le reazioni e gli "archetipi" dell'opinione pubblica, perché in posti dove questi non sono presenti è stata uguale, se non ancora più drastica?

    In buona sostanza, mi pare che la reazione di causalità sia da considerare in senso opposto. Esiste un dato di fondo di pericolosità oggettiva che implica una risposta simile a quella messa in piedi ovunque. In Occidente, tuttavia, questo va a toccare delle corde peculiari che mi sembra siano state abbondantemente sviscerate e messe sul piatto nei suoi post.

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    1. Concordo, anche perché non ho mai negato il "dato di fondo di pericolosità oggettiva". Non sono d'accordo, invece, col fatto che in Oriente non vi sia una tradizione che contempli la catastrofe naturale come punizione divina: cambia la divinità, certo, ma nel cinese Shu Jing e nell'indiano Satapatha Brahmaṇa, per esempio, ci sono equivalenti del nostro diluvio universale. Quello che fa la differenza è il concetto di colpa, questo è vero, che nell'immaginario giudaico-cristiano è sempre relativa ad una ben precisa infrazione dell'ordine naturale, che nelle culture orientali resta nell'indistinto. Il meme, tuttavia, è pandemico dalla notte dei tempi pur con caratteri "molecolari" che hanno trovato diversa inculturazione a secondo della popolazione che andava a parassitare.

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  7. @malvino
    nelle culture orientali, in particolare nel buddismo, non essendoci il concetto di dio creatore universale, non ci si aspetta nessun "diluvio". Il diluvio puo essere solo personale, rispetto alle azioni che si creano momento dopo momento nella vita, karma.
    Cio che si manifesta ha origine interdipendente. Le apparenze esterne, come pure la mente che le percepisce, sorgono in una origine dipendente tra di loro.
    Non mi pare tanto indistinto.

    Tzongkhapa, fondatore della scuola, gelug nel buddismo tib.
    Dice: appearance, the unfailing dependent origination, and emptiness, undestanding beyond statements-
    As long as these two seem to be separate, you have still not realized the intent of Sakiamuni.
    When all at once and without alternation, your conviction and your notion of an object fall apart, that is the moment of having completed the analysis of the view.

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    1. L'Oriente non è solo buddhismo. Non a caso ho citato il Satapatha Brahmana,che viene cinque o sei secoli prima della predicazione del simpatico Gautama.

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  8. Vero. Pero' credo che sia molto diffuso anche tra gli hindu il concetto relativo al karma, causa effetto, che Siddharta Gautama insegna
    nello Hinayana, ma nel Mahayana e soprattutto nel piu esoterico Vajrayana, dice che la realta' e' al di la' di causa ed effetto.
    Il simpatico Siddharta Gautama, insegna anche

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  9. Parte 1
    Per fare le cose per bene, le dovrei scrivere una trentina di pagine di considerazioni matematiche per chiarire alcune questioni. Partiamo dallo scopo che ci vede sulla stessa lunghezza d’onda: non sarebbe possibile confrontare due strategie, la prima, poche o niente misure, per garantirci una tenuta economica ed evitare morti “di povertà” da un lato, la seconda implementare misure contenitive, con esito futuro complementare però al precedente. In questa operazione i margini di incertezza sono talmente grandi da renderlo probabilmente un esercizio puramente scolastico. Sopratutto la stima di quel che accadrà dopo questi fermi prolungati sui prossimi anni, sulla nostra salute futura, è quasi impossibile da prevedere. Solo un po’ meglio va nel caso di calcolare e valutare il danno diretto e il danno evitato contenendo l’epidemia. Almeno stiamo cercando di quantificare questo, pur con ampi margini di incertezza (ritengo che non poco stia contribuendo il fatto che si stiano accorciando i tempi di controllo di peer-review sull’enorme mole di lavori scritti in fretta e furia).

    Faccio l’esempio con un punto: quando nello stesso paragrafo inserisce cose che si escludono a vicenda, forse senza rendersene conto, o forse volutamente. Provo a spiegare questa cosa. Lei cita l’enorme stima dei contagiati (riservo “positivi” a chi ha avuto questo avvenuto contagio misurato da un test di positività presunta). Bene, se prendiamo quel lavoro i cui dati lei riporta, che ho letto e ritengo che come alcuni statistici d’assalto cada ad un certo punto nell’errore di dimenticare pezzetti della teoria della probabilità (in un unico singolo punto molto specifico, ma di cruciale importanza per una stima affidabile), scrivevo se prendiamo quel lavoro dobbiamo prenderlo tutto. Segnalo innanzitutto che da quando è stato presentato la stima deve considerarsi raddoppiata, se non ora, entro una settimana. Quel lavoro utilizza come unico input due dati: la serie temporale dei decessi e il valore di 1% per l’Infection fatality rate (IFR)*. Quindi ad oggi in Italia (od entro una settimana), secondo quello stesso lavoro sono stati già “condannati” all’inevitabile destino della morte da/con Covid-19 (anche se eventualmente oggi ancora vivi) un numero compreso tra 40.000 e 300.000. Questo, faccio presente, solo ed esclusivamente per tutto quanto successo da fine febbraio ad oggi, misure di contenimento incluse.

    Viene da sé, a mio giudizio, che se siamo nella parte alta della stima allora valgono due considerazioni: la prima che è stato tutto assolutamente inutile quello che è stato fatto, perché saremmo comunque arrivati alle soglie dell’immunità di gruppo (anticipando altra considerazione, faremmo non poca fatica a convincerci che questo sia vero in Basilicata e in Sicilia, ma tant’è, la stima di quel lavoro ce lo dice possibile). La seconda considerazione che la tempesta sarebbe passata, ce na accorgeremo tra non più di una o due settimane anche dai numeri, quindi la domanda di partenza diverrebbe retorica: avremmo fatto meglio a non chiudere nulla, ma in ogni caso è ora di riprendere la vita e a fare vedere i sorci verdi al resto del mondo, che non ha la fortuna di essere vicino all’immunità di gruppo quanto noi (a questo punto si starà chiedendo se non ci sia sarcasmo anche da parte mia).

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  10. Parte 2 (fine)
    Veniamo all’altro punto tecnico. Partendo dallo stesso lavoro, tolto quel punto cruciale di teoria della probabilità, troviamo un secondo cruciale errore: trattare i paesi come geograficamente omogenei. L’errore si spiega con quanto scrivo poco sopra: è impensabile che l’immunità di gruppo sia oggi matematicamente raggiunta (o quasi) tanto a Bergamo quanto a Matera, anche solo come previsione per eccesso. Qui mi riallaccio a quanto lei scrive dell’Istat, con un esempio. Come si confrontano secondo lei le morti in tutto il mondo a marzo di quest’anno con quelle a marzo dello scorso anno? Punterei una somma non indifferente che se non sono uguali, siano statisticamente compatibili. Mi replicherebbe, ritengo, che questo è ovvio perché il Covid-19 ha colpito solo alcune zone del pianeta, e in molte di queste da pochissime settimane. Ecco, questo vale anche a livello nazionale: per stimare l’impatto sulla mortalità del virus non si deve guardare alla “media nazionale”, ma alla “anomalia statistica”: differenziare cioè tra le regioni, province e comuni. Questo è quello che ci dà la misura di quello che accadrebbe. In alcune zone (per carità, circoscritte) le morti stanno sfiorando e superando sul singolo mese di marzo quelle attese sull’anno “per qualunque causa”. Proiettato su scala nazionale, tra 400.000 e 600.000 in un solo mese. Questo non perché io voglia riscalare sic et simpliciter il dato su scala nazionale pur in via ipotetica, ma per segnalare che questi dati è inevitabile che si annacquino se mediati su 60 milioni ci individui.

    *
    Spiego questo fatto. Distinguiamo tra Death-to-case ratio (DCR), case fataliity rate (CFR) e infection fatality rate (IFR). L’ultimo è quello più semplice: passata l’epidemia o pandemia, da un po’, il numero di morti totale che si è lasciata dietro diviso per il numero vero (che può essere solo presunto o stimato) di contagiati. Il CFR invece ha stesso numeratore ma al denominatore ha i casi confermati (per esempio, positivi, che sia al tampone o agli anticipi). Il DCR è quello che misuri oggi come CFR, cioè durante l’epidemia, ancora non terminata, prendendo quanti morti hai contato diviso quanti positivi hai contato: un esempio della confusione che questo numero genera ce lo ha esposto la Gismondo, quando sosteneva che in Corea del Sud la letalità era sotto lo 0,9% ed io facile profeta le anticipai che si sarebbe avvicinata (come poi ha fatto) al 2%. Il motivo è semplice da spiegare: quasi nessuno muore il giorno in cui viene contagiato, in media si muore più di tre settimane dopo, ed alcuni muoiono addirittura dopo un mese e mezzo senza aver mai superato la crisi. In altre parole, anche se da un giorno all’altro si azzerassero i contagi, si continuerebbero a vedere moltissimi morti nelle settimane seguenti.

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