mercoledì 15 aprile 2020

Primato della ricerca sulla clinica


Nella storia della medicina è capitato spesso che un clinico sia arrivato a trovare la soluzione di un problema prima che ci arrivasse un ricercatore.
Il caso più emblematico è quello di un problema come le infezioni: un ricercatore (Pasteur) riesce a scoprire che esistono microrganismi in grado di causare infezioni solo pochi mesi prima che muoia il clinico (Semmelweis) che ne ha intuito l’esistenza diciotto anni prima, mettendola in relazione alle numerose morti da sepsi puerperale che si avevano nel reparto di ostetricia dove lavorava.
Non solo: deriso e osteggiato dal mondo accademico dellepoca, prima, e licenziato dal suo primario, dopo, muore in manicomio una dozzina danni prima che nei cadaveri venga documentata la presenza di batteri in grado di causare una sepsi puerperale (aveva sostenuto che ne era responsabile qualcosa che passava dalle mani degli ostetrici, che avevano effettuato autopsie, alle gravide, che poi aiutavano a partorire) e una ventina danni prima che venga riconosciuta la proprietà battericida della sostanza (il cloruro di calce) con la quale sosteneva fosse opportuno lavarsi le mani passando dalla sala autoptica alla sala parto, per evitare la carneficina.
Triste vicenda, ma, a risarcirlo di quanto fu costretto a subire, quarantadue anni dopo la sua morte la città che lo aveva trattato come un pazzo (Budapest), trovandone conferma nel fatto che questo poi lo facesse impazzire davvero, gli eresse una statua. E queste, senza dubbio, son soddisfazioni.
Col senno di poi è facile tifare Semmelweis, ma mettiamoci nei panni del professor Klein, che era il suo primario, e che del mondo accademico dellepoca era autorevole esponente. Sul punto, quello della sepsi puerperale, la ricerca scientifica aveva raggiunto un pressoché generale consenso: era dovuta a umori mortiferi, cera solo qualche dubbio sul donde sortissero. Cera chi sosteneva che fossero prodotti dalla putrefazione di fluidi che ristagnavano nellutero dopo il parto; altri, però, sostenevano che questi umori mortiferi aleggiassero nellaria e ad alcune donne causassero una ritenzione del flusso mestruale, che, ristagnando nellutero, andasse incontro a putrefazione, eccetera, come sopra; da ultimo cera chi pensava che la putrefazione avesse origine da gas e feci di cui lintestino non riusciva a liberarsi perché compresso dallutero gravido. Cazzate, sì, ma solo col senno di poi.
Col senno dellepoca, era fin troppo ovvio che, a chiunque avesse osato azzardare unipotesi diversa, a buon diritto il professor Klein avrebbe potuto dire: «Guardi, lei ha due possibilità: prenda una laurea in medicina, una specializzazione in ostetricia e ginecologia, un dottorato in umori mortiferi, e poi ci confrontiamo. Oppure, più comodo per lei, mi ascolta e alla fine mi ringrazia, perché le ho insegnato qualcosa». Cè da giurarci che da tutte le taverne di Budapest si sarebbe levato un fragoroso applauso al grande Klein (che fa un po ossimoro, ma vabbè).
Questo, nel caso che ad azzardare lipotesi fosse stato un profano, perché, nel caso che ad azzardarla fosse stato un Semmelweis, il professor Klein avrebbe potuto dire, e anche qui a buon diritto: «Lei osa mettere in discussione il grande Virchow?». E qui, come in realtà accadde, Semmelweis aveva solo due scelte: tacere o insistere. Ed è sulla natura di questo eventuale insistere che occorre soffermarci, perché svela il punto di rottura che sempre incombe sul patto da tempo stretto tra ricercatore e clinico.
Noto è su cosa regga questo patto. Il ricercatore formula ipotesi e cerca prove che le possano validarle o invalidarle. Per farlo, ha bisogno, prima o poi, di verificarle sul piano clinico, dove possono trovare o meno la conferma di validità che hanno precedentemente ottenuto in vitro e/o sul topo, sul coniglio o su qualsiasi altro animale da laboratorio che, almeno in relazione a ciò che si intende testare, si ritiene abbia con luomo una affinità tale da rendere affidabili i risultati.
Cè voluto un po di tempo, ma oggi le verifiche sul piano clinico dellipotesi avanzata dal ricercatore sono parametrate in modo tale da far sì che i risultati siano comunemente accettati dal ricercatore e dal clinico. È dal clinico, daltra parte, che vengono posti al ricercatore i problemi che nascono dalla pratica di tutti giorni.
Capita, ad esempio, che il clinico possa trovarsi dinanzi ad una polmonite particolarmente stronza. Dopo aver constatato che gli strumenti fin lì messigli a disposizione dalla ricerca non danno soluzione al problema, gli toccherebbe fare una telefonatina al ricercatore per dirgli: «Senti, avrei un paziente con una polmonite strana, resistente agli antibiotici. Direi sia virale, ma di polmoniti virali così io non ne ho mai viste, quindi...».
Già qui, però, può esserci il primo intoppo, perché al clinico può capitare di uscire fuori dal seminato e, come Li Wenliang, azzardare: «Sembrerebbe una polmonite da coronavirus, ma direi si tratti di un coronavirus mai visto, qualcosa di simile al virus della Sars del 2002, ma un po più fetente...». Nel caso di Li Wenliang, lazzardo coglie nel segno, ma dallaltro capo del telefono può ben sentirsi dire: «Guarda, tu sei oculista e già è tanto che sconfini nella pneumologia, ma metterti pure a fare il virologo, per piacere, no. Mandami un tampone e aspetta la risposta, che spetta a me». Un fragoroso applauso dal vicino mercato del pesce e, visto che la Wuhan del 2020 non è la Budapest del 1847, qualche noia in più dalle autorità. Tranquilli, però, perché anche qui, se lazzardo coglie nel segno, cè la statua. Dopo morto, vabbé, ma non è il caso di star troppo a sottilizzare.
Stessa cosa accade al clinico, chessò, unanestesista (qui con l’apostrofo, perché si tratta di una donna, la dottoressa Malara) che, all’arrivo di un paziente all’Ospedale di Codogno con febbre, dispnea, ecc., né cinese, né proveniente dalla Cina, decide di fargli un tampone perché sospetta possa trattarsi di Covid-19. Non dovrebbe farlo, perché nel caso di specie i protocolli non lo prevedono, e i protocolli sono stati stilati da ricercatori in vari campi (infettivologi, epidemiologi, esperti di statistica, ecc., e tutti di altissimo livello, con un distintivo dell’Oms o dell’Iss appuntato al bavero della giacca), eppure lo fa, a rischio che le detraggano dallo stipendio il costo del tampone, se il risultato depone per una polmonite da pneumococco, però portata in spalla come la statua della Madonna, se ingarra (pare che la statua, in questi casi, sia una costante).
Speriamo capiti eguale sorte al professor Spagnolo, che, senza essere un ricercatore (è primario di cardiochirurgia presso l’Ospedale di Monza), si è permesso di dire che col Covid-19 si muore per tromboembolia polmonare e che dunque un farmaco antitrombolico come l’eparina sia risolutivo, quando somministrato in tempo utile, ad evitare la morte del paziente, che è morte da tromboembolia polmonare provocata dal Sars-coV-2. Suppongo non sia difficile intuire cosa implichino queste affermazioni. Sul piano clinico, darebbero spiegazione di molte cose, in primo luogo del perché i morti da Covid-19 siano nella stragrande maggioranza soggetti che per età e comorbilità sono più portati ad avere una tromboembolia polmonare. I problemi, però, nascono sul piano della ricerca, perché come ha prontamente fatto notare il professor Klein de noantri a chi gli chiedeva un parere su un’ipotesi che non veniva formulata da un ricercatore ma da un clinico: «Le notizie affidabili non arriveranno da un medico anonimo, ma dal New England Journal of Medicine o da The Lancet». E qui c’è da rilevare che, in attesa della eventuale statua, al clinico che si è azzardato a formulare un’ipotesi non sono concessi neppure il nome e il cognome che ha.
Speriamo che il New England Journal of Medicine prenda in considerazione l’eparina, così, se l’ipotesi di Spagnolo si rivelerà una cazzata, potremo tutti tirare un sospiro di sollievo al sapere che la ricerca è riuscita a preservare l’intangibilità del suo perimetro. Questa soddisfazione, però, pare sia destinata ad essere rimandata: al momento il New England Journal of Medicine sta prendendo in considerazione il Remdesivir, e pubblica uno studio sull’impiego del farmaco in 61 pazienti, 8 dei quali esclusi ai fini delle conclusioni sugli effetti. Studio, dunque, sugli effetti del farmaco in 53 pazienti. E gli autori dello studio sono 56. A dimostrazione che la ricerca non lesina energie.



23 commenti:

  1. Ad ascoltare (tanti) clinici, però, adesso dovremmo riempire di idrossiclorochina i pazienti covid. Il che, spero ne converrà, è una stronzata.

    Come altro possiamo verificare ipotesi cliniche se non con studi controllati?

    Poi certo, mica tutto quello che pubblica il nejm è oro, e quello studio vale quel che vale (poco, e nelle conclusioni lo riconoscono), ma non mi viene in mente una soluzione migliore di studi in cieco per verificare le ipotesi cliniche.

    PS: il messaggio che circolava su WhatsApp - cui Burioni si riferiva - era effettivamente anonimo e scritto da un (sedicente) medico di pavia

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    1. https://www.adnkronos.com/salute/farmaceutica/2020/03/30/coaronavirus-burioni-anti-malarico-sembra-utile-per-prevenire_rooKeAyGE7IYYM5CcyEXWK.html

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    2. temo che abbia interpretato il mio commento come una difesa del personaggio piuttosto che della tesi.

      l'articolo che linka, comunque, non fa una grinza: parla di punto di partenza e non di arrivo, cita la necessità di studi clinici e mette in guardia contro gli effetti collaterali.

      e appunto, ribadisco la domanda: che alternativa c'è agli studi clinici peer reviewed su un giornale credibile per verificare interessanti ipotesi cliniche?

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  2. Immagino che la parola "compassionate" sia la parolina magica per sperimentare farmaci eliminando parecchi paletti etici giusto?

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    1. Poi però la casa farmaceutica ti paga viaggio, vitto e alloggio per tre giorni di congresso in luoghi paradisiaci, con la possibilità di portare con te tua moglie o, a piacere, il paletto etico.

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  3. Espongo le conclusioni della mia ricostruzione dei fatti, sperando di non aver preso abbagli: il Klein de noantri, di cui lei non fa nome e cognome, secondo me si chiama Roberto Burioni. Al contrario, quello che Burioni dice essere un medico anonimo, come scrive sopra un suo lettore, sarebbe effettivamente un medico anonimo (che potrebbe non essere, anzi secondo me non è, medico): qualcuno che fa girare messaggi su WhatsApp (sono messaggi che tipicamente espongono le conclusioni con certezza scientifica, non come ipotesi).

    Lei credo che si riferisca al seguente commento di Burioni:

    Idrossiclorochina, tocilizumab, eparina e altri sono farmaci usati nell'emergenza e per i quali non esistono al momento prove di efficacia.

    Dobbiamo aspettare, ricordando che le notizie affidabili non arriveranno via whatsapp da un medico anonimo attraverso la chat del calcetto o dei genitori della scuola, ma da The New England Journal of Medicine o da The Lancet e le troverete istantaneamente su Medical Facts di Roberto Burioni.


    Da notare che Burioni non si riferisce solo all'eparina, ma anche, a titolo di esempio, alla idrossiclorochina, di cui egli stesso ha suggerito l'uso in via sperimentale, poiché dai suoi studi in vitro ritiene di averne dimostrato l'efficacia. Questo dovrebbe sgombrare il campo dai dubbi sul fatto che il Klein de noantri stesse facendo distinzione tra clinico e ricercatore, poiché ha di fatto nello stesso messaggio sconfessato chi anonimamente divulgasse notizie false sulla dimostrata efficacia clinica anche di farmaci da lui stesso testati in vitro. In definitiva, secondo Burioni, la dimostrazione in sede clinica prevale su quella di ricerca in laboratorio.

    Per quanto concerne il nostro Salvatore Spagnolo, egli certo anonimo non è, né tantomeno il primo ad essere arrivato a queste conclusioni. Clinici e ricercatori infatti hanno già pubblicato studi sulla possibile efficacia clinica dell'eparina, che peraltro il CTS dell’AIFA ha già incluso nella tabella dei farmaci di cui si sta facendo uso off-label.

    Fermo restando che anche pubblicazioni sulla superficie prestigiose possono prendere abbagli non indifferenti, come quella citata da lei stesso dell'imperial College di eminenti epidemiologi, che hanno adesso dovuto correggere la loro stima dei contagiati presunti in Italia, che sarebbero dovuti essere 6 milioni il 28 marzo e invece dopo due settimane, invece di aumentare, secondo i loro stessi modelli, sono diminuiti a 2 milioni. Per fortuna i governanti non si fanno informare da singoli gruppi di ricerca, ma da esperti di estrazione diversa.

    Le segnalo quindi alcuni link, tra cui troverà (questo sì, Burioni forse non ne è al corrente) una lettera al NEJM in cui si espone il problema della coagulazione, oltre ad altre riviste scientifiche e ad un medRXiv, dove si discute tra le altre cose di eparina, per concludere con semplici siti web di divulgazione medico scientifica:

    Coagulopathy and Antiphospholipid Antibodies in Patients with Covid-19

    The versatile heparin in COVID‐19

    Anticoagulant treatment is associated with decreased mortality in severe coronavirus disease 2019 patients with coagulopathy

    The potential of low molecular weight heparin to mitigate cytokine storm in severe covid-19 patients: a retrospective clinical study

    Covid-19 and coagulopathy – two management guidance documents for health care professionals

    Anticoagulation guidance emerging for severe COVID-19

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  4. Ho integrato con una breve indagine. Probabilmente Spagnolo si differenzia comunque dagli altri nella misura in cui propone l'eparina addirittura sin dalla comparsa dei sintomi, in particolare febbre. Mentre in generale se ne valuta l'uso nei casi di estremo aggravamento. Spagnolo non ne considera l'eventuale modo antinfiammatorio di azione, ma solo anticoagulante, e come tale poco efficace se somministrato tardivamente.

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  5. A proposito di riviste prestigiose, riporto un aneddoto preso da "La realtà al tempo dei quanti" di Federico Laudisa.
    John Stewart Bell è stato uno dei fisici teorici più importanti del '900
    e un articolo pubblicato nel 1964 è uno dei lavori fondamentali nel campo della meccanica quantistica.
    "In quegli anni, e ancora adesso, la rivista più prestigiosa per la comunita dei fisici era la Physical Review: la pubblicazione su una rivista simile avrebbe garantito a Bell un'attenzione ben superiore a quella che registrò effettivamente. Il problema era che la Physical Review chiedeva agli autori di pagare una certa somma per ogni pagina dell'articolo e Bell in quel momento non disponeva di fondi sufficienti.
    La scelta ricadde allora su Physics, rivista che non soltanto non richiedeva contributi economici ma anzi pagava gli autori per i loro contributi.
    (J.S.Bell, On the Einstein-Podolsky-Rosen Paradox, Physics,1,1964, pp 195-200)



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    1. Questa non la sapevo, e sì che la Physical Review mi era sempre sembrata un "giornale credibile".

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    2. «Questa non la sapevo, e sì che la Physical Review mi era sempre sembrata un "giornale credibile".»

      Lo è. Io non ho mai pagato e non conosco nessuno che abbia mai pagato. Non ho neanche tempo di verificare questa storia e non credo che ne valga la pena.

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    3. Dal sito dell'American Physical Society
      https://journals.aps.org/prl/authors#pubcharges

      "The Physical Review journals provide authors with an online, web-based interface, SciPris™ , to pay for various author charges, including applicable publication charges, charges for color figures, and reprints.
      Publication Charges: To help defray editorial and production expenses, authors of published Letters are expected to pay a publication charge of $800 ($295 for a Comment or Reply). Charges for color figures and reprints are separate from publication charges.......
      Color Figures Charges:
      The charge is US $1060 for a single color figure in print and $575 for each additional color figure."

      Non ho neanche tempo di tradurre queste frasi per Paolo de Gregorio e non credo che ne valga la pena.

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    4. @ Mariolino parte 1
      D'accordo, mi sarà uscita male e me ne scuso. Ma è estenuante dover correggere su base quotidiana chi conosce la scienza e le sue pratiche dal di fuori e non sta nemmeno a sentire chi ci sta dentro, quando afferma una cosa, e chiede di tradurre quello la cui traduzione evidentemente non ha colto. Ormai è una sorta di secondo lavoro per chi non solo se ne occupa, ma tenta di presentarne un'immagine veritiera verso fuori, con tutti i difetti che ha (sì, non è una novità che essendo fatta di uomini è funestata dagli errori, non ultimi quelli di valutazione di merito). Come in questo caso perché invece di credere alla mia testimonianza mi costringe a perdere una mezz'orata per tentare di documentare quello che ho affermato. Preciso anche che Bell è uno dei miei miti. Del resto anche dopo il 1905 ad Einstein fu rifiutato un posto in università con l'argomentazione che le sue ricerche erano di scarso interesse.

      Traduzione: "authors of published Letters are expected to pay a publication charge" (mia enfasi).
      Sa cosa vuole dire "are expected to"? Che non sono obbligati, altrimenti avrebbero scritto "must". Le arriva un'email: se vuole pagare paga, poi non li sente più. Mi è stato confermato che la pratica non è cambiata da quando ci passai io in qualche occasione. Non solo, e posso documentarlo con altre pagine dello stesso sito: per tutti i PR tranne PRL si è esentati se si usa revtex o simili, mentre per PRL vige un forte sconto. Quindi quella cifra non è nemmeno quella che chiederebbero (perché inoltrando formato elettronico risparmiano lavoro editoriale). Discorso diverso per figure colorate a stampa e, ovviamente, se si vuole pubblicare open access: allora sì, si "must" pagare.

      Prenda un campione di articoli, scriva al corresponding author e chieda.

      Io non so al tempo di Bell, se c'era una quota da pagare perché c'era del lavoro redazionale da fare che oggi non c'è, o fu lui a farsi spaventare da un analogo "expected to”, magari per retropensieri etici. Oggi come oggi anche chi ha fondi di ricerca se vuole non paga; poi certo, è una questione culturale e di stile. Ma il punto era che questa cosa poco dimostrava della rivista: PRL avrà rifiutato una carrettata di lavori geniali e accettato una marea di stupidate. È il peer-review process e quello editoriale: sono fatti da uomini. Cionondimeno il rendimento medio è senza dubbio dignitoso e la rivista è serissima.

      Nel prossimo messaggio offro qualche link, solo un estratto di quel che si può trovare in rete.

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    5. @ Mariolino parte 2
      Legga questa discussione:
      "What are your options? You can pay or delete the email.
      If you pay, your group will have $765 less. That's the only difference in outcomes. These charges are completely voluntary and have no effect on anything if you choose not to pay. In my experience, you'll never hear about this again. You will not have to justify your decision.
      What do most people do? From my observations, the majority of groups simply don't pay voluntary charges, regardless of available funds.
      What should you do? This is a matter of opinion. You (or the PI with the money) should decide whether APS deserves a $765 donation for the purposes they state, or whether it can be put to better use at your institution."

      Dal giornale stesso: Properly prepared electronic submissions that can be used directly in the APS electronic editorial process are eligible for a publication-charge discount..

      Dalla pagina wiki: Though not fully open access, Physical Review Letters also requires an author page charge, although this is voluntary

      L'aneddoto, carino, ci ricorda la varietà della nostra sociologia. Nemmeno però a dire che fu rifiutato: Bell si scelse un'altra rivista. Qui parla una persona che ritiene che gli autori dovrebbero essere sempre pagati. Questo è però il sistema. Le università ed enti finanziatori pagano il personale che fa un lavoro per acquistare il quale le università pagano una seconda volta (sottoscrizioni alle riviste). O altrimenti per l'open access adesso pagano subito, invece che dopo. Questo processo, se di impatto negativo, lo dobbiamo alle leggi di mercato, non al mondo della scienza. È la politica editoriale più diffusa dalle libere leggi di mercato, che facilitano e al tempo stesso ostacolano il processo e progresso del pensiero in questo e altri mille modi. Se vuol un parere da me, questa roba la dovrebbe pagare tutta la comunità (in parte già lo fa), se proprio lo vuole sapere, perché la scienza è al servizio della comunità ed è il motore ultimo che consente l’arricchimento, attraverso il byproduct rappresentato dal progresso tecnologico.

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  6. "Contributi (il famigerato publication fee) per la pubblicazione sono richiesti anche da riviste rinomate. Essi possono andare, mediamente, dagli ottocento ai tremila dollari (ma con punte di cinquemila).
    ...Viene da domandarsi perché le riviste ad accesso gratuito dell’area umanistica (a differenza di quelle scientifiche) non chiedano nulla agli autori per la pubblicazione di un articolo.
    Forse perché in campo scientifico (soprattutto medico) ci sono in ballo interessi economici molto forti (finanziamenti, brevetti), dunque vale la pena investire soldi per la pubblicazione."

    Matteo Veronesi
    http://www.pangea.news/editoria-accademica-fino-a-5mila-euro-per-pubblicare/

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  7. Per il New England Journal of Medicine non lo so ma per The Lancet ecco
    quanto costa pubblicare un articolo.

    Article Processing Charges upon acceptances:
    The Lancet Digital Health – US$5000
    The Lancet Global Health – US$5000
    The Lancet Microbe – US$5000
    The Lancet Planetary Health – US$5000
    The Lancet Public Health – US$5000

    (https://www.thelancet.com/open-access)

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  8. Non posso sapere la storia di tutte le pratiche in tutti gli ambiti scientifici. In quelli che conosco la storia è più o meno questa: esisteva solo la carta e oltre alla stampa bisognava pagare gli editori (che coordinano anche il peer-review) ed il personale, che spesso doveva tra le altre cose dattaligrafare ciò che si riceveva. Siccome nulla cresce gratis, qualcuno doveva pagare questo lavoro. Quindi gli articoli venivano rilegati in riviste da offrire al pubblico.
    Caso A: l’istituzione si pubblicava da sé e ci metteva i soldi.
    Caso B: l'editore non era un'istituzione (o ne era una costola) e voleva rientrare delle spese e farci anche un margine di profitto, se possibile.

    Risultato: l'utilizzatore deve pagare. E chi è l'utilizzatore? Università o enti di ricerca. Quindi si pagavano le sottoscrizioni.

    Un bel giorno arriva l’Open Access: “la scienza non dovrebbe essere a portata di tutti, anche dei poveri”? Certo che dovrebbe. Qualcuno è disposto a lavorare gratis o investire soldi in perdita? No. Quindi chi paga? Gli autori con i loro fondi, cioè chi finanzia la ricerca.

    Fine della storia.

    Due domande. La prima: quale è il passaggio logico che mi sono perso, che fa sì che dalle leggi del profitto del mondo editoriale farebbe eventualmente ricadere il vulnus originale sulle pratiche legate ai brevetti e cose del genere? Non sarà forse che invece è il sistema editoriale a far da sanguisuga, per prendersi la sua (legittima, per carità) fetta dei mega finanziamenti che circondano gli studi scientifici medici e farmacologici?
    La seconda: nel mondo umanistico nessuno paga nulla? Chi edita?

    Ora, se si pone il problema se questo si traduca o meno in un abbassamento del livello scientifico, ci rimane ancora una cosa da fare: falsificare, o come dice bene Castaldi, inficiare i prodotti finali, cioè i risultati pubblicati. Qualunque quota chieda TheLancet o chicchessia per l’Open Access, quel numero non dimostra se i risultati pubblicati sono giusti o sbagliati, ma solo (cosa che sapevamo) che sottostiamo tutti alle leggi del mercato e la ricerca scientifica non ne è svincolata. Se non siamo d’accordo su questo non credo che io sia in grado di seguire altri ragionamenti più sofisticati.

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  9. @Paolo de Gregorio
    D'accordo quasi su tutto. Anche io ho un brutto carattere e me ne scuso. Non sono un fisico (il mio campo è la biologia molecolare) ma la storia della fisica è la mia passione da quando sono in pensione. Sul peer-review ci sarebbe molto da discutere ma non è questo il luogo.
    La saluto con amicizia.

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  10. In base a quel che avevo letto, o m'ero illuso di capire, la vicenda dell'oculista cinese m'era parsa un tantino più prosaica dalla versione liturgica (quella da imparare a memoria e ripetere ad lib., che mi sembra sia presa per buona anche in questa sede): il nostro eroe, a un certo punto, avrebbe ricevuto notizia di alcune (altrui) diagnosi preoccupanti, e si sarebbe limitato a inoltrarla a qualche collega su una chat privata; il suo primo messaggio dovrebbe essere stato qualcosa di non troppo dissimile da: "ci sono sette casi confermati di SARS all'opedale tal de tali; mettete in guardia i vostri cari; occhio a non far girare troppo la notizia"; un'ora dopo avrebbe aggiornato i conversanti parlando di una variante da identificare di coronavirus (o qualcosa del genere); in mezzo, avrebbe diffuso materiale tipo cartella clinica con annessa TAC.

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